Una donna fortunata

scritto da Maria Teresa Renzi Sepe

Quando raccolse il libro che era caduto dal comodino di Gianni, notò che sull’ultima pagina bianca c’era scritto “B”. Lucia aveva visto Gianni tornare a casa con quel libro una settimana prima; lui le aveva detto che gli avrebbe dato qualche spunto per migliorare le sue chance con i clienti “grossi”. Lei pensò che non dovesse essergli piaciuto molto, perché l’angolo superiore di pagina dieci non sembrava piegato di fresco. Ma a cosa – o a chi – si riferisse “B”, Lucia non lo capiva, tant’è che se ne stette qualche minuto, istupidita, con il libro in mano.

Prima della scoperta, Lucia aveva trascorso il pomeriggio a sistemare biancheria pulita nei cassetti, come tutti i giovedì. Quella mattina, come tutte le mattine, si era svegliata dopo Gianni che era sempre il primo a uscire. Aveva preparato la colazione a Marco Mario e Chiara Stella, cinque e sette anni: latte e cereali per lei, pane e Nutella per lui. Lei bevve un caffè amaro. Era il quarto giorno dopo il rientro dalle vacanze estive, che avevano trascorso in una villetta di fronte il lido Poseidone – non troppo lontana dall’ufficio di Gianni, così che potesse raggiungerli ogni pomeriggio con soli venti minuti di auto.
Dopo la colazione, Lucia aveva attraversato il vialetto con la sua Mini bianca per far visita alla madre che abitava in centro. Cinque giorni su sette le portava la spesa o i detersivi o i giornali di gossip o tutto ciò che potesse essere utile a una settantenne incapace a muoversi senza un bastone. A giorni alterni, Lucia si serviva da quel macellaio che faceva quegli spiedini, da quel fruttivendolo che vendeva quel tipo di fragole, ma anche da quel giornalaio che le teneva da parte tutti i numeri di Case e Giardini. Il suo era spirito pratico: non c’era motivo di cambiare qualcosa che funzionava già alla perfezione e che rispettava i suoi standard di qualità. Questi ultimi, poi, non erano né vaghi né pretenziosi. Erano dettami familiari, il frutto di consolidate tradizioni tramandate dalla madre della madre di sua madre alla sua, di madre, fino ad arrivare a lei. Lucia non si era mai fidata dei consigli degli altri e quando l’aveva fatto aveva trovato un osso nel macinato o gli asparagi marciti in due giorni nel frigorifero. In quelle occasioni, sua madre mostrava il suo lato peggiore, un disprezzo speciale che riservava solo a lei. Perciò, Lucia si era promessa di non dubitare più del buongusto di almeno tre generazioni precedenti alla sua.
Quando arrivò, sua madre era in soggiorno. Il suo profumo al sandalo sovrastava, ad intermittenza, l’odore del posacenere traboccante.
«Lucia, vieni in salotto! Hai preso le sigarette? Zia mi ha portato una cosa ieri, guarda qua!»
La “cosa” portata da zia era quasi sempre un cimelio, vecchio o nuovo che fosse, purché si ergesse a dimostrazione di una qualità passata, presente o futura di figli e nipoti. Di solito erano fotografie, ma potevano essere bracciali o collane, racconti o lavoretti di creta.
«Vieni qua, guarda questa» disse la madre senza staccare gli occhi da un pezzo di carta. Una foto ritraeva due bambine in sella alle loro biciclette su un terrazzo largo, luminoso e pieno di piante.
«Questa qui» sottolineò lei premendo il dito grasso sul volto di una delle due bimbe, «questa qui è Concettina. Te la ricordi?» Lucia la riconobbe come la bambina in calzoncini a destra.
«Sì che mi ricordo, ma’. Che fine ha fatto?»
«Eh!» disse la madre, rantolando divertita. «Fa la bidella all’Istituto. Ti ricordi che poi aveva divorziato?» Si soffermò con gusto sull’ultima parola. «Il figlio è partito per la Spagna e non s’è visto più.» E poi non disse nulla, perché tutto ciò che esulava dalle strade che conosceva erano luoghi ameni in cui accadono cose inimmaginabili o che si possono solo tacere.
«Concettina è sempre stata strana» disse Lucia, fissando con disappunto la bambina che era stata. E più strano era l’ex marito di Concettina, se lo ricordava bene. Era quel tipo di uomo che lei definiva “cafone vero”. Al matrimonio di lei e Gianni era talmente ubriaco che aveva costretto zia Loretta a ballare l’Hully Gully. Poi venne fuori che la povera zia si era slogata la caviglia; se la sarebbe rotta del tutto, se non fosse stato per Gianni che prese in mano la situazione e allontanò quell’uomo fuori dalla pista da ballo. Non lo diceva mai, ma lo aveva sempre pensato: era fortunata ad aver sposato un uomo come Gianni.
Accanto alla cinquenne Concettina, una bambina con un vestito corto fin sopra le ginocchia e una spallina calata sul braccio la osservava, sorridente.
«Ma tu, invece! Eri proprio grassa» disse la madre, indicandola. Lucia dovette distogliere lo sguardo, perché quella bambina non voleva saperne di smettere di fissarla dal terrazzo di quella che era stata casa sua.
«Senti, ma’, vado di fretta» disse con le chiavi dell’auto ancora in mano. «Le sigarette te le lascio sul tavolo. E non ti scordare che domani c’è il trigesimo di zio Arturo, vestiti bene.»

