La prima volta, un giovedì sera, Lidia aveva bevuto le gocce e si era infilata nel letto dimenticando di spegnere le luci. Al risveglio aveva trovato la casa illuminata in modo innaturale. Le era sembrato tutto troppo giallo. Era gialla la porta del bagno, erano gialle le pareti del corridoio, era giallo il suo riflesso nella finestra in cucina. Quando aveva capito, era corsa per le stanze a spegnere gli interruttori; quindi aveva iniziato la giornata: un bagno caldo al mughetto, una tazzina di caffè con due fette tostate, un salto alla Coop del quartiere. Aveva fatto tutto come sempre, solo non riusciva a ricordarsi di aver preso le gocce prima del solito giro di controllo della casa. Le sembrava anche di avere sognato, ma non avrebbe saputo dire cosa. I sogni non la raggiungevano mai.
La seconda volta, un venerdì, aveva scordato di chiudere a chiave la porta di casa. Se ne era accorta al mattino – molto dopo il bagno al mughetto e il primo caffè –, quando era scesa in cortile a buttare la spazzatura. Si era fermata a salutare il portiere col sospetto confuso che potesse essere entrato in casa durante la notte a cambiare di posto ai suoi oggetti come cambiava di posto alla begonia e ai cassonetti della raccolta differenziata. Ma lui sembrava tranquillo – il solito cenno del capo, il solito sguardo annacquato – e forse era stata lei a spostare il vaso di peonie all’ingresso. Le comprava da maggio a luglio, era un piccolo lusso che si concedeva d’estate. Suo padre le amava; gli altri fiori li vendeva e basta. Da bambina, Lidia passava i suoi pomeriggi in negozio: le piaceva aiutarlo, le piaceva infilare le dita nelle spugne idrofile, tirarle fuori e vedere che i polpastrelli erano verdi, le piaceva studiare nella stanzetta sul retro. Verso le sei, chiudeva i quaderni e andava di là, ogni sera portavano un fiore diverso alla madre. Non era un momento triste, serviva a scandire i giorni. Dopo andavano insieme alla Coop, di sabato al cinema. Continua a leggere →