Sanguinamento

scritto da Deborah Guarnieri

Avevo quattordici anni e mi stavo lasciando morire di fame come penitenza per essermela menata sul divano di seta verde avocado dei miei genitori. [Il dottor Schrift] insisteva nel dire che la bara che sognavo sempre era mia madre. E come mai mi si erano fermate le mestruazioni? Mistero.
«Perché non voglio essere una donna. Perché mi si confondono troppo le idee. Perché Bernard Shaw dice che non si può essere donna e artista. Il fatto di aver figli esaurisce completamente, dice. E io voglio essere un’artista. È quello che ho sempre voluto.»
Perché non avrei saputo come dirlo allora, ma il dito di Steve nella figa mi dava una sensazione meravigliosa. E al tempo stesso sapevo che quella sensazione languida, dolce, era il nemico. (…)

Mi guardo nello specchio e le mie tette sono diverse. Sono nel bagno di un’anziana signora di Tangeri, capelli nascosti sotto il velo madreperla, quando me ne accorgo. Io sono nuda dopo la doccia, piedi bagnati sulle piastrelle, lancio uno sguardo al riflesso prima di avvolgermi in un asciugamano bianco e le mie tette sono diverse. Sono gonfie, soprattutto sotto, un cuscinetto morbido che spinge il capezzolo all’insù. Le mie prime scopate erano con la maglietta; i miei primi reggiseni, push-up. Esco dal bagno fiera.
«Mi sono cresciute le tette.»
«Sono stato io.»
A quanto pare non è la prima volta che crescono le tette a una donna che condivide con lui lo spazio in modo continuativo; io penso ai miei ormoni suscettibili, all’ovulazione, ma quando afferra il telefono e apre la rubrica per cercare una testimonianza, accetto che sia colpa sua e me lo stringo addosso perché più grandi ancora non mi dispiacerebbero.
La sera, fresca di saponetta, assaggio l’oppio sul terrazzo dell’anziana signora, ne mando giù un pezzetto con il tè, Moroccan whiskey. Il muezzin ha cantato dopo la quarta preghiera e il digiuno è rotto. Stiamo stesi sotto i fili del bucato e lui dice che il mio corpo bianco riflette la luce. La poca luce delle stelle, della luna, della città. Si copre gli occhi con la mano fingendo di esserne accecato. I nostri vestiti bagnati dondolano.
«Hai sentito?»
Lui leva la mano dagli occhi.
«Ho sentito qualcuno vomitare.»
A quel punto lo sentiamo entrambi. È un brutto vomito, un vomito da spasmi e convulsioni, e dai versi sofferenti che ci raggiungono dall’unica finestra illuminata capiamo che a vomitare è una donna. Immagino una tunica scura inginocchiata, un capo coperto sopra la tazza.
«Sarà incinta», concordiamo.
Il mio vomito non è un brutto vomito, niente spasmi o convulsioni, sangue e bruciore di capillari spaccati, solo quattro getti liberatori in ginocchio nel cesso dell’anziana signora. Capelli rossi sulla ceramica bianca. Mi svuoto con leggerezza, e poi mi lavo i denti.
Sarò incinta?
No, è l’oppio.

A Tangeri siamo arrivati passando per il deserto, per raggiungerlo abbiamo viaggiato tre giorni su un furgoncino con tre zitelle e tre coppie, tra cui una di messicani con un bambino. Quando ci allontanavamo dal gruppo e le guide locali dovevano recuperarci per riconsegnarci all’autista, ci identificavamo come «quelli del gruppo dei messicani, con il bambino». A quel punto, era inevitabile, le guide ci chiedevano se ne avessimo uno anche noi. Io ridevo nervosamente e facevo no con il dito. «Why not?», esclamavano. «Inshallah…», se Allah vuole, e alzavano i palmi al cielo. Prima di ogni pasto i messicani ordinavano al bambino di chiudere gli occhietti e consegnare le manine, recitavano in spagnolo un ringraziamento a Dio. Al terzo pranzo di gruppo, il bambino mi ha fissato per tutta la preghiera. I camerieri ci servivano con la pancia vuota. «Amén». Il bambino ha usato la manina libera per farmi ciao ciao. «Mira, mira el gato, guarda il gatto», gli ho detto, e ho allungato una polpetta del mio Kefta al gatto rosso sotto il tavolo. Il bambino muoveva le manine e faceva dei versi. Io continuavo a sollevare la tovaglia e a dare polpettine al gatto. Quando la tovaglia tornava a coprire il gatto, il bambino tornava a fissare me. Pensavo a questo, avevo smesso di sanguinare da qualche giorno, mi chiedevo se lo avrei compreso meglio se fossi stata sua madre, pensavo a quello che mi aveva comunicato l’applicazione del ciclo mestruale: estrogeni e progesterone stanno lavorando in sinergia per trasformare il tuo corpo in un ambiente adatto alla gravidanza. In una cuccia per il feto. Sorridevo e lui sembrava felice, gli allungavo polpettine perché le desse al gatto, ho sorriso fino a quando non mi sono stufata e ho smesso di guardarlo e allora lui ha cominciato a strillare.
Forse odio i bambini perché sono come me.

Quando raggiungiamo l’accampamento nel deserto, il mio corpo pulsa per il sole. Ho slegato il foulard verde dalla testa e ai cammelli sono state legate le zampe. La sabbia arancione è rimasta incollata ai miei piedi nudi nei sandali e la mia pelle risplende, la sento, lego i capelli, lascio il collo e le spalle scoperti. Indosso orecchini dorati. Gli estrogeni stanno aumentando e con loro la libido. A ridosso dell’ovulazione, il mio odore cambierà e gli uomini lo sentiranno. Nel bagno – un piccolo gazebo con le tende, che protegge la turca e un pentolino d’acqua – non c’è uno specchio. Vorrei concludere l’orgasmo che ho sfiorato mentre facevo su e giù per le dune, su e giù fra le gobbe del cammello, ma sono in ritardo per la cena. Riabbasso il vestito ed esco. Attorno a un tavolino pieno di bicchierini cilindrici sono radunati alcuni ragazzi con il turbante, al mio passaggio ammutoliscono. Mi chiedo se sono troppo scoperta. Faccio per allontanarmi verso la tenda della cena quando uno di loro mi richiama indietro. «Fatima!» Il nome delle primogenite. È uno dei due che tiravano le corde del mio cammello, ha un sorriso sfacciato e bambinesco. Mi chiede se voglio del tè. Un altro ragazzo gli si aggrappa alle spalle e mi urla «where are you from», lui lo scaccia, mi allunga il bicchierino con il tè. Gli sorrido, lui si scusa per il suo amico. Non sono abituati ai miei colori. Mi dice di tornare se desidero più zucchero. Io dico Choukran e faccio pure un mezzo inchino, entro nella sala della cena con il bicchierino in mano. Sul tavolo ci sono tre tajine di pollo, due cestini di batbout, una brocca di acqua.
«A voi non hanno offerto il tè?»
«No.»
A cena terminata sediamo tutti all’aperto, la coppia di americani, la coppia di tedeschi, stranamente anche le zitelle spagnole, ma non i messicani con il bambino, che hanno richiesto un’esperienza privata in una tenda di lusso. Il cielo non è meraviglioso, ma la coppia di americani ha una bottiglia di whiskey da finire. L’hanno comprata in aeroporto, li sento dire. A qualche metro di distanza, il ragazzo che mi ha offerto il tè si sta togliendo il turbante. Lo srotola sul tavolino, srotola, srotola, il foulard attorcigliato stretto si ammonticchia, sembra la canna di un pompiere. Appena prima di scoprire la testa, inizia a riavvolgere. Qualcuno in sottofondo fa notare che servirebbero dei bicchieri. «Mohamed!», grido. Il nome dei primogeniti. Lui arriva con i bicchieri, indica la bottiglia, sfodera il ghigno. «Moroccan whiskey?». Gli chiedo quanto è lungo il suo turbante. «Dodici metri», mi risponde. Dice che senza si sente nudo. Dice che è nato nel deserto di fianco a un baby camel, di nuovo il sorriso bambinesco, probabilmente è una balla che gli piace raccontare ai turisti, ma per qualche motivo l’informazione mi attizza. Poi arriva il momento della musica intorno al falò e lui deve andarsene, tutti si alzano e lo seguono verso la duna, un grande fuoco è già acceso in cima. Veniamo lasciati soli con l’ultimo goccio di whiskey. Ce lo scoliamo. Io guardo per aria. L’accampamento è muto. Tutti hanno risalito la duna e ora attendono i tamburi. Pare di poter sentire gli scarabei zampettare. All’alba troveremo i loro binari nella sabbia. Ci prendiamo per mano, a tentoni ritroviamo la tenda e scopiamo nel buio completo.

Tangeri è un incubo pallido fuori dalla finestra quando mi risveglio sul lungo divano di raso dell’anziana signora. Oggi dobbiamo lasciare questa terra, salpare. Afferro il telefono per controllare l’ora, c’è una notifica sullo schermo, un fiorellino, dei complimenti: negli ultimi giorni ho raggiunto l’apice mensile di bellezza e fertilità! La faccio scomparire con il dito. In cucina l’anziana signora insiste per prepararmi un uovo sodo anche se sta digiunando. Mi guarda e dice che ne ho bisogno.

A bordo della nave la gravità cambia continuamente. È possibile solo mangiare toast al formaggio e bere whiskey. Camminiamo per i corridoi con la moquette alla Shining seguendo indicazioni che ormai non portano da nessuna parte. Discoteca. Chiosco gelati. La piscina è un buco azzurro chiuso da una rete rossa. Tutt’attorno i passeggeri marocchini giocano a carte in sandali, e la sera, fumano narghilè. Il Ramadan è iniziato da poco più di due settimane, come il mio ciclo mestruale e questo viaggio. Mentre loro iniziavano il digiuno, io ordinavo una crêpe alla nutella per compensare il calo di serotonina. Un mendicante mi è arrivato alle spalle, si è avvicinato al nostro tavolino di fronte alla luna a falcetto, su una terrazza della Medina di Marrakech, dove eravamo atterrati poche ore prima; allungando la mano ha elemosinato una monetina. Prima di andarsene, mi ha sfiorato la testa con il dito.
«Ti ha benedetto. Sei protetta.»
Ho sentito il fiotto caldo scorrermi fra le cosce.
Il secondo giorno a bordo, tento di raggiungere la cabina dal bar, ma continuo a ritrovarmi davanti a una porta trasparente con l’insegna VIDEO GAMES, e dietro niente. Ruggine gialla ricopre le vetrate panoramiche. Il sole e il vento a poppa mi stordiscono, e devo pisciare continuamente. Finalmente trovo la porta 711 e la apro con la tessera magnetica. Sbottono la tuta marrone e mi intrattengo con il cellulare. Sono un cerchiolino pulsante nel Mediterraneo occidentale, sulla rotta Tangeri-Barcellona, una linea gialla, tratteggiata. Sono all’inizio della fase luteale, o post-ovulatoria, e l’applicazione mi suggerisce un articolo di approfondimento. Il segnale va e viene, le schermate si caricano lentamente. Nella fase luteale gli estrogeni diminuiscono mentre il progesterone aumenta. Per questo, dopo il mio approdo in Occidente, potrei mostrare una maggiore predisposizione alla tristezza e all’ira, sentimenti che si acuiranno progressivamente fino alla mestruazione successiva, quando a causa dei livelli ormonali in calo avranno la meglio nervosismo e stanchezza. Penso al terzo giorno a Marrakech e alla voglia di piangere che mi aveva assalito sulla soglia del Riad Sherazade, l’ultimo posto dove avevo visto il mio Paura di volare, al fatto che non capissi chi o cosa incolpare, il cuoio dei sandali nuovi che mi graffiava la pelle, quei trentacinque gradi piuttosto opprimenti, la donna a gambe spalancate sulla copertina del libro che avevo dimenticato, o gli ambulanti che chiudevano la catena attorno al collo delle bertucce beduine… Avevo proposto di sedere a un plateatico e bere un espresso. Speravo che l’acidità di stomaco mi distraesse. Un uomo dall’aria inferocita era sbucato da un arco, spingeva un carretto di fragole e inveiva contro qualcuno alle sue spalle. Poco dopo una donna era apparsa correndo, un fascio di rami tra le mani. Indossava un vestito rosso. Aveva colpito alla testa l’uomo del carretto, tutti erano accorsi urlando, due poliziotti l’avevano trascinata via.
Scorro, continuo a leggere. La fluttuazione di tali ormoni altera le percezioni e le emozioni di tutte le donne in età fertile. Nelle donne più suscettibili o sensibili, si scatena quella che in gergo medico viene chiamata “disregolazione affettiva”. Non sono nuova neanche a questi scompensi interni, sono nata gialla di ittero per un malfunzionamento del fegato, il pigmento biliare mi aveva tinto la pelle e la sclera degli occhietti semichiusi, mio padre aveva dovuto tenermi in braccio per ore sotto una lampada bollente perché tornassi normale. Seguendo Ippocrate avevo creduto che la mia malinconia fosse causata da una fuoriuscita di bile nera dalla milza. Un giorno avevo chiesto a mia madre cosa mangiasse mentre ero dentro di lei e lei era rimasta a scrutarmi di sottecchi dopo avermi fornito una lista di cibi non sospetti. Mi sentivo destinata a deprimermi a cicli alterni, ma non riuscivo a stabilire una causa o un inizio, dove fossi stata punta, quanti anni avessi. Era un momento spensierato, avevo appena lasciato l’impronta del mio culo sulla sabbia di una spiaggia, stavo ansimando dopo un bell’orgasmo? Avevo appena ricevuto un regalo inaspettato? Un fuso, e una maledizione: Ascoltate, tutti quanti, la principessa invero crescerà in grazia e bellezza, amata da tutti coloro che la circondano. Ma prima che il sole tramonti sul suo sedicesimo compleanno, ella si pungerà il dito con il fuso di un arcolaio.
Il giorno dell’aggressione all’uomo con il carretto di fragole, quando avevamo chiesto al barista le motivazioni della rabbia della donna con il vestito rosso, noi non capivamo il contenuto delle urla, lui ci aveva risposto che la colpa era tutta del fatto che non si potessero fumare le sigarette.

In taxi sfiliamo davanti a nomi di strade e insegne di ristoranti, Carrer de Tanger, Tanger 34, che io indico, dicendo «guarda», come una bambina.
Per prima cosa compro un paio di vestitini attillati e di ciabattoni con il tacco quadrato, anche se per qualche giorno desidero soltanto rigirarmi sotto il lenzuolino bianco e guardare documentari sulla zona afotica. Mi limito a scendere alla lavanderia automatica, rimiro negli oblò i ciabattoni con il tacco quadrato. Apro l’applicazione mentre aspetto che finisca la centrifuga, un Chatbot mi chiede come mi sento e mi propone delle opzioni in cui spero di trovare un rispecchiamento. Seleziono irritata ed elevato desiderio sessuale. Il Chatbot ignora la mia irritazione e mi offre consigli per rendere il sesso indolore. Elimino l’applicazione.
Una cerniera continua a sbattere contro il cestello con un tintinnio metallico. Nella testa mi risuona il canto corale e selvaggio delle donne intervistate da Eve Ensler sulle loro mestruazioni, che tanto tempo fa ho letto in The Vagina Monologues.
Thought it was dreadful.
I’m not ready.
I got back pains.
I got horny.
Twelve years old. I was happy. My friend had a Ouija Board, asked when we were going to get our periods, looked down, and I saw blood.
Looked down and there it was.
I’m a woman.
Terrified.
Never thought it would come.
Changed my whole feeling about myself.

E poi, incontro Caterina, Caterina che mi dice che so’ proprio na’ sorca; siamo rimasti senza soldi e dopo aver acquistato uno snack con pipas al distributore automatico con gli ultimi due euro e settanta, abbiamo deciso di infiltrarci a una festa con il barbecue, Caterina mi sente parlare in italiano e salta tutta la fila per la toilette, mi abbraccia e finge di conoscermi da sempre; accucciata sopra la tazza, mentre si asciuga in mezzo alle cosce, mi ripete che io non lo capisco quanto so’ bella, c’ho ‘na simmetria… Forse i bambini mi fissano perché sono simmetrica? Non ho mai creduto di essere simmetrica. Se mi osservo di profilo nello specchio, prima da un lato poi dall’altro, sembro due persone diverse, un occhio all’insù, quell’altro all’ingiù… Distolgo lo sguardo. Caterina ha ancora i pantaloncini abbassati e ridacchiando mi chiede di mostrarle la vagina. Ha un accento irresistibile e non è la prima volta che faccio questo tipo di scambio con una sconosciuta, tu mi mostri la tua io ti mostro la mia, penso a Erica Jong che in Paura di volare scrive di non essersi mai sentita contenta del suo grosso culo fino a quando Adrian non glielo ha morso e le ha detto di adorarlo, perché tutte le donne credono di essere brutte, anche le più carine. Tutte indistintamente pensano di avere una brutta figa. Tutte credono di avere un sacco di difetti. Tutte pensano di avere il sedere troppo grosso, i seni troppo piccoli, così ridacchio e mi sollevo il vestitino, ci guardiamo la vagina nello specchio.
La vedo incupirsi non appena incontra il suo volto riflesso. «Guarda quanto so’ brutta. C’ho i capelli sporchi.» Si tira all’indietro un ciuffo. «Mi devono venire le mie cose.» «Anche a me.» Le dico di non preoccuparsi, lei mi dà un bacio riconoscente sulla bocca. È tutta colpa loro. La nostra punizione per non esserci fatte fecondare neanche questa volta.

Sull’aereo scelgo il posto accanto al finestrino. Indosso il lungo abito color terra con cui sono atterrata a Marrakech, mi domando se le fibre ne conservino ancora l’odore. Sollevo la tendina subito dopo il decollo. La luna è nuova, e so cosa significa. Mi sono cresciute le unghie e i capelli. È ora di sanguinare di nuovo.

(…) Mi aggiravo nel Metropolitan Museum in cerca di una donna artista che mi indicasse la strada da seguire. Mary Cassat? Berthe Morisot? Come mai tante donne artiste che avevano rinunciato ad aver figli non riuscivano a dipingere altro che mamme e bambini? Non c’era rimedio. Se si era donne e dotate di talento la vita era una trappola, da qualunque lato la si considerasse. O si affogava nella vita domestica (con fantasie di fuga alla Walter Mitty) oppure si rappresentava in forma artistica il desiderio di questa vita domestica. Non si poteva sfuggire alla propria condizione di donna. Il conflitto era nel sangue.
– Erica Jong, Paura di Volare

Attonita

scritto da Monica Pace

La prima volta che è successo non la smettevi più di passare lo straccio per terra, sembravi diventata sorda ai richiami di tua figlia e ripetevi con ostinazione meccanica il gesto antico, avanti e indietro sulle mattonelle del soggiorno già lucide. Alla fine ti ha strappato lo spazzolone dalle mani e ti ha guardata negli occhi comprendendo che qualcosa non andava, che non eri tu. Era una crisi più profonda del solito, non una di quelle che eri abituata a combattere con le caramelle che portavi sempre nel borsellino, o di quelle che sapevi ormai anticipare con una variazione nel dosaggio delle piccole iniezioni ripetute giorno dopo giorno. Non l’avevi sentita arrivare; nemmeno tu avevi riconosciuto l’attacco repentino della bestia che giorno per giorno ti divorava. Continua a leggere

Uovo alla coque [Ricettario]

scritto da Marta Cai

Questa mattina ho saldato l’ultima cartella di Equitalia, ho riacquistato il diritto di vivere in queste due stanze con le pareti spoglie dei miei quadri venduti, senza tappeti, senza gioielli, più bagno, orribile. Ah che fortuna, dicono, essere a posto con la coscienza e pagare, pagare tutto, pagare in sovrabbondanza: tasse che secondo il commercialista non erano da pagare e invece con la mora le devi pagare, ragazza mia, e subito, e se non puoi vendi l’appartamento e vai a vivere affanculo, non hai parenti? No. Non hai amici? No. E allora vai a vivere da nessuna parte, venditi le borse e le minchiate che hai fatto e paga, paga vecchia ciabatta, altrimenti qui ci vado di mezzo anch’io, commercialista già stimato e ancora in ascesa, astro nascente. Continua a leggere

Un attimo di delusione [Ricettario]

scritto da Carmine Bussone

1 litro di latte
400 grammi di zucchero
120 grammi di semola
150 grammi di burro
Vaniglia
Buccia grattugiata di un limone e di un’arancia
8 uova intere
Un pizzico di sale

Vi dirò. Non mi sentivo così deluso da quando mi dissero che dovevo andare a cantare in un locale a Londra. Un giorno vengono da me e mi dicono che ci sono delle persone in Inghilterra che vogliono sentirlo assolutamente, questo ragazzo che canta e allora devo andare a Londra. Per tre giorni non solo non dormii un solo minuto, ma infilavo in qualsiasi conversazione il fatto che sarei dovuto andare a Londra. Non avevo nemmeno avuto il tempo di prendere la patente ma mi sentivo come se avessi vinto tutto quello che c’era da vincere. Fu mentre ero in fila all’aeroporto, in piedi, imbambolato fra persone che non mi conoscevano, che mi prese quella malinconia stretta, quella che si incanala nei polmoni e resta lì appoggiata. Quel fastidio sovrastò il fatto di essere in un aeroporto. Un luogo che anche se da casa mia era distante uno sputo, avevo sempre considerato una cattedrale di una religione nella quale quelli come me non erano ammessi.
Giggino il Malanima, quello che – con molta bontà – ora definirei come il mio impresario, ma che allora era la persona che si metteva d’accordo con i proprietari dei ristoranti e mi dava i passaggi in macchina, mi aveva portato la valigia all’ingresso perché io quella mattina venivo direttamente da un matrimonio a Trecase. Continua a leggere

La ragazza che mi piace ha due piedi [Ricettario]

scritto da Cristian Marmo

La ragazza che mi piace ha due piedi e conosce a memoria la ricetta della pastiera. La prima volta che l’ho incontrata mi ha spiegato per filo e per segno da dove cominciare. «Per la pasta frolla bisogna creare la forma di una fontana con la farina« muoveva le mani imitando i gesti uno ad uno. «Poi si aggiunge lo strutto, il burro, lo zucchero, un uovo, un pizzico di sale, il miele, il latte e le scorze di arancia e di limone e si comincia ad impastare.»
Mentre lo racconto ad Ahmed lui non sembra particolarmente colpito. «Mia madre ricorda centinaia di ricette senza bisogno di leggere nulla. E poi è abbastanza normale che una ragazza abbia due piedi, non pensi? Il fatto è che quando vuoi scoparti una tu ti sorprendi di cose normalissime.»
A dirla tutta non sono affatto d’accordo con lui, ma per provare a convincerlo gliene sparo una delle mie. «Sì, ma nella pastiera lei ci mette la marijuana» gli faccio io aggiungendoci un occhiolino. «Impossibile» ribatte dopo averci pensato seriamente un po’ su, «la pastiera è una ricetta tradizionale, se è del sud è difficile che cambi gli ingredienti originali. Voi napoletani ci tenete a certe cose, un po’ come noi marocchini. E poi a te non piacciono le ragazze che fumano erba.» Continua a leggere

Baccalà [Ricettario]

scritto da Giulia Binando Melis

Per il baccalà con gli asparagi
400 g di baccalà
1 cipolla bianca grande
1 spicchio d’aglio
Farina bianca
2 asparagi
olio extravergine d’oliva
sale
pepe
petali eduli
Per la salsa verde
120 g di prezzemolo
2 spicchi di aglio
2 tuorli
80 g di pane raffermo (solo la mollica)
50 ml di aceto di vino bianco
3 filetti di acciughe sott’olio

Due asparagi molli. Due asparagi stanchi e impigriti dall’acqua di cottura. Lunghi accasciati sulla porcellana del piatto, salati come naufraghi. Le punte zuppe e inoffensive, mazze ferrate in gomma sgonfia, e niente battaglia, neanche per gioco, qui si ci si sfà e a momenti vien voglia di ringraziare quando romba dall’alto l’interno di un naso che tira su muco, raschia fino in gola e quando è fiero del pacchettino lo passa alla bocca e quella sputa. Incolla gli asparagi, inseparabile coppia, più lucida adesso, quasi più tonica, forse meglio presentabile se qualcuno avesse l’accortezza di spalmare quel grumo uniformemente facendola tutta brillante.
«Chi è la testa di cazzo che ti ha fatto entrare qui?» dice il cuoco.
«Lei, chef» dice l’altro. Continua a leggere

Ceci d’estate [Ricettario]

scritto da Laura Nicchiarelli

4 spicchi d’aglio
300g di ceci
Un gambo di sedano
Una carota
Due rami di rosmarino
Una tazza di brodo

Un grappolo di pomodori tondi ramati maturi
Un peperone rosso
Un cetriolo
Mezza cipolla rossa
Due cucchiai di aceto
Tre cucchiai di olio extra vergine
Sale, pepe

Sei gamberoni del Mediterraneo
limone

Vera scola i ceci dall’acqua di ammollo per metterli a cuocere.
Butta nella pentola anche due spicchi d’aglio, senza sbucciarli, e un ramo di rosmarino strappato dalla pianta sul davanzale.
Jacopo è appena apparso sulla porta d’ingresso.
«Ah, ci sei!»
Poggia lo zaino sulla poltrona gialla e si leva le scarpe con un grugnito di sollievo. Due chiazze simmetriche si vanno formando sul cotone della camicia, a livello dei pettorali.
«A questo punto potremmo raggiungere Franca e Michael.» Continua a leggere

Fondali [Ricettario]

scritto da Stefania Maruelli

La prima volta, un giovedì sera, Lidia aveva bevuto le gocce e si era infilata nel letto dimenticando di spegnere le luci. Al risveglio aveva trovato la casa illuminata in modo innaturale. Le era sembrato tutto troppo giallo. Era gialla la porta del bagno, erano gialle le pareti del corridoio, era giallo il suo riflesso nella finestra in cucina. Quando aveva capito, era corsa per le stanze a spegnere gli interruttori; quindi aveva iniziato la giornata: un bagno caldo al mughetto, una tazzina di caffè con due fette tostate, un salto alla Coop del quartiere. Aveva fatto tutto come sempre, solo non riusciva a ricordarsi di aver preso le gocce prima del solito giro di controllo della casa. Le sembrava anche di avere sognato, ma non avrebbe saputo dire cosa. I sogni non la raggiungevano mai.
La seconda volta, un venerdì, aveva scordato di chiudere a chiave la porta di casa. Se ne era accorta al mattino – molto dopo il bagno al mughetto e il primo caffè –, quando era scesa in cortile a buttare la spazzatura. Si era fermata a salutare il portiere col sospetto confuso che potesse essere entrato in casa durante la notte a cambiare di posto ai suoi oggetti come cambiava di posto alla begonia e ai cassonetti della raccolta differenziata. Ma lui sembrava tranquillo – il solito cenno del capo, il solito sguardo annacquato – e forse era stata lei a spostare il vaso di peonie all’ingresso. Le comprava da maggio a luglio, era un piccolo lusso che si concedeva d’estate. Suo padre le amava; gli altri fiori li vendeva e basta. Da bambina, Lidia passava i suoi pomeriggi in negozio: le piaceva aiutarlo, le piaceva infilare le dita nelle spugne idrofile, tirarle fuori e vedere che i polpastrelli erano verdi, le piaceva studiare nella stanzetta sul retro. Verso le sei, chiudeva i quaderni e andava di là, ogni sera portavano un fiore diverso alla madre. Non era un momento triste, serviva a scandire i giorni. Dopo andavano insieme alla Coop, di sabato al cinema. Continua a leggere

Una lasagna inutile [Ricettario]

scritto da Mattia Grigolo

Carne bovina (trita di manzo, macinata grossa e mista) 300 g
Pancetta 150 g
Carote 50 g
Sedano 50 g
Cipolle dorate 50 g
Vino rosso 100 g
Passata di pomodoro 300 g
Brodo vegetale q.b.
Olio extravergine d’oliva 1 cucchiaio
Sale fino q.b.
Pepe nero q.b.
Burro 70 g
Farina 00 70 g
Latte intero 1 l
Sale fino q.b.
Noce moscata q.b.

Aveva tentato il suicidio, ma senza una vera convinzione, era più una richiesta di attenzioni. Aveva aspettato che una di noi rientrasse dal lavoro per ingerire le pillole. Aspettava me, in realtà, perché delle coinquiline non si interessava granché. Talvolta si dimenticava che abitassero il nostro stesso appartamento e allora si spaventava incontrandole per il corridoio o in cucina.
«Chi è quella?» mi chiedeva.
«Titì, è Annette. Vive qui con la sorella da un anno e mezzo» le rispondevo. Continua a leggere

Long Island [Ricettario]

scritto da Marianna Crasto

15 ml di tequila
15 ml di gin
15 ml di triple sec
15 ml di rum bianco
15 ml vodka
25 ml di succo di limone
3 ml di sciroppo di zucchero
Coca Cola
una fettina di limone per la guarnizione
ghiaccio

ma non si capisce se va messo solo nel bicchiere o solo nello shaker o sia nel bicchiere che nello shaker, o forse sono io che non riesco a capirlo. Penso che Cristiana possa aiutarmi, ma nel passarle il telefono il braccio oscilla lungo una traiettoria strana. Siamo in questa posizione da troppo tempo e l’idea del movimento e la sua realizzazione non coincidono, infatti pure lei sbaglia, afferra l’aria un paio di volte prima di riuscire a prenderlo. La posizione: sedute al contrario sul lettino di ferro battuto. Quattro talloni contro la parete, due busti sul materasso, due teste che ciondolano oltre il bordo arrugginito e come slogate dalla colonna vertebrale. Un incidente stradale. L’insolazione che abbiamo quasi certamente preso scorre in un brivido tra la pelle e la carne: le nostre cosce sono insieme fredde e bollenti, io sento le sue, lei sente le mie e questa percezione oltre i limitati confini di ciascuna è la qualità della nostra amicizia.
Incrocia gli occhi, allontana e riavvicina il telefono infastidita dalla luminosità dello schermo. Dice che, per quanto è complicato, tanto valeva cucinargli una torta a forma di cuore, con la glassa e tutto.
A testa in giù le risate ci soffocano così dobbiamo rotolare su dritte e le risate si trasformano in colpi di mitra. Le spariamo tutto attorno, l’eco ci crivella dopo molti rimbalzi sulle pareti. Continua a leggere