Sulla strada del ritorno, Lucia proseguì le commissioni. Comprò le uova di galline ruspanti dalla zoppa al mercato dietro il cimitero. Ritornò in centro, per acquistare cinquecento grammi di salmone norvegese in pescheria. Il caffè lo prese nella torrefazione accanto, gioiellino locale che resisteva al cambiamento dei tempi “dal 1977”. Infine, ritirò un chilo di fichi e tre cespi di indivia dall’alimentari sotto casa. Queste tappe Lucia le compiva quasi ogni giorno. I suoi acquisti la definivano, i luoghi in cui li effettuava pure, la velocità con la quale svolgeva il tutto era cronometrata. Come un’atleta, non poteva farne a meno, si allenava per una gara che non arrivava mai.
Preparò un pranzo troppo speciale per un semplice giorno di scuola. Non era un caso che tutti, ma proprio tutti, convenissero nel dire che il miglior campo d’azione di Lucia fosse la cucina. Era scrupolosa nella scelta degli ingredienti (sempre i più freschi in circolazione), dei condimenti (abbondanti) e dei tempi di cottura (frutto di prove e riprove nel corso degli anni).
Verso ora di cena, Gianni sarebbe rientrato a momenti. Lucia attese, con il libro in mano, seduta nel suo lato del letto. La risposta al mistero di “B” non era piacevole, perciò capì che era vera. Dopo aver revisionato tre o quattro possibilità (Il libro lo aveva comprato al mercatino dell’usato? Gli era stato prestato da un collega? Lo aveva preso in biblioteca e qualcuno ci aveva scritto sopra?), la soluzione più plausibile fu che lui le aveva mentito e che “B” stava per “Benedetta”, la babysitter ventenne che avevano assunto per occuparsi dei bambini in spiaggia. Doveva essere così, perché Lucia era una che i tradimenti li subodorava. Con le sue amiche, perlomeno, ci aveva sempre azzeccato: si capiva da come i loro mariti tenevano in mano il cellulare. Eppure, anche sforzandosi, non riusciva a ricordare come Gianni tenesse il suo, di cellulare. Non ci aveva mai fatto caso, perché non ce n’era mai stato bisogno. Il loro era un matrimonio giusto e il matrimonio giusto è quello di una coppia che non si lascia.
Nell’attesa, la stanchezza le scivolò addosso come pioggerella, bagnandola dalla testa fino alle dita dei piedi. Le ultime energie della giornata si prosciugarono e le venne fame. Di nuovo quella cazzo di fame.
Un rumore di chiavi tirate fuori da una tasca e girate nel chiavistello del portone risvegliò Lucia dal suo torpore: era Gianni. Si tirò su e gli corse incontro in ciabatte:
«Tidevodireunacosa» gli disse affannata. «Vieni di là.»
«Oh, così, di botto, non mi dai nemmeno il tempo di entrare?»
«É importante» chiosò Lucia.
Gianni sembrava stanco, oppure preoccupato? Il suo era già uno sguardo colpevole?
«Va bene, andiamo di là… Che c’è?» disse lui, togliendosi le scarpe.
«Stamattina…» disse lei, ma poi esitò, rigirandosi i polsi fra le mani. Gianni sistemava le scarpe e il cappotto, senza guardarla.
«…stamattina. Sono stata da mamma e mi ha fatto vedere una foto di Concettina. Te la ricordi Concettina? Eravamo piccole così» disse allargando il pollice e l’indice di circa cinque centimetri.
«E per ‘sta cazzata mi hai preso d’assalto? Si, si, me la ricordo» disse lui, continuando a rimestare fra le sue cose senza voltarsi.
«Ho fatto le tagliatelle al salmone.»
«Domani c’è il trigesimo di zio Arturo.»
Gianni sembrava non ascoltarla.
«…ho letto un po’ del libro che hai sul comodino, sembra interessante.» Alla parola “libro”, le sembrò che Gianni si irrigidisse. Ma poi si voltò e tirò fuori dalla ventiquattr’ore due pezzi di carta.
«Piantala con queste scemenze. Guarda che ti ho portato?» disse lui, sventolandole in faccia due biglietti per la prima di Giselle a Roma.
«Mi ami?» gli disse Lucia all’orecchio per non farsi sentire dai bambini.
«Certo che ti amo.»
Lucia capì che non era vero. Lo immaginò a scopare con Benedetta, ma poi rispose solo:
«Anche io» perché non era proprio un argomento da discutere prima di cena.
A tavola, Gianni fu particolarmente dolce. Lucia non lo vedeva così da tanto tempo, sembrava un Gianni che non ricordava più; o forse era proprio il Gianni di sempre, Gianni suo, Gianni che aveva sposato. “Sì, hanno scopato di sicuro”, pensò Lucia, mentre guardava la sua famiglia godersi la cena.

Nuova merda profonda

scritto da Noemi Eva Maria Filoni

All’epoca noi ci si trovava allo scantinato di via Balbo, e la giornata la passavamo a parlar male dei vecchi. Bastava che uno bussasse una certa musica contro la porta per capire che era dei nostri: ma finché erano facce giovani, facevamo entrare con abbastanza libertà. La maggior parte di noi lavorava, naturalmente, per le quattro generazioni di anziani: per questo il momento migliore per ritrovarci era la sera, quando ormai li avevamo già messi tutti a letto. Noi non volevamo davvero nasconderci, ma se qualcuno avesse saputo che c’era un gruppo di giovani, a Torino, che tutte le sere si radunava per bere e parlar male di questi vecchi a capo del mondo, ci sarebbe stato del fastidio. Non che avessero granché da temere. Noi non eravamo d’accordo con tante cose del Nuovo Sistema, certo, ma poi veniva sempre fuori che tutti avevamo almeno un quadrisavolo o una nonna-tris a cui voler bene. L’idea di far loro del male ci dispiaceva. E poi la violenza non era nel nostro credo, stava scritto anche nel manifesto. È per questo che finivamo per non combinare mai nulla. Questo fino al giorno che arrivò quel Pino.
Lui diceva: «Il mondo va avanti un funerale alla volta». Ed era pieno di rabbia. Ci parlava di scontro, di azione e ribellione. Noi rispondevamo: «Sì, Pino», perché anche se eravamo frustrati (e lo eravamo davvero), preferivamo non pensarci troppo. Finché, dopo gli eventi del 25 marzo, non fummo costretti a farlo.
Era accaduto, infatti, al 25 di quel marzo, che i telegiornali si riempissero di informazioni e annunci sulla Nuova Riforma. L’aspettavamo da tempo, la Nuova Riforma; più o meno dall’avvento dell’NS, da quando la vita s’era allungata cioè ai 160 anni; e speravamo che ci fosse almeno qualche punto dedicato a noi. Non fu così.
Lo guardammo tutti insieme dallo scantinato, il TG di quella sera. I vecchi alti e quelli di mezzo vantavano i traguardi raggiunti dalla Nuova Riforma, traguardi che però riguardavano solo loro stessi. Che rabbia! Saremmo stati degli infanti almeno fino ai trent’anni, ora, e senza fondi, per di più! Vecchia Riforma, vorrete dire! Urlavamo allo schermo, scoppiando a ridere solo per non piangere, o forse per sentirci più vicini ancora. Fu una fortuna, allora, che Pino fosse già nelle nostre vite, perché solo lui poteva avere il coraggio di dire: «Qui bisogna fare qualcosa».
Rispondemmo con il silenzio, che per noi voleva dire «Sì, Pino», e questa volta, fra tanta paura, lo intendevamo davvero. Abbassò il volume delle notizie, e noi ci preparammo ad ascoltarlo (capimmo subito che doveva dirci qualcosa di importante, credo che lo capimmo un po’ dal tono ma anche dalla postura, che era solida e imponente, l’esatto opposto della nostra).
Per prima cosa ci disse, «Gente, noi non siamo soli». Per seconda invece, disse, «Ho fatto un giro per l’Italia», «Ma che dici, Pino», e raccontò di come negli scorsi mesi aveva scoperto (e unito!) tante piccole comunità come la nostra. E disse che ora – ora che aveva imparato a conoscerci e che ci vedeva, finalmente, bollire di rabbia – «eravamo pronti pure noi».
«Pronti per cosa, Pino?»
«Ma come per cosa», disse lui, e quant’era bello mamma mia, forte e bello, e noi lo guardavamo dal basso come adolescenti innamorati. Ancor di più quando disse:
«È ora di una rivolta, gente».
L’idea ci eccitava e ci spaventava insieme, ma sapevamo che era proprio quella paura il prezzo da pagare per entrare nella storia. Soprattutto, eravamo contenti: eravamo stanchi, di tutti questi vecchi. Ma poi qualcuno dei nostri saltò fuori a chiedere:
«Pino, tu perché stai facendo tutto questo?»
Lui scosse la testa, come per scacciare via un brutto ricordo, e disse solo «Sentite, gente, vi va o no? Abbiamo indetto una riunione giusto questo giovedì. A Milano».
«Abbiamo chi?» chiedemmo noi, parecchio turbati.
E anche se Pino non rispose noi sapevamo di non avere alternative, da soli non eravamo mica organizzati, era questo il succo, e non potemmo far altro che andare a questa benedetta riunione.
La Riunione di Milano cominciò anche bene, si può dire, perché stavamo tutti in cerchio con le birre e chiacchieravamo, mentre qualcuno suonava alla chitarra una canzone indie molto nostalgica. Poi, quando sentimmo dall’altra parte della stanza voci che si alzavano, la tensione cominciò a farsi sentire. E chi poteva esserci, in mezzo, se non quel Pino?
«Ma non capisci», diceva. «Non esiste battaglia in campo aperto».
«E perché no?», urlò qualcuno di noi.
«Perché quella roba non esiste più», disse un’altra voce delle nostre.
Allora tutti intorno si zittirono, la chitarra smise di suonare e tutti, ma proprio tutti, dicemmo, anche se sfalsati:
«Un attentato».
Pino annuiva. E ci sembrò così vero, e così solenne, che non potemmo fare a meno di sentire l’orgoglio crescerci in petto, mescolato a una sana dose di stress.
«Anche una roba piccola. Ma dobbiamo fargli sapere che ci siamo. E che non accettiamo quello che stanno facendo. Non più!»
Ci fu un assenso generale a cui seguì, in modo molto naturale, un’adunata in cerchio, per discutere quale genere di attentato potessimo seriamente organizzare. La nostra sola certezza era che nel mirino
dovevamo tenere i vecchi di mezzo, quelli tra i cinquanta e gli ottant’anni, e cioè, bene o male, i nostri genitori, quelli che stavano in politica, e che per noi erano gli anziani del peggior tipo.
«Ma prima di tutto», disse qualcuno «Dobbiamo avere chiaro cosa vogliamo cambiare. Un obiettivo!»
«Un obiettivo finale», completò un’altra.
