Il problemino

Il giorno dei miei otto anni mia madre preparò una torta insieme alle altre detenute nel cucinotto di servizio. Non ci facevano entrare nessuno li dentro, eccetto quelle che organizzavano la cambusa per la mensa. Mamma convinse Pina a farglielo usare, le avrà detto che otto anni ce li ha avuti anche il suo di figlio, Pina avrà stretto le palpebre e le si sarà scaldato il cuore. Lì dentro ero un po’ il figlio di tutte, mi avevano visto nascere. Gli altri bambini dopo un po’ uscivano insieme alle madri o venivano dati in affido. Io no. Quella era casa mia; non avevo ancora trovato una famiglia che mi prendesse. Forse per via del problemino: sbandavo e sbattevo dappertutto, contro gli stipiti delle porte, gli spigoli dei mobili, contro ogni cosa mi si trovasse davanti; ero continuamente cosparso di lividi. Nelle giornate più sfortunate, oltre a sbattere, inciampavo nei piedi di tavoli e sedie, a volte finivo anche giù per le scale. All’inizio sembrava fosse un “banale problema alla vista”, così aveva detto il medico del penitenziario: «Tranquillo è normale se nasci qui dentro, un paio di occhiali e il problema è risolto». Gli occhiali ridussero di gran lunga le rovinose cadute e gli ematomi che ne venivano. Ma il problemino c’era ancora. Per il medico non era più una cosa di cui occuparsi, in fondo non era una questione di vita o di morte. Si tirò fuori dalla faccenda con qualche raccomandazione su come scendere le scale. Anche a detta di mia mamma non c’era nulla che non andasse, era convinta che nella mia vita precedente fossi una creatura marina, abituata a spostarsi nell’acqua. «È una questione di attrito, vedrai che ti abituerai», diceva. Io non sapevo bene di cosa stesse parlando, pensavo alla parola attrito e mi veniva in mente uno di quegli attrezzi con cui gli ufficiali penitenziari facevano lavoretti di idraulica, tipo sturare lo scarico nei bagni comuni. Fatto sta che cominciai a non farci più caso nemmeno io. Finché non arrivò la mattina del mio primo giorno di scuola. Giacomo mi venne a prendere in cella, camminammo così tanto che i talloni cominciarono a prudere. Ci fermammo ad un grosso incrocio ad aspettare il pulmino. Quello diventò il rituale di ogni giorno, i volontari cambiavano ma il percorso era sempre lo stesso. Quando capitava di camminare sotto il sole cocente mi facevo sempre la stessa domanda: perché tutto quel tragitto? Il pulmino poteva anche passare a prendermi davanti al carcere, dopotutto. Una volta la feci anche a Giacomo, lui restò vago e mi rispose con un’altra domanda, qualcosa del tipo: «Non ti piace camminare?» No che non mi piaceva, a parte il prurito ai talloni mi girava la testa e mi veniva da vomitare, sempre per colpa del problemino, ma questo non glielo dissi mai. Avevo paura che non mi facessero più uscire. Cercavo di tenere lo sguardo basso, contavo i solchi tra una mattonella e l’altra; a volte le saltavo di due in due, altre giocavo a camminare sulle ombre. Ma poi succedeva sempre che, per un motivo o per un altro, alzassi lo sