Quella volta che ho incontrato Michael Keaton

scritto da Michele Silvano

Una volta ho avuto la fortuna di incontrare Michael Keaton. Quello che tra la fine degli anni ’80 e inizio ’90 ha fatto Batman, tra le altre cose. In realtà mi è capitato più di una volta. Ma mi tocca andare con ordine se no non si capisce bene quello che ho da dire, e cioè che siamo tutti destinati a fare la stessa fine. È un mondo questo che non ci si crede.
Avevamo questa casetta nell’Appenino abruzzese che era un amore. Una di quelle abitazioni in mattoncini colorati, col tetto tutto ricoperto di rampicanti e mattonelle in tufo, da cui una simpatica canna fumaria sprigionava CO2, giorno e notte, come se piovesse. Si respirava un’atmosfera libera e sognante, come solo nelle migliori fiabe!
Mio padre lo chiamava il “nostro casotto nel bosco” e allora io gli ricordavo che l’utilizzo del termine “casotto” era improprio perché di natura dialettale e poteva valere come sinonimo di “casino”, che, come capite bene, rimanda a cose che mal si associano a un contesto fiabesco. Allora lui mi guardava con occhioni stanchi e mi diceva «Smettila di scocciarmi! Non vedi che ancora devo finire la signora Detassis? Va’ a giocare di là, ma per l’amor di Dio, non avvicinarti all’acquario! E soffiati quel cazzo di naso.»

Camminavo per il sentiero del Lupo quando l’ho visto per la prima volta. Non ci potevo credere. Aveva sto’ zuccotto di lana che gli copriva un cranio ancora pieno di capelli e occhi azzurri bellissimi, da mangiarlo guarda.
Avevo riconosciuto il passo, l’inconfondibile camminata da Batman, decisa come chi guarda il mondo dall’alto e si rivolge agli sconosciuti dandogli del “tu”. La cosa che me lo rese simpatico da subito, una volta resomi conto che sì, era effettivamente lui, il mio idolo, mr. MichaelmotherfuckingKeaton, era il fatto che se ne andasse in giro ascoltando musica a tutto volume da un Walkman giallo come una spiga. Riuscii a riconoscere la melodia di un pezzo meraviglioso di quegli anni meravigliosi, Take on me degli A-ah, che il signor Keaton canticchiava con gioia, sebbene fuori tono, lasciando che le gambe ondeggiassero liberamente alla tiepida brezza boschiva.
Era il ritratto della spensieratezza. Lo invidiai tanto. Ma per la vergogna non dissi niente, ero troppo troppo emozionato. Così tirai dritto e proseguii la mia solitaria camminata del mattino.
Amavo camminare nel bosco, sentire sulla lingua l’aroma delle foglie innaffiate di rugiada. Guardavo le punte degli abeti che svettavano in alto, sopra la punta del mio giovane naso e mi fermavo a fantasticare sull’esistenza. Pensavo a mia madre. E al cotechino con le fave che ci appioppava, immancabilmente, ogni domenica: hai voglia a dirle che ci faceva star male di stomaco, nulla, non eravamo autorizzati a fiatare. Oppure la mia mente andava ai sorrisi dei bimbi che, per qualche strana ragione, assomigliavano tanto ai raggi del sole che atterravano con estrema delicatezza sulle fronde delle querce. Ma soprattutto, ricordo, pensavo al disastro nucleare di Chernobyl e a come avesse disgraziatamente messo la prima e più pesante pietra sulla tomba di quel colosso chiamato URSS, capace come nessun altro di incutermi timore e venerazione allo stesso tempo.