Cosa davvero non ci andava di questi vecchi a capo del mondo? Lo segnammo per punti su un foglio A5, che sarebbe rimasto a lungo appeso nello scantinato di Milano. Prima di tutto, il sistema pensionistico, perché le risorse statali finivano per andare tutte a loro e zero a noi. Secondo, il fatto che dovessimo lavorare solo al servizio degli anziani – altro lavoro praticamente non ce n’era – e che ci fosse precluso ogni tipo di carica politica, ogni tipo di fiducia e possibilità concreta prima dei cinquant’anni. Cinquanta! Terzo, anzi quarto, anche se più personale, ce l’avevamo a morte coi loro slogan. Perché scrivevano sempre “Il futuro è in mano ai giovani”, oppure “I giovani sono il futuro”, e non era più vero, o almeno noi sapevamo che aveva smesso di essere vero da un po’. E questo ci faceva sempre molto arrabbiare.
Fu proprio quella rabbia a renderci chiaro l’avvenire. Decretammo così che il modo migliore per prenderli era un attentato, sì, ma di natura tecnologica. L’idea veniva proprio da Pino. Utilizzando le nostre abilità tecnologiche avanzate, saremmo riusciti a infiltrarci nei sistemi di sicurezza degli anziani. Restava solo da definire chi. Solo alcuni di noi, infatti, avevano una dimestichezza tale con sistemi di questo tipo da poter organizzare un simile attacco. Perciò, quando entrammo in azione, molti di noi non poterono far altro che guardare, fare il tifo, continuare a bere.
Era tutto pronto: gli schermi, le tastiere collegate agli schermi, le maschere dei nostri hacker. Noi eravamo andati a comprarci dei giubbotti antiproiettile e dei caschetti arancioni, ma solo così, per sentirci di partecipare (la versione ufficiale era che dovevamo essere pronti in caso di scontro fisico). E poi Pino aveva approvato. Ci aveva pure dato dei vecchi pantaloni di quando ancora esistevano i militari! Avremmo dovuto capire che c’era qualcosa sotto. Avremmo potuto arrivarci.
Perché infatti, una volta che entrammo nei loro sistemi (eravamo bravi, e ci riuscimmo senza troppe seccature), andò tutto in tilt. Credo che nessuno di noi capì bene le dinamiche; era tutto così confuso; fatto sta che partirono allarmi, che saltarono cavi spine e noi cominciammo a urlare. In mezzo a quel panico, ci venne naturale ascoltare gli ordini di Pino, che spinse noi vestiti da guerra fuori dallo scantinato.
Non eravamo i soli a correre per strada: Milano era il delirio, l’apocalisse dell’umano, con i vecchi che correvano per le strade senza riuscirci, perché erano impediti da tutti quei loro carrellini. Donne e uomini comparivano e sparivano da una parte all’altra della strada, chiusi sui loro zaini per proteggerli, chini sulle fasce in cui stringevano i propri figli piccoli (era rarissimo per noi, a quei
tempi, vedere dei bambini, creature rare da tenere al sicuro). I fili dell’alta tensione crollavano in nubi di fumo nero e in mezzo a un frastuono di lampi, che era elettricità spezzata, frantumata a terra in scintille di luce. E noi così, con la bocca spalancata, che guardavamo il cielo e la terra in preda a una scarica indescrivibile! Che fascino sublime, che sensazione di potenza improvvisa provammo, finché Pino non sbucò alle nostre spalle e disse:
«Attaccate, cazzo, attaccate!»
Quella frase ci penetrò talmente a fondo che non potemmo far altro che iniziare a correre pure noi, a pestare tutti i vecchi che incontravamo, specialmente quelli di mezzo, e vaffanculo al manifesto, vaffanculo alla non violenza, se non che poi arrivò in massa la polizia dei vecchi a tentare di fermarci
e ci riuscirono davvero, per un attimo: con le manganellate, con i calci in pancia e noi che ci contorcevamo sull’asfalto sporco, mentre Pino, santo Pino! Lui, zitto zitto, si arrampicava a mani nude lungo i piloni dell’aria, la stessa aria buona che serviva a far respirare i vecchi per le strade di città. Quando i vecchi se ne accorsero, lui era già bello in alto, pronto a far saltare tutto: e gli spararono. Al primo colpo resistette, e si spinse, a fatica e con i gomiti, sull’ultimo tratto di scala: e gli rispararono, e lui cadde sulla grata quella più alta.
Allora noi ci alzammo dall’asfalto, e iniziammo a picchiare questi vecchi di mezzo con ancora più rabbia; e quanta rabbia che avevamo. Non sapevamo da dove sbucassimo, ma all’improvviso anche noi eravamo tantissimi, tutti incazzati neri; i nostri corpi ribelli non tenevano più, e tirammo fuori tutto, tutto quello che non eravamo mai riusciti a fare.
Sotto i colpi dei nostri corpi giovani e forti, quei vecchiacci cominciarono a soffrire: loro avevano anche le armi, sì, ma noi avevamo grosse braccia e spalle larghe. Avevamo la gioventù, ce lo diceva sempre anche Pino anche se forse noi allora mica lo capivamo. E poi alcuni di noi erano pure un po’ bevuti da prima. L’adrenalina era, insomma, a mille. Qualcuno di loro, uno che avevamo visto in tele
credo fosse un politico, aveva proprio la faccia – tentò di fermarci; ci disse, gridava:
«Cosa cazzo volete?»
Alcuni di noi, senza farsi notare, stavano risalendo le scale di Pino, forse per recuperarlo e portare a termine il lavoro che aveva iniziato. Ci venne in mente, in un colpo di vero genio, che dovevamo distrarre i vecchi: era il momento, sì, e perciò salimmo sopra un tram fermo e mezzo distrutto. Da lì, in piedi sopra la folla, richiamammo l’attenzione di tutti, ma veramente proprio tutti quelli che c’erano per strada, e cercammo di parlare come faceva lui. Con un occhio, controllavamo a che punto erano i nostri con i condotti dell’ossigeno.
«Che cosa vogliamo?»
Avremmo voluto urlare, a quel punto, finalmente, e gridare che ci avevano preso tutto, che eravamo incazzati e incazzati da morire ora che avevano anche sparato a Pino; ma qualcuno, da non so bene dove, alzò verso di noi qualche strana arma; e ci spararono.
Ricordo che caddi dal tetto di quel tram color arancio; che mi spararono nel petto e
caddi…
…sulla strada grigia sotto di noi.
Senza aver mai potuto parlare, sulla merda fresca forse di qualche vecchio vecchissimo che se l’era fatta sotto in mezzo a tutta l’ansia di quel caos.
Non che avrei mai ben saputo cosa dire, dopo. Ma tanto cosa cambia? Non abbiamo mai potuto parlare.

