Quindici indizi di una possibile infelicità

1. Erano i giorni del condizionatore rotto, del basilico bruciato dal sole, le cui foglie marroni suggerivano dolorosa sopportazione.
Di una canzone di Calcutta ascoltata allo sfinimento, di una bottiglia di assenzio sul balcone. Era pur sempre estate. Soprattutto, era il periodo in cui il fuoco si era mangiato una fetta del contorno cittadino riempiendo il cielo di monossido. L’aria era un problema. I boschi avevano bruciato per settimane. Diversi tipi di uccelli erano migrati a Sud. La prudenza ci aveva imposto di restare per lo più a casa.
Giocoforza, durante quei giorni avevamo abdicato al rituale dell’abbronzatura. Gli stuoini, i Mojito, il sole che si tuffa nel mare tra le grida degli studenti brilli, tutta quella roba era stata sostituita dal velluto dei nostri divani “Plano Lux”. Possedevamo uno schermo da cinquanta pollici, regalo di certi zii di Sara che, quanto all’alta definizione, parevano intendersene.
A causa dell’incendio, inoltre, avevamo rinunciato a Mykonos. Sara ci era rimasta male. Aveva organizzato la vacanza per mesi; a nulla serviva la promessa che ci avremmo riprovato l’anno successivo.

2. Non guardavamo così tanta TV da anni, ma che altro avremmo potuto fare? Di scopare non se ne parlava. Colpa mia. Ogni volta in cui Sara allungava la gamba verso di me, a letto, io la carezzavo, poi mi voltavo dall’altra parte. Lei mi chiedeva se ci fosse qualcosa che non andava, chiedeva: dimmi che hai. Rispondevo che l’incendio, la sensazione di trovarsi costantemente sotto assalto, il caldo, tutta quella roba mi stava svuotando. Presto mi passerà, aggiungevo. Sara metteva il broncio. Era il suo turno di girarsi dall’altra parte e di mostrarmi le sue spalle aguzze.

3. Per lo più, guardavamo serie televisive. Il grande romanzo contemporaneo sono le serie TV, disse Sara una volta. Si era innamorata del “true crime”. Così ammazzavamo il tempo immergendoci nella spasmodica autopsia di fatti di sangue a elevato tasso mediatico. Secondo Sara, le docu-fiction sul crimine rappresentavano uno degli ultimi baluardi di quel realismo isterico a cui lei si sentiva particolarmente legata. Si abbandonava completamente alla narrazione di referti e indagini. Sussultava, e durante le scene più truci si copriva gli occhi con le dita. Mi si faceva vicina, prendeva la mia mano e se la metteva sulla coscia. Poi la dimenticava lì. Mi sembrava di intravedere una parvenza di felicità.

4. Sara credeva che dentro un fatto di sangue si snodassero altri misteri, dei frattali, delle strade possibili. Ascoltarla mi affascinava. Credevo che nelle parole con cui Sara mi spiegava le possibili motivazioni dell’assassino avrei trovato indizi per comprendere meglio lei.
E dunque trascorrevo le serate in attesa che Sara azzardasse la soluzione del crimine, prima che la voce della Leosini di turno mettesse insieme tutti gli indizi. Si voltava verso di me, attorcigliava un ciuffo al dito e diceva: Il crimine è una cosa difficile composta da tante piccole cose semplici.
Non parlavamo così tanto da tempo, dunque perché rompere l’incantesimo?

5. Poi l’urgenza cittadina cessò. Il fuoco fu domato e anche la passione di Sara per il crimine si rassegnò all’incedere della vita. Riprendemmo a uscire. Quanto al sesso, però, si continuava a fare fatica. Ci furono dei tentativi maldestri.
Una sera rincasammo dopo un aperitivo lungo, ci spogliammo e l’unica cosa che ricordo è che a un certo punto squillò il citofono ed era un corriere di JustEat. Andai ad aprire, poi tornai in camera; chiesi a Sara se non fosse il caso di andare a mangiare prima che la pizza si raffreddasse. Lei mi guardò e fece sì con la testa. La pizza era già fredda; il corriere doveva essersela presa comoda.

6. Lavoravo da casa. Sara, invece, era già rientrata in ufficio. Lo studio di architetti con cui collaborava all’epoca stava vivendo l’apice di una di quelle curve gaussiane da presentazione PowerPoint. E dunque c’era di che sgobbare. Capitava che Sara rincasasse a notte inoltrata. Si toglieva le scarpe al buio, cercando di non far scricchiolare il parquet. Entrava in camera da letto; mi svegliavo; Sara mi sfiorava i capelli e ci addormentavamo. Il giorno seguente era un taglia incolla.

7. Una notte Sara rincasò più tardi del solito. Le chiesi dove fosse stata, ma anche lì: mi interessava davvero, o stavo solo recitando una parte? Ad ogni modo, Sara rispose che in ufficio era un inferno, ma che oltre a quello aveva fatto tardi perché si era fermata a metà strada per seguire delle operazioni di polizia. Cosa intendi?, le chiesi. Lei prese il telefono, giocò sul display, poi me lo porse. Ecco, disse, guarda un po’ qui. La foto ritraeva un portone delimitato da nastri gialli. Una scena del crimine, disse Sara. Una scena del crimine in carne e ossa. Ecco perché ho fatto tardi. Le chiesi se si fosse appassionata a un nuovo caso criminale, dissi stai seguendo un delitto senza di me?, ma lei fece no con la testa. Disse che ero fuori strada, sei del tutto fuori strada disse, in verità l’autrice della foto era lei stessa; l’immagine ritraeva il portone di un palazzo poco distante dal suo ufficio. Domani cercherò di scoprire di più, disse. Così ti aggiorno. Nei suoi occhi ritrovai la scintilla che avevo intravisto durante i giorni dell’incendio.

8. La mattina seguente, a colazione, ci dedicammo alle indagini. Il Messaggero del Nord Est apriva con il resoconto del delitto. Sara disse Bingo.
E dunque scoprimmo che la vittima era un fotografo di nature morte, ucciso con un numero imprecisato di coltellate. Ma gli uomini della scientifica stavano analizzando il caso; presto sarebbero stati disponibili maggiori dettagli. La sete di notizie dei lettori sarebbe stata soddisfatta quanto prima. Si facevano vaghi cenni a faccende legate al mondo della droga. A chiusura dell’articolo, il giornalista si interrogava circa la deriva violenta in cui la città sembrava ormai proiettata, sul destino di tutti noi, sull’identità del carnefice; con una breve preghiera, il giornalista si augurava che chi di dovere facesse il suo lavoro e che il mistero venisse risolto con la massima urgenza.

9. Dissi: dunque si tratta di una banale questione di droga. Sara mi guardò, rimase in silenzio alcuni secondi, poi rispose che, secondo lei, la faccenda era più complicata di così.

10. Una sera, la settimana seguente, Sara rincasò prima del solito. Entrò in cucina mentre stavo sminuzzando una cipolla. Mi baciò. Aveva il fiato corto. Disse che doveva mostrarmi qualcosa. Sparì nell’ingresso e tornò poco dopo reggendo un accendino. Lo teneva tra pollice e indice. Hai iniziato a fumare?, chiesi. Storse il naso. Niente affatto, rispose. Questo accendino apparteneva alla vittima, disse. La guardai. E tu come lo sai?, le chiesi. Rispose che era ovvio, visto che aveva prelevato l’oggetto proprio dalla scena del crimine. Disse: sono uscita prima dal lavoro e passando di lì ho provato a aprire la porta, così per gioco. Era aperta.
La guardai. Mi guardò. Non ho resistito, disse. Aggiunse che non l’aveva vista nessuno. Non seppi cosa rispondere. Sara mi abbracciò da dietro, mi infilò una mano nelle mutande; infine sospirò e disse che, stando così le cose, andava a farsi una doccia.

11. Per qualche giorno non successe nulla di rilevante. Un martedì, però, Sara rincasò per pranzo. Mi raggiunse in sala. Non si era nemmeno tolta le scarpe. Si avvicinò tenendo le mani dietro la schiena, come in quei giochi per bambini. Disse ta-dan, e allungò i pugni verso di me. Scegli, disse. Destra o sinistra? La guardai, forse aggrottai perfino le sopracciglia, dissi non lo so; lei sorrise e disse che mi aveva portato una sorpresa. Aprì la mano, e lasciò cadere nel mio palmo un tubo nero, di piccole dimensioni. Credo che contenga un rullino, disse. Le foto che la vittima non aveva fatto in tempo a sviluppare.
Ma sei matta?, dissi. Mi allontanai da lei. Le chiesi dove avesse preso il rullino, sebbene la risposta fosse scontata. A casa del fotografo, rispose. Mi sembra incredibile che si possa entrare e uscire dalla scena del crimine in questo modo, aggiunse. Poi sparì in bagno.

12. Durante le pause dal lavoro, mi capitò di leggere altri articoli sull’omicidio del fotografo. Gli inquirenti erano ancora a caccia di un colpevole. Le indagini, per così dire, stagnavano. Scoprii che la vittima aveva ricevuto un degno funerale, a cui avevano partecipato i familiari e alcuni amici; pensai che forse, nelle panche della chiesa c’era stato anche qualche agente, sia mai che il colpevole decidesse di presentarsi. Poi mi dissi che quelle cose succedevano soltanto nei film. L’assassino, chiunque fosse, doveva tenersi bene alla larga dalla polizia; del resto l’unico modo per evitare di essere arrestati consiste nel non compiere sciocchezze.

13. Mi appisolai con il computer appoggiato sulla pancia. Quando mi svegliai, Sara era seduta accanto a me. Quando si accorse che mi ero destato, disse: promettimi che non urlerai. Si alzò, stirò con le mani le pieguzze della gonna, sparì e poi tornò, reggendo un paio di guanti neri, da motociclista. Dissi: Spero proprio che non siano ciò che penso.
Sara si strinse nelle spalle. Disse che forse l’assassino si era dimenticato i guanti a casa della vittima.
Ma sei impazzita?, dissi. La polizia, aggiunsi. Se scoprono ciò che hai fatto…, iniziai.
Sara rispose che, secondo lei, la polizia era semplicemente disinteressata al caso. Non lo vedi che le indagini non vanno né avanti né indietro?, chiese. L’appartamento è abbandonato a se stesso. Sospirò. Credo che ci siano più possibilità che il crimine possa essere risolto da qualcuno della strada, piuttosto che dalla polizia. La guardai. Qualcuno della strada tipo tu?, chiesi. Sara disse che no, be’, lei era solo curiosa, maledetti crimini, tutta quella faccenda la stava facendo uscire di testa. La presi per le spalle e le dissi che stava esagerando, dissi: ma lo capisci che stai facendo qualcosa di grave? Lei si divincolò e si chiuse in bagno. Le dissi di aprirmi, ma com’è ovvio lei fece finta di non sentirmi. Dissi che dovevamo riportare subito indietro i guanti e compagnia bella, perché si trattava di prove, di indizi, insomma, lei con il suo comportamento pazzo stava compromettendo la scena del crimine. E se ti trovano sul posto?, chiesi.
Sara tirò l’acqua. Dopo di che uscì. La porta era aperta, si limitò a dire. Magari il caso è già stato risolto, solo che non lo sappiamo. Magari gli oggetti che ho prelevato non appartenevano nemmeno alla vittima, ma al proprietario di casa.
Dissi che era impazzita, lei mi spintonò.
Si chiuse di nuovo in bagno. Andai alla porta e la presi a pugni. Dissi a Sara che era malata, che doveva farsi curare. Le dissi: vuoi capire o no che, prima o poi, qualcuno si accorgerà di ciò che stai facendo?
Lei rimase in silenzio. Aprì il rubinetto. L’unico rumore era quello dell’acqua che scorreva nel lavabo. Tornai in salotto. Guardai gli oggetti che Sara aveva sottratto. Li aveva appoggiati su una credenza. Mi dissi che quella roba andava fatta sparire al più presto.

14. Infilai le scarpe e scesi in strada. Faceva freddo. Dov’era finita l’estate? E l’incendio? I giorni migliori ci erano stati strappati di dosso con violenza. Raggiunsi il palazzo in cui era avvenuto il delitto. Mi fermai davanti al portone d’ingresso. I nastri bianco-rossi della polizia erano stati rimossi. Il portone era danneggiato. Per spalancarlo, era sufficiente spingere con decisione. Entrai nel condominio. La casa della vittima era sulla sinistra. Raggiunsi la porta. Afferrai la maniglia. In effetti, era aperta. Mi introdussi nell’appartamento. Chiusi gli occhi. Il cuore batteva con ferocia da qualche parte nel petto. Afferrai il senso dell’espressione “avere le budella strizzate”. Mi chiesi se anche Sara avesse provato lo stesso, introducendosi lì dentro. Mi sentii eccitato e mai così vicino a Sara. Fu come se mi si aprisse qualcosa dentro, di insperato. Capivo Sara. La sua smania, ora, aveva un nome. Mi concentrai sul battito del cuore, fino a quando rallentò e riprese a battere normalmente.

15. Allora aprii gli occhi. L’appartamento era completamente vuoto. Compresi che tra me e Sara era finita.