Quando vidi Michael per la seconda volta (mi perdonerete se lo chiamo Michael), feci un lunghissimo respiro, presi coraggio e alzai una mano in segno di saluto. Era il mio modo impacciato di dirgli “Ti rispetto, Michael”. Lui, carinissimo, accennò un sorriso e disse «Hey, Buddy! Howsagoing?» prima di allontanarsi sulla scia di quel turuturuttuttuturutu che era ormai diventata la colonna sonora dei nostri fugaci incontri nel bosco.
Quella sera a tavola raccontai al mio babbo del secondo e fortunatissimo incontro, avevo necessità di condividere la mia eccitazione con qualcuno.
«Che cazzo ci è venuto a fare Michael Keaton nella Majella?» disse il babbo, «Che poi, se posso, non è manco questo gran che. Zero capacità mimetiche. Classico belloccio messo lì per portare ragazzine infoiate e vecchie carampane al cinema. Roba che il mio trapano se la caverebbe meglio davanti a una m.d.p! A me piace Michel Piccoli.»
Un po’ mi dispiacque perché il babbo di cinema e robe varie ne sapeva a pacchi, però il parere di un esperto non può minimamente intaccare un’emozione quando ci arriva così forte così sentita, dico bene? A ogni modo.
Fu solo al terzo incontro che trovai la forza di parlargli. Me lo ritrovai davanti all’improvviso, bronzeo e muscoloso come solo un attore di Hollywood, California, sa essere.
«I’m a big fan of yor muvies, mr. Keaton» dissi soffocando il tremito della voce, «I love Batman.» Era la prima volta che parlavo con un tipo della Tv. Michael mi guardava con gli occhi di un cerbiatto curioso, e la boccuccia che si schiudeva in un mezzo sorriso.
Non scorderò mai il candore della sua strapazzata, il modo delicato con cui mosse la mano testosteronica lungo la zazzera di ricci che mi contraddistingueva ai tempi.
«Grazii mille, my man. Much appreciate it.» E per un attimo ci guardammo negli occhi e ci sorridemmo, di cuore. Come vecchi amici.
Allora mi sentii in diritto di azzardare una domanda. Ma più per togliere uno sfizio al babbo che per curiosità personale.
«Mr. Keaton, sorry, why here? In Abruzzo?»
Ed ecco che lui, l’Uomo Pipistrello, mi penetra le pupille con uno sguardo che Dio se conoscevo bene. «What sort of question is that?» dice indignato, «You already know the answer: to find my old self.»
Mentirei se dicessi che avevo capito il senso di quelle parole. Il mio inglese era basico e la posa assunta dal mio eroe sembrava così seria così solenne, che non mi venne da ribattere proprio nulla.
«Thank you» dissi.
Feci per andarmene ma qualcosa me lo impedì. Era la mano di Michael sulla mia spalla: una presa decisa, come se avesse scelto di concentrare tutta la forza da supereroe nel solo palmo della mano. Non riuscivo a muovermi. E quando alzai lo sguardo vidi quegli occhioni blu farsi carichi di lacrime.
«I need to ask you something,» disse Michael Keaton, «do me a favor, would ya?», ma non capiva che io non capivo, o non gli interessava affatto. «Would you grab my testicle?» disse indicando il rigonfiamento all’altezza del cavallo. Cominciai a tremare. Non possedevo certificazioni linguistiche, è vero, ma il gesto era inequivocabile.
«Mr. Keaton…» dissi ma la voce mi si bloccò in gola. Lui scambiò quella esitazione per sussiego e in un amen si tolse i calzoni e mi sbatté in faccia il testicolo. Seppi allora che Batman, con mia enorme inquietudine più che sorpresa, aveva un solo, spropositato, schifoso bastardo, delle dimensioni di un cocomero.
«Mr. Keaton» feci io piangendo.
«C’moonn. Just a quick one!» e la sua destra afferrò la mia sinistra – una presa ancor più feroce della precedente – e questa a propria volta finì a contatto con le umide pareti del testicolo. Glabro e splendente come una palla di cannone. Rabbrividii. Per carità, adesso non voglio passare per ciò che aborro e detesto – un intollerante – voglio dire, il coglione di Batman era morbido e tutto sommato piacevole al tatto, ma un testicolo resta pur sempre un testicolo, e il piacere scompare se si è costretti a palpeggiarlo.
«Grab it! Grab it, motherfucka!»
«Mr. Keaton…»
Realizzai presto che non avevo altra scelta se non sottostare al volere del mio nuovo padrone.
Afferrai quell’abominio con una presa decisa e strinsi strinsi fino a che non si fece rosso, poi viola e infine nero dalla profonda sofferenza che gli stavo infliggendo. Ma la sofferenza, si sa, muta a seconda dell’occhio che la osserva. Scoprii una cosa nuova quel giorno, e ancora oggi la custodisco con gelosia dentro di me: saper soffrire è importante.
Sentivo il signor Keaton gemere e godere e urlare al vento parole sconnesse in quel suo strano accento della East Coast.
«Thank you! Thank you! Thank you!»
La mia stretta si fece serrata, inarginabile, il signor Keaton raggiunse l’acme del piacere e in quel preciso istante il suo testicolo esplose disintegrandosi nell’aria come la più innocente delle nubi atomiche. Allora gli occhi del signor Keaton si chiusero: il suo cuore smise di battere: Batman era spirato davanti ai miei occhi.
Io non piangevo più. E a essere onesti mi sentivo protetto dal pulviscolo di quella strana nube testicolare. E la gioia di uno spettacolo inedito, per un momento, ebbe la meglio sulla malinconia della fine. Forse, pensai, forse era così che Batman avrebbe sempre voluto andarsene.
Provai una irrefrenabile voglia di dire grazie, ma non lo feci. Approfitto di questo spazio allora: grazie, signor Keaton, grazie Batman. Ovunque tu sia.

