Sangue nero

«e nessuno ti vede,
e nessuno ti vuole
per quello che sei».

(Mimì sarà – Francesco De Gregori)

Percorro 23 chilometri per andare al lavoro, circa un’ora di strada, con traffico moderato. All’andata, mi fa compagnia una parvenza di serenità. La via del ritorno assomiglia, invece, a un guaito che si espande prepotente e irrimediabile nel circostante. Questa dualità emotiva mi accompagna da più di due anni.
Soffro la più nera delle solitudini interiori.
Nera come il sangue seccato del cagnolino che da tre giorni incontro all’imbocco della tangenziale. Si estende lungo tutto il perimetro del corpo, che se ne sta lì, rannicchiato, come se qualcuno – dopo averne provocato la morte – l’abbia messo comodo, in una posizione anche visibilmente piacevole per i passanti occasionali; come se questo servisse a evitare l’indifferenza che io per prima agguanto, trasformandola in scudo. Il sangue nero, la sua simbologia con la solitudine, tuttavia, ci accomuna.


Il sangue, o meglio i suoi valori, sono la mia piccola e segreta ossessione da poco più di un mese. Da quando la mia solitudine si è attenuata con la comparsa di alcuni lividi sul corpo. Anche i miei nuovi compagni hanno un colore che tende al nero, sul principio della fine. Ho cominciato a notarli quando è sbucato il più eccentrico di loro, lungo il busto, sotto il mio abbondante seno. Un posto insolito rispetto ai luoghi più gettonati, come le gambe, l’interno coscia o le braccia, dove ugualmente si divertono a sostare, cambiando forma e colore nei giorni. Assomigliano alla mia collezione di amori con le gambe corte: si fermano giusto il tempo per approvvigionarsi e fare spazio alla successiva illusione. L’illusione mi tiene in vita e, al contempo, me ne allontana, calpestando in me quello che viene definito istinto di conservazione.

Sono le 20 e leggo sulla mia poltrona letto, nei 24 metri quadrati di prigionia che sono la mia casa, “Odio, rabbia, violenza e narcisismo”, di Otto F. Kernberg, illudendomi di applicare alla mia esistenza la teoria che disperatamente cerco di apprendere per non incappare più nel male che io stessa mi infliggo.
Nonostante la mancanza di empatia, sanno bene cosa succede agli altri, sanno cosa provocano. Ma non avendo alcuna morale li manipolano e li ingannano senza scrupoli”. Vado avanti nella lettura, determinata più che mai a invertire la rotta dei miei fallimenti. Di tanto in tanto, mi interrompe la concentrazione la rabbia accumulata da questa mattina, che come sempre reprimo, facendo largo a stati depressivi tanto acuti quanto cari. Sono il mio covo di solitudine e malessere, caldo come il fuoco che mi implode nelle viscere.
Questa mattina ho scoperto che M. ha una nuova “amichetta”. Di M. credo di sapere molto, più di quanto lui stesso crede di sapere di se stesso. Si sente onnipotente, crede di potere tutto e di rimanere sempre indenne alle ferite che infligge agli altri e a se stesso. Ma questa volta non gli è andata bene. Anche se la prova della sua nuova tresca è stata prontamente cancellata, ho fatto degli screenshot. So che mi potrebbero servire a trovare quel coraggio che mi è mancato quando avrei dovuto utilizzarlo, per restituirgli la moneta con cui ha pagato i miei sentimenti per lui. Mi ha prima ingravidata di amore usando la forza e con la stessa violenza lo ha poi ridotto, quell’amore, in poltiglia maleodorante. Vorrei vedere quell’intruglio di crudeltà trasformarsi in una buccia d’arancia, che perdura nell’effluvio, quando, poggiata sui termosifoni, fa Natale nella stanza. E invece è solo un odore appuntito, mi è penetrato nella pelle e mi infastidisce, mi impedisce di avere una socialità amorosa sana. Faccio fatica ad accogliermi nel mondo, abitata dalla lama di quel miasma, provocato dalla sostanza umana. Così apro i polmoni per accogliere inquinamento e angoscia.

Mi alzo per andare a fumare in balcone e noto nuovi lividi sui piedi. Non sono da attribuire a nessun colpo accidentale, non tutti. E la possibilità che sia stato qualcuno a provocarmeli, per eccesso di rabbia, è ormai lontana nel tempo. Mi sono affrancata da quel pericolo circa due anni fa, dietro la promessa di una rinascita. Come se mi interessasse davvero tornare alla vita, considerando ciò che sapevo mi sarebbe toccato: disturbo da stress post-traumatico, compromissione nella gestione dei rapporti sentimentali, un peso che mi comprime il petto a ogni respiro e, soprattutto, il nero della solitudine. Anche l’eccesso di amore fisico lo si può escludere, almeno dall’ultima volta che ho fatto l’amore con M., cinque mesi fa, quando gli confessai il mio amore e prima che mi dicesse che di lì a poco sarebbe tornato a casa, dalla sua compagna, per stringerla nel nero della notte, con ancora il mio odore addosso. Quattro ore di un “ne vale la pena” e la certezza che solo uno, due, tre cavità ne sono state la spinta, per percorrere quei chilometri che lo separavano dal peccato.
Il peccato, il senso e la misura del mio essere nel mondo dei vivi, per M.
Avrà accarezzato i suoi capelli di grano, derubricando il mio amore a un difetto gettato dalla rupe. Quello che più mi manca di M. è il suo odore; è banale, lo so, ma è così che gli animali si riconoscono e si scelgono.