Scorre non rimargina

scritto da Giulia Sarli

Le gocce si accumulano nel cavo dell’asfalto eroso davanti al portone. Immerge le scarpe, non ci fa caso. Un leggero solletico alle caviglie. Torna a casa dal lavoro e ha la sua ora d’aria. Le sembra che duri il tempo di un respiro. Ha fatto crescere i capelli lunghi fino ai fianchi per sentirsi più protetta e da mesi non li tinge. Si è comprata un maglione viola livido che le stona addosso e lo indossa sempre. Al tramonto la porta si apre. La chiave gira nella toppa come quando si mette in carica un carillon. Riconosce la macchia scura che occupa il vetro smerigliato tra il soggiorno e l’ingresso. Ne traduce i movimenti. Il cappello e il cappotto posati delicatamente ai pomoli dell’attaccapanni, le scarpe sfilate piano. La sfocatura cede a un corpo smilzo e allampanato. La mano ossuta ondeggia verso di lei, accanto a un sorriso inerme, che accentua le occhiaie. Grillo le si avvicina, si siede accanto a lei sul divano, appoggia la schiena e inarca il collo. Rilascia un mugolio acuto e piega il capo, gli occhi a mezza luna. Formica ha una fitta al petto. Lui allunga il braccio, le posa la mano sulla coscia destra, che è più rigida del legno. Muove le dita su e giù in una carezza lenta. Dice qualcosa sul lavoro. Formica non lo ascolta, guarda vicino ai piedi il vello del tappeto consumato. Le chiede se va tutto bene e così lei capisce che deve concentrarsi, se vuole che la casa non scompaia. Annuisce. Grillo piega la schiena, le dà un bacio sul collo. Formica sente un brivido che le sforma il viso. Ma lui non se ne accorge. Con la lingua si fa strada fino al lobo dell’orecchio. Lei stringe un labbro sotto ai denti, sente il sapore metallico del proprio sangue. Grillo la prende per mano, la conduce in camera, la abbraccia mentre si stendono sul letto. Le bacia la bocca, dolcemente. Formica pensa spero passi presto, inizia a sbottonargli la camicia, lo aiuta a togliersi i vestiti. Grillo fa lo stesso per lei, ma non riesce a levarle il vestito più pesante. Inizia a baciarla in mezzo alle gambe poi sale alla bocca, per vederla provare il suo sapore. Cambiano posizione, vuole che lei stia sopra. Per entrarle dentro deve spingere, Formica stringe le mani alla spalliera del letto, schiaccia la testa contro il cuscino, inorridisce al contatto del suo sudore. Passa un tempo troppo lungo. Simula un orgasmo quando lui accelera. Grillo poi si accascia, sorride, la stringe con le braccia al petto fradicio. Formica non può stare lì. Si divincola e scivola via dal letto, si chiude in bagno. L’acqua calda della doccia scorre, non rimargina lo sporco che le pesa addosso e che impregna tutta la casa. Quando torna nella stanza Grillo sta dormendo. Si asciuga i capelli e si riveste, si guarda attorno. Prende con sé la borsa, si dimentica di mettere le scarpe. Almeno per le scale non fa rumore. È fuori. Continua a leggere

Arrosto

scritto da Ezio Tarantino

“Le cose non si aggiustano. Le cose cambiano.”
Aprì il cassetto e tirò fuori le forbici, il coltello per l’arrosto e il cavatappi. Con il cavatappi aprì il Barolo, con le forbici tagliò lo spago per arrosto e legò il pezzo di carne, e infine con il coltello cominciò ad affettare il prosciutto di Parma. Poi prese uno strofinaccio, pulì sommariamente il coltello e lo poggiò sul piano di lavoro. La cucina era attraversata da un raggio di sole che dopo essersi appoggiato sul vetro della finestra si distribuiva in una porzione limitata ma essenziale del tavolo. Poi prese il prosciutto che aveva tagliato (tre fette, dal bordo spesso e irregolare, si doveva decidere a comprarlo, prima o poi, il tagliere elettrico), e lo adagiò sul fondo del tegame, contornandolo di foglioline di salvia. Stava in silenzio, in attesa che Federica dicesse qualcosa. Quando Federica taceva per Stefano significava che gli stava dando ragione, ma che cominciava ad avere paura di avere torto. Quello che Stefano non sapeva o non capiva era che Federica era piacevolmente sorpresa dalla sua osservazione, perché non solo la condivideva, ma era proprio quello che sperava che lui dicesse, e soprattutto era proprio quello che sperava che lui intuisse essere il punto di arrivo della sua pena. Il problema era capire se accettare la prospettiva del cambiamento li avrebbe portati allo stesso risultato, oppure no. Questa era la paura di Federica e quindi la causa del suo silenzio. Ma Stefano non l’intuiva o non lo intuiva fino in fondo, poiché si augurava – in modo consapevole o no non è chiaro – che il solo fatto di averle dimostrato la sua disponibilità ad accettare il suo punto di vista fosse di per sé il salvacondotto che lo avrebbe portato ad aggiustarle le cose, sotto le mentite spoglie di un cambiamento solo apparente.

Cominciò a triturare le acciughe e il prezzemolo nel mortaio. In silenzio, avvinghiato ad un pensiero rilassante e quindi deviante. Pensava al cambio fra la lira e l’euro. Perché l’arrosto in salsa di acciughe l’aveva fatto l’ultima volta dieci anni prima, e ricordava benissimo quanto gli era costata la carne di manzo: ventiquattromila lire. Pigiava nel mortaio inarcando la spalla in modo esagerato. Federica lo guardava e non lo capiva. Che bisogno c’era di fare tutto quello sforzo? Lo disapprovava, va a capire il motivo.
Poi a un tratto Stefano disse, senza pensarci su: il tuo amore è espresso in lire.
Lei sorrise infastidita dallo sforzo che le si presentava necessario per capire bene la metafora. Non voleva chiedere spiegazioni. E non voleva ridicolizzarlo. Preferiva lasciare che la cosa morisse lì, come asciugata dal raggio di sole caldo e netto sul tavolo della cucina. Fuori c’era un vento forte di tramontana e il pioppo frusciava in modo persistente, perdendo foglie a interi mazzi, a cespugli, come per una malattia, non per il normale processo naturale dell’autunno. I vetri chiusi proteggevano da questo virus, più che dal freddo e dal vento. Era la fine di ottobre e fino ad una settimana prima si sarebbe potuti andare sulla spiaggia. L’autunno aveva fretta di riprendersi lo spazio e il tempo perduto.
Stefano stava già pensando a quanto gli sarebbe costato il tagliere elettrico. Non ne aveva idea. Federica si versò un po’ di Barolo. E io niente? Disse lui. Te ne lascio un goccio, non mi va tanto, disse lei.

Stefano accese il gas. Il prosciutto giaceva già nel fondo del tegame, insieme alle foglie di salvia. Ci mise sopra una cipolla, un sedano, chiodi di garofano, un po’ di scorza di limone, pepe in grani e infine l’arrosto, già legato e imbavagliato. Strizzato nello spago lasciava strabordare rotolini di carne lucida che Stefano accarezzò con lo sguardo. Quand’era stato che aveva fatto questa ricetta? Che occasione era? Era un’occasione o era una domenica come un’altra? Non se lo ricordava.
Mise il fuoco al minimo, versò il barolo e un goccio d’olio d’oliva, chiuse con il coperchio e sopra ci sistemò una pietra pesante. Non sarebbe dovuto uscirne neppure uno stiracchiato lembo di vapore.
Adesso che l’arrosto era stato seppellito nella sua bara d’acciaio inox Stefano sapeva che avrebbe avuto davanti almeno un paio d’ore di niente. E questo lo mise in ansia. Diede un’altra inutile ammaccata alle acciughe e al prezzemolo, che avrebbe utilizzato solo dopo, a fine cottura, e poi guardò Federica, che se ne stava in piedi, in silenzio, con il bicchiere di barolo, che non gli aveva più passato. Guardava fuori. Aveva smesso di seguire i gesti di Stefano, ma era come se una profonda consapevolezza le suggerisse a quale punto esatto della procedura egli fosse arrivato.
Sicuro che ci volesse il Barolo?
Sicuro.
Ma non hai guardato la ricetta?
Non ne avevo bisogno. Me la ricordavo bene. Me la ricordo.
Non dico il Barolo, dico proprio il vino. Secondo me non ci andava. Quella era un’altra.
Era questa, non poteva essere un’altra.
Questo lo so. È l’unica ricetta che sai fare.
Appunto. Non penserai che non ricordo l’unica ricetta che so fare.
Forse ne sapevi fare due. Questa e quella dove ci voleva il Barolo. Il brasato al barolo.
Questa è il brasato al Barolo. Non so… So fare solo questa.
Non dire stupidaggini. In quella l’arrosto lo mettevi a macerare dal giorno prima.
Non io. Forse tu lo mettevi a macerare…
Ma possibile che non te ne ricordi?
Federica cominciava a divertirsi. Tutta la storia stava diventando un ridicolo, stupido equivoco. Una canzone le affiorò alla mente, aveva voglia di fumare, di correre, una straripante vitalità accompagnava quella futile conversazione sul brasato al barolo. Era come se fosse entrato un bambino in cucina, e con lui altri cinque, sei bambini e avessero cominciato a rincorrersi e a fare baccano, tirandosi la farina, briciole di pane. Continuò: il vino ci sta proprio uno schifo lì con il prosciutto e le acciughe. Almeno fosse stato vino bianco. Il barolo! Stai rovinando la ricetta. E il pranzo a tutti.
Vuoi star zitta, per favore?
A-ha! Rise. Gli puntò il dito contro, sorridendo in modo vendicativo, per aver colto la citazione. Guardò il frigorifero. La loro fotografia di Parigi, attaccata con un magnete a forma di Basilica di San Pietro stava scolorendo. Le vecchie foto sono imbattibili, considerò. Il buon umore non la abbandonava.
Tua madre penserà che l’ho fatto io l’arrosto, e io dovrò star lì a spiegare che no, che l’hai fatto tu, e che la colpa è solo tua. Non solo: io ti avevo anche avvertito. E tuo padre? Non capirà niente. Tanto lui non capisce i sapori.
Hai deciso di rovinarmi la domenica?
Noi stavamo discutendo, prima, mi pare. La domenica era lì lì per rovinarsi e di brutto anche prima che io ti facessi notare lo sbaglio. E non solo la domenica, mi pare (forse anche qualcos’altro. Forse noi due, forse tutto quanto – pensò). Ma tu sei concentrato solo sulla tua ricetta, e la fai pure sbagliata.
Non vuoi avere un minimo di comprensione?
No.
Stefano si mise a pulire i coltelli, il tavolo dove aveva affettato il prosciutto e mise il mortaio vicino alla macchina del gas.
Guardò fuori, e guardò Federica. Che c’è?
Niente, disse lei.
Meglio così, e uscì dalla cucina. Andò in bagno e vi rimase per circa un’ora.

Fece una doccia molto lunga. Si fece avvolgere dal piacere che dava il vapore e la posa sgraziata dei suoi piedi bagnati sul pavimento, le gambe piene di peli neri allineati lungo la pelle bianca: si sentiva al sicuro dentro le sue brutte caratteristiche fisiche. Sentiva di far parte di qualcosa, e se anche questo qualcosa era sé stesso – cioè come dire, il grado zero dell’essere parte di qualcosa – era sufficiente a godersi quella lunga pausa fra un prima e un dopo. Federica cosa starà facendo? Cosa starà pensando?