A debita distanza dalla pattumiera

scritto da Federico Dilirio

Chi ha detto che non si ruba ai pezzenti? Lo stesso pezzente che si è fregato il mio cavo.
Ribalto ogni cubicolo e ne pesco uno sudicio: visto che hanno fregato il mio, io mi frego il loro. Certo che posso beccarmi una malattia, che domande, a ficcarmelo così, senza sterilizzarlo. Qui il più sano rifulge di vermi.
Poi sento fluire l’energia, la luce irradiare ogni fibra.
Il giorno dopo è tardi quando mi accendo. Ho la testa che scoppia. Mi maledico per non essermi staccato prima. Sono già usciti tutti a caccia di un lavoro, che non troveranno. Fuori piove, mi lavo lo schermo e la febbre precipita. Infilo l’impermeabile, alzo i tacchi: le gocce hanno valori inquietanti. Continua a leggere

Autunnale

scritto da Sara Mariotti

Il cibo al bar dell’ospedale è buono, si prendono cura dei familiari dei degenti.
C’è questo sandwich con fesa di tacchino, formaggio e maionese, il pane è ai cereali, potrei suggerire di aggiungere una foglia d’insalata, ma il verde scompaginerebbe l’armonia cromatica dell’insieme: una scala di colori che oscilla tra il bianco, il rosa tenue e il marroncino. Troppo appariscente il verde della lattuga, una nota chiassosa e inopportuna, stonerebbe.
Non sa di molto, credo sia inserito tra le opzioni a basso contenuto calorico, una forma di adesione al mesto regime alimentare a cui sono sottoposti i malati; è un niente che ha un sapore confortevole, perciò lo ordino quasi ogni giorno.
Di solito ci metto venti minuti a finire il mio sandwich, mi siedo in uno dei tavolini con vista sul cortile interno dell’ospedale, la mia pausa pranzo inizia quando finisce l’orario di visita.
Prima di sgomberare il tavolo che occupo, penso a quanti sandwich alla fesa di tacchino, formaggio e maionese mangerò ancora, quanti me ne mancano, o se mi mancheranno.
Le indicazioni degli ospedali sono ramificazioni tematiche, mi oriento per materia d’interesse, anche se non mi sfugge mai la freccia direzionale che porta alla camera mortuaria; può risultare un’attenzione macabra, e infatti la tengo per me, vorrei saper spiegare che la uso solo come un rituale per esorcizzare la tensione, ma cosa cambia: è terrificante lo stesso. Continua a leggere

Polaroid

scritto da Valerio Russo

In bilico sulla sedia, col peso della testa sorretto dal gomito, Alberto osservava i girasoli al centro del tavolo, immaginando una colazione a due illuminata dall’arancio vivo dei petali al mattino.
Tuttavia, per Alberto quei girasoli non erano solo un modo per rievocare il primo appuntamento, ma stavano diventando la bussola con cui tenere traccia del trascorrere del tempo. Considerò la leggera penombra che si andava diffondendo nel cucinotto e sentì di essere in ritardo rispetto all’orario reale della giornata. L’orologio da polso segnava le sedici, anche se probabilmente erano già le diciotto di un pomeriggio molto più scuro di quanto il sole dava a vedere. Doveva essergli successo di nuovo.
Non era un problema risolvibile da un orologiaio il suo: per quanto ne sapeva gli ingranaggi non necessitavano di riparazioni, a meno che non si dovesse riparare anche il sole. Aveva ormai realizzato che, pur avvertendo gli oggetti circostanti per come erano, con tutte le loro proprietà, li vedeva in ritardo rispetto alla loro configurazione temporale. Uno scherzo della percezione che gli si presentava sempre più spesso; a volte si trattava di minuti, altre di ore intere. Continua a leggere

Esser buoni

scritto da Emma Caterina Cori

Nessuno era mai riuscito a bollirmi in pentola: ero sempre scappata da ogni trappola che mi avevano teso, e anche da quelle che non mi avevano teso. La mia pelle – liscia, squamosa, resistente alle fiamme e ai temporali più violenti, mi rendeva invisibile ai predatori e perfettamente idrodinamica; ed ero forte come un ramo ancora verde che si piega e si piega ma non si spezza mai, e per anni ho desiderato solo di rimanere verde quel tanto che bastava da potermi piegare fino alla morte senza morire davvero. Continua a leggere

Quindici indizi di una possibile infelicità

scritto da Matteo Quaglia

1. Erano i giorni del condizionatore rotto, del basilico bruciato dal sole, le cui foglie marroni suggerivano dolorosa sopportazione.
Di una canzone di Calcutta ascoltata allo sfinimento, di una bottiglia di assenzio sul balcone. Era pur sempre estate. Soprattutto, era il periodo in cui il fuoco si era mangiato una fetta del contorno cittadino riempiendo il cielo di monossido. L’aria era un problema. I boschi avevano bruciato per settimane. Diversi tipi di uccelli erano migrati a Sud. La prudenza ci aveva imposto di restare per lo più a casa.
Giocoforza, durante quei giorni avevamo abdicato al rituale dell’abbronzatura. Gli stuoini, i Mojito, il sole che si tuffa nel mare tra le grida degli studenti brilli, tutta quella roba era stata sostituita dal velluto dei nostri divani “Plano Lux”. Possedevamo uno schermo da cinquanta pollici, regalo di certi zii di Sara che, quanto all’alta definizione, parevano intendersene.
A causa dell’incendio, inoltre, avevamo rinunciato a Mykonos. Sara ci era rimasta male. Aveva organizzato la vacanza per mesi; a nulla serviva la promessa che ci avremmo riprovato l’anno successivo. Continua a leggere

Il problemino

scritto da Guendalina Bruni

Il giorno dei miei otto anni mia madre preparò una torta insieme alle altre detenute nel cucinotto di servizio. Non ci facevano entrare nessuno li dentro, eccetto quelle che organizzavano la cambusa per la mensa. Mamma convinse Pina a farglielo usare, le avrà detto che otto anni ce li ha avuti anche il suo di figlio, Pina avrà stretto le palpebre e le si sarà scaldato il cuore. Lì dentro ero un po’ il figlio di tutte, mi avevano visto nascere. Gli altri bambini dopo un po’ uscivano insieme alle madri o venivano dati in affido. Io no. Quella era casa mia; non avevo ancora trovato una famiglia che mi prendesse. Forse per via del problemino: sbandavo e sbattevo dappertutto, contro gli stipiti delle porte, gli spigoli dei mobili, contro ogni cosa mi si trovasse davanti; ero continuamente cosparso di lividi. Nelle giornate più sfortunate, oltre a sbattere, inciampavo nei piedi di tavoli e sedie, a volte finivo anche giù per le scale. All’inizio sembrava fosse un “banale problema alla vista”, così aveva detto il medico del penitenziario: «Tranquillo è normale se nasci qui dentro, un paio di occhiali e il problema è risolto». Continua a leggere

Sangue nero

scritto da Felicia Buonomo

«e nessuno ti vede,
e nessuno ti vuole
per quello che sei».

(Mimì sarà – Francesco De Gregori)

Percorro 23 chilometri per andare al lavoro, circa un’ora di strada, con traffico moderato. All’andata, mi fa compagnia una parvenza di serenità. La via del ritorno assomiglia, invece, a un guaito che si espande prepotente e irrimediabile nel circostante. Questa dualità emotiva mi accompagna da più di due anni.
Soffro la più nera delle solitudini interiori.
Nera come il sangue seccato del cagnolino che da tre giorni incontro all’imbocco della tangenziale. Si estende lungo tutto il perimetro del corpo, che se ne sta lì, rannicchiato, come se qualcuno – dopo averne provocato la morte – l’abbia messo comodo, in una posizione anche visibilmente piacevole per i passanti occasionali; come se questo servisse a evitare l’indifferenza che io per prima agguanto, trasformandola in scudo. Il sangue nero, la sua simbologia con la solitudine, tuttavia, ci accomuna.

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Prima di tutto

scritto da Marcello Luberti

Accadde prima che tutto si mettesse a correre e diventasse frastuono e insensatezza.
La crisi petrolifera aveva appiedato l’Italia da novembre. Nei giorni di festa non circolavano le macchine e Chieti sembrava desolata e fuori dal tempo. Per giunta, nevicava dal 23 dicembre.
Incaciava, come si dice da quelle parti.
Quel termine fu la conferma, sì, siamo ancora noi, la domanda che fece mia madre Antonietta sulla soglia di casa quella sera della prima neve.
Allora, Marce’, sta ‘ncacià, sta facendo sul serio? Continua a leggere

Discotechina cotechina

scritto da Pierfrancesco Trocchi

«Ma queste case sono in vendita?».
«Sì, bifamiliari a 130 mila euro l’una».
«Ah! Beh, niente male».
«Sì, ma sei a Palata Pepoli».
All’ultima risposta Luca resta a guardarmi con un sorriso sfranto, ha usufruito con nonchalance di cinque cicchetti, di cui gli ultimi due di whisky, il che ha avuto un effetto straniante su di lui perché non si ricordava che il nettare del nord lavora a rilascio controllato e appena ti siedi sfascia e turbina e immalinconisce. Andrea sta contemplando la campagna e mi chiede se quell’appezzamento di fronte casa sia mio, io rispondo di sì e che me ne faccio di poco, perché da questo luogo vorrei congedarmi e volare come un aliante senza rumore sfruttando le sacre correnti del tempo, eppure mi trovo sempre qui a scrivere di quanto vorrei andarmene. Ritorniamo sul discorso delle case e ci rendiamo conto che a Palata probabilmente non se le comprerà proprio nessuno, occorre un certo autolesionismo e soprattutto occorrono figli – si chiamano “bifamiliari” per un motivo -, così ci rendiamo conto che abbiamo tutti passato i trent’anni e che il problema di quest’Italia misera e sbruffona siamo noi tre senza nemmeno una donna cui prospettare il fascino di una vita insieme. Continua a leggere