Dovrei fare le analisi del sangue. Le ultime sono state sei mesi fa, avevo un paio di valori fuori dai parametri; uno sforamento minimo, tanto che mi è stato detto di non preoccuparmi. Io invece ho continuato a farlo, ma in solitudine, come ora, mentre ricordo l’anziana signora incontrata quattro anni fa, mia compagna di stanza in ospedale, con la quale ho festeggiato sia il Natale che il Capodanno. Aveva il “brutto male”; mia mamma lo chiama così, incapace di gestire l’indecenza della semantica legata a quella parola.
«Mia figlia ha subito un aborto al settimo mese», mi raccontò, «mi sono ammalata per quello». Le ho creduto.

I lividi si fanno strada sul mio corpo, che dopo la rottura con M. ho deciso di mettere in pausa dall’amore e dal sesso. Sono un marchio, a ricordarmi il dolore che si espande, come il guaito che ogni sera ascolto partire dalle viscere della terra, lungo la strada del rientro a casa, come il cagnolino vestito di sangue nero. Mi ci sto affezionando. Mi fanno sentire al sicuro, mi ricordano che presto sarà tutto finito. Fare quel prelievo del sangue potrebbe costringermi a metterli in pausa.
«Se mi ammalo non mi curo», ho detto più volte ad A., la custode dei miei pensieri più liberi e oscuri. A volte mi domando come faccia a sopportare il peso che le butto addosso. La risposta è sempre il bene, tuttavia insufficiente a scardinare il nero di una solitudine che mi porta a pensieri poco ordinari. Non avrebbe senso scoprire di esserlo, malata, se poi la strada della salvezza non la si vuole percorrere, penso. Io la chiamo logica, per A. è un doloroso fuori-fuoco esistenziale.
Con mia sorella iniziò così: «Mamma, mi fanno male le gambe», diceva, mentre i lividi comparivano. Sono scomparsi solo due anni dopo, insieme a lei, alla sua giovane vita fatta ancora di pochi sorrisi. Ma prima ancora sono scomparsi i giochi e i capelli fluenti di bambina, poi ricresciuti più lucenti di prima, insieme alla malattia. L’unica cosa viva, in quei due anni, è stata la speranza, poi rimasta poggiata sul comodino, di fianco al letto delle notti passate insonni, in compagnia di ansia e preoccupazione. È la storia di molti e, come per tutti, banalmente dolorosa.

Io non avrò la stessa sorte. Dovrà essere casuale, improvvisa, non consapevole, mi dico, come se fosse possibile andarsene all’improvviso quando un male ti abita dentro. Finirei in ospedale per un malore qualsiasi e mi convinceranno a curarmi. Ma è un diritto del malato rifiutare le cure, ricordo di aver letto da qualche parte.
Nessuno dovrà saperlo. Se lo dicessi a E. si metterebbe a ridere, lo fa sempre quando si trova nell’incapacità di gestire il dolore. T. si fionderebbe a casa mia e mi trascinerebbe in ospedale, facendosi odiare. F. mi insulterebbe. Em. andrebbe nel panico. Più di chiunque altro non dovrà saperlo A., non posso farle anche questo.
L’istinto di non confidarsi a nessuno è, forse, l’effetto collaterale più difficile da gestire.
Potrei dirlo a M., penso: con lui non rischierei di essere salvata.

Sento montare un dolore al braccio sinistro, il cuore è in fibrillazione e sudo freddo, il respiro si affanna, mi scendono le lacrime. È uno dei miei attacchi di panico. L’ultimo è stato un anno fa, durante una seduta di psicoterapia, la penultima della mia vita, prima che la dottoressa mi dicesse che il nostro percorso insieme era concluso, che potevo vivere la mia vita. Del resto, non mi è stato mai diagnosticato alcun disturbo clinico o comportamentale, il percorso era finalizzato all’eliminazione di alcuni traumi che avevo vissuto, nel passato e di recente. Un anno esatto e sono punto e capo. Mi sento come un ponte, che qualcuno ha deciso di spostare, senza prima passare dalla demolizione e successiva ricostruzione, che tuttavia non sarà mai identica alla precedente. Questa volta è diverso, credo. Domani non lavoro. Farò quello che avrei dovuto fare un anno fa, dopo R. e prima di Massimiliano.