Quando uscì dal bagno mancava ancora circa un’ora al termine della cottura. Era quasi mezzogiorno. Il sole era stato intanto oscurato da una curva di nuvole grigie, fredde, smaltate, che si erano portate appresso una coda di freddo supplementare.
Entrò in cucina e si apprestò ad apparecchiare la tavola. Federica non era in casa, doveva essere scesa per comprare il giornale.
Andò in salotto e si buttò sul divano. Guardò l’orologio, a lungo. Poi guardò fuori, e solo allora si accorse che Federica aveva già apparecchiato.
Cos’era successo negli ultimi cinque o sei mesi? Non ne aveva idea. Saranno stati due anni, o anche di più, che non ragionava più su di loro, “io, te e noi due”, come le diceva quando erano giovani. Io, te e noi due. Un investimento sicuro, una caparra elargita da uno sconosciuto benefattore, un assegno in bianco. C’era bisogno di farsi delle domande? La vita aveva un senso comunque, ed ogni vincolo naturale era la prova della giustezza del fine: il rapporto con i suoi genitori, con i fratelli e con Federica. Il sole ogni giorno tramontava sulla chiarezza cristallina di un progetto quotidiano che richiedeva solo di essere replicato all’infinito, senza la pesantezza retorica di averne coscienza.
Ritornò in cucina. Era passata un’altra ora. Com’era possibile? Cosa aveva fatto in questi sessanta minuti? Indossava ancora l’accappatoio.
Levò la pietra dal coperchio e guardò dentro. L’odore del vino inaspriva forse troppo l’aroma della carne stracotta. Forse aveva ragione lei. Niente vino in questa ricetta.
Con una forchetta scosse l’involucro di carne che ora si andava sfilacciando e poi lo tirò su. Lo depositò su un piatto ovale, raccolse con un cucchiaio la pasta cremosa che si era depositata sul fondo e la fece colare dentro un passino, trasformandola in una vellutata di un colore ambrato e, con il battuto di acciughe e prezzemolo la mise in un pentolino, a riscaldare. Poi tagliò l’arrosto, e depositò le fette nello stesso tegame.
Bussarono alla porta. Erano i suoi genitori. Li salutò e tornò in cucina.
Mise le fette di arrosto immerse nella salsa nel piatto e portò in tavola. Poi tornò indietro a prendere l’insalata. Suo padre aveva già acceso la televisione. Attraversò il salone per andare a vestirsi.
Quando tornò nel salone Federica era lì, seduta.
Ci andava il vino?
Credo di no, disse lui. E le sorrise.
Che t’avevo detto? Lei alzò le spalle, e guardò fissa il piatto.
Non c’è niente che tu voglia ancora condividere con me? Le chiese lui. I suoi genitori, ormai sordi, non sentirono.
Come dici scusa?
Chiedevo se siamo ancora io, te e noi due.
Lei lo guardò incredula. Si trovava all’improvviso davanti ad una porta sbarrata. Sapeva già cosa vi avrebbe trovato dietro, se avesse potuto aprirla: vi avrebbe trovato una stanza in disordine. Tutto il loro passato. Ma soltanto lui aveva la chiave di questa stanza. E andava bene così. Anzi, male. Cosa aspettava a buttarla?
No, era meglio senza il vino. Ma anche così non è male, disse lei.
Lui si sentì incoraggiato e le fu grato.
Lei si concentrò sui sapori, sui colori che sbiadivano dietro il vetro della finestra, sul vento. Non avrebbe saputo dire molto sul suo futuro, se qualcuno glielo avesse chiesto, ma di una cosa era sicura: che Stefano ne sapeva meno di lei, e questo era il lato paradossale della faccenda. Lei aveva qualche carta in mano, ma il dolore della scelta la paralizzava. Lui sembrava scivolare per inerzia verso un niente disinvolto. Aveva accettato un pigro automatismo e lo aveva riempito di garanzie a vita. Lei aveva la voglia e la forza per giocarsi qualcosa, per un’ultima scommessa. Come farglielo capire?
Stefano ripulì il piatto con una mollica di pane. I suoi genitori parlavano di qualcosa, ma lui non li stava a sentire. Guardava Federica, preoccupato che da un momento all’altro si alzasse e se ne andasse via per sempre. Avrebbe voluto trovare le parole per trattenerla. Avrebbe voluto non aver messo il vino nell’arrosto. Avrebbe desiderato tanto che fosse già domani.
Federica si alzò da tavola con i piatti sporchi. Purché purché, pensava, come fosse un fastidioso ronzio. Purché… Cercava di dettare le sue condizioni, ma era troppo presa dalla visione incoraggiante della propria determinazione, che la animava a persistere, a dominarsi. Si sentiva fragile e forte.
Stefano la seguì in cucina. La vide davanti al lavandino, riavviarsi i capelli con la mano libera dalle stoviglie. Era strano guardarla così. Non lo aveva mai fatto. Aveva avuto paura di perderla quando le aveva parlato delle cose che cambiano. Le cose non cambiano. Le cose non cambiano. Che senso ha?
Lei sentiva il suo sguardo sulla schiena, se ne sentiva partecipe e colma. Non era una brutta sensazione.
Federica si sentiva pagina bianca, una sinfonia eseguita per la prima volta, di cui nessuno conosce le note successive a quelle che sta ascoltando in quel preciso attimo.
Lo sapeva, lui, di avere davanti la creazione di Dio nel suo manifestarsi alla luce?
L’insalata? Gli domandò.
Già in tavola.
Andiamo di là. Disse lei.
Lui fece per sfiorarle la schiena, per farla passare, ma trattenne la mano e il gesto rimase congelato. Lei attraversò la porta come sfiorasse l’aria, come fosse aria, come fosse vento intrufolato da uno spiffero della finestra, come fosse una foglia sfuggita alla propria traiettoria, aveva una sua consistenza diversa e preziosa, ruvida e delicata. Non c’era già più.

Dall’altra parte del letto

scritto da Lucia Moschella

Il giorno che mio marito inizia a scorticarsi c’è il sole. Comincia come una leggera screpolatura sul naso, come per un’insolazione.
Che ti è successo?, chiedo.
A cosa?, mi risponde.
Non vedi che stai spellando?
Dove?, fa.
Dappertutto, faccio io, qui, e gli sfioro il naso, qui, e gli tocco le guance, e guarda, anche qui!, dico reggendo il suo bicipite da sotto.
Ah, fa lui, ma non si guarda da nessuna parte per sincerarsi di niente.
Hai preso un po’ di sole?, indago.
E dove dovevo prenderlo, risponde.
Taccio. Mio marito è curvo su un manuale d’istruzioni per il montaggio di un piccolo armadietto dove mettere gli utensili della sua nuova passione: il restauro di libri antichi. Dubito che abbia compreso le mie frasi; sospetto abbia utilizzato solo la sua parte di cervello che riesce a fornirmi risposte sensate anche quando non è in ascolto.
La screpolatura continua per qualche giorno e il viso gli si incartapecorisce sempre di più. Gli suggerisco di mettere una crema idratante, qualcosa, mi dice che lui quelle robe appiccicose manco le tocca. Te la metto io, gli dico, Macché, fa lui, e più che altro comprendo che lui sul serio non le vede quelle screpolature. Continua a leggere

Donna Sulfura

scritto da Francesco Noferi

Da quando sono in questo letto, ho visto molte cose. Non con gli occhi del corpo; quelli restano socchiusi a guardare il soffitto, anche se una mano pietosa mi ha da tempo poggiato la testa sopra un doppio cuscino. Quegli occhi ormai non mi appartengono più, da quando le mie giornate sono accompagnate solo dal mio respiro sempre più debole. No, sono altri occhi quelli che hanno cominciato a viaggiare, che scrutano, che sentono come mai prima. Diceva, la gente, che ero una strega, la maciara, Donna Sulfura, ma io non ci ho mai creduto davvero. Ora però, chissà.
Sento, anzi, vedo che da quando sono nascosta al mondo, inchiodata nella mia camera dal grande male che è la vecchiaia, la gente ha cambiato atteggiamento verso di me. C’è stato un tempo in cui andavo per le strade, i vicoli pieni di ciottoli del mio paese, guardata con rispetto e timore. A me si rivolgevano per amore o invidia, o per un consiglio, per una confessione. Il fornaio a cui non lievitava il pane. Il parroco e i suoi tormenti, a chi altro doveva raccontarli? Sicuro che nessuno sarebbe mai venuto a chiedermi qualcosa. La maestra incapace di farsi ubbidire, a chi altro poteva chiedere un’erba che la rendesse forte? Il marito geloso, la madre preoccupata, la nuora infastidita. E io facevo, senza troppo crederci, quello che volevano. Fossero medicamenti, o parole vuote, o scongiuri. Perché quella era la vita che mi era toccata in sorte. Continua a leggere

L’ufficio

scritto da Piervincenzo Madeo

1.
Io e Marco lavoriamo insieme nel reparto IT.
Lui entra sempre alla stessa ora. È tra i primi ad arrivare: dice che così trova libero il suo parcheggio preferito.
Accede all’intranet e gestisce le richieste di supporto informatico inserite dai colleghi.
Resta in ufficio otto ore e trenta minuti, è tra gli ultimi ad andare via: dice che così evita il traffico in tangenziale.
Dice che non bisogna mai abbandonare la routine.

Paola è stata assunta qualche mese dopo Marco. Lei è tra gli ultimi a entrare, a volte in ritardo.
Apre il laptop e fa le cose che si fanno per tenere in ordine le fatture e i conti della società. In mezzo gestisce la coda dei colleghi che vanno da lei a chiacchierare, a chiedere se ha già preso il caffè o cosa farà nel weekend.
Ha sempre fretta di uscire. Dice che, per fortuna, ha una vita fuori dall’ufficio con persone che hanno bisogno di lei.
Ipotizzo che un pezzetto di vita lo passi in coda in tangenziale. Continua a leggere

Ondina

scritto da Sofia Badini

Nell’agosto del ’37 Danzica era ancora una città libera che nutriva i ricordi di Franz Górski.
Lui non aveva ancora compiuto trent’anni.
Davanti all’ampia finestra del suo studio, una mansarda presa in affitto per dare lezioni di pianoforte, lo vedevano fumare fin dalla strada: ogni pomeriggio alle quattro in punto si accendeva una sigaretta nella stanza rinfrescata dalle correnti del Baltico.
Heinrich Mazur, l’allievo delle quattro e venti, difficilmente arrivava in ritardo.

Franz Górski era stato un adolescente problematico emarginato dai compagni, tutti vigorosi eredi dell’alto-borghesia polacca nei loro completi inglesi a righine: praticavano il pugilato, corteggiavano le ragazze, negli spogliatoi facevano sfoggio di deltoidi massicci dopo la lezione di ginnastica. Continua a leggere

Shampoo anticaduta

scritto da Chiara Cerri

La incontri al supermercato, neanche a farlo apposta, davanti al reparto shampoo. Quando Giulia si toglie il berretto ci sono pochi capelli da guardare, troppo pochi per una trentenne; avrà l’alopecia, ti dici, proprio davanti allo scaffale degli anticaduta. Neanche a farlo apposta. Lui le toglie il berretto di mano e comincia mangiucchiarlo, e mentre ciuccia la lana, un filo di bava cola per terra; lei ci passa sopra la suola delle scarpe e sorride imbarazzata, ma neanche troppo.
Eh, questi esserini ti cambiano la vita – dice – si chiama Edo.
Tu e Giulia, eravate amiche amiche fino a qualche anno fa, poi vi siete perse. Fa la ricercatrice, è brava, sempre stata molto più brava di te a tenere le fila delle cose. Tu invece, ti sei persa innumerevoli volte. Fino ad un certo punto è andata anche bene: laurea, master, sei finita a Berlino a fare uno stage e poi, non sai neanche come, ti sei ritrovata nell’India del sud a dare da mangiare alle vacche, lavoro importante lì sono sacre. Ti piaceva quella sensazione, sentirti straniera, fuori luogo, perderti dentro le cose insignificanti. Tutto questo, mentre lei teneva per bene le fila, iniziava il dottorato e scopriva di rimanere incinta. Ti ha pure mandato quel messaggio con la foto dell’eco e la faccina sorridente. Non ti ricordi neanche se le hai risposto. Continua a leggere

Marella

scritto da Silvia Penso

Attraversavamo scheggianti il sottopassaggio e il rumore del treno che sferragliava sopra i corpi sincopati, di corse e pedali, esplodeva nelle orecchie, quasi fosse lì, nelle nostre cavità, nelle pieghe dei canali uditivi, ululante di stridii meccanici dentro la testa. Le due bici, la mia, la sua, sfrecciavano ondulando oscillatorie contro ogni legge di gravità, contro la curva a gomito del sottopasso, presagendo talvolta una caduta che non avveniva. Forse, sarei potuto andare più veloce, passare avanti, fare quello più bravo. Ero tentato, ma mi piaceva sbirciarla sulla Graziella sbilenca in corsa, con i capelli al vento, Marella, con la maglietta con su scritto in vellutino rosso Marella. Disordinata, lentigginosa, occhi blu, si muoveva sempre veloce, scattosa. Parlava come una macchinetta. Era in perenne mobilità dinoccolata. Era la mia amica, eravamo inseparabili.
Era al bagno 39 che eravamo diretti con le bici, ogni giorno d’estate. Ci sentivamo sfrontati e liberi, e il futuro era pieno di promesse, come il mese di luglio, che non è maggio, quando tutto deve ancora delinearsi, e non è agosto, che è una fine. Una volta arrivati, i piedi nudi, le ciabatte in mano, buttavamo le bici sul marciapiede sterrato, correvamo con ginocchia alate lungo la linea mattonata, per fiondarci, conquistata la riva, nelle onde, catapultandoci, in perenne battaglia di braccia, dagli scogli che a Misano Adriatico se la filavano in verticale, sospesi sul mare, come linee di fuga ai lati della spiaggia infinita. Saltavamo, all’ultimo appacificati, mano nella mano, mentre intorno i ragazzi più grandi pescavano i baganelli. La trascorrevamo così, ogni calda stagione, da sempre, io, lei, e pochi altri satelliti amici. Il fulcro era lei. Il fulcro ero io. D’inverno ci riconsegnavano alla città bigia, ognuno la propria, agli antipodi dell’Italietta craxiana. Continua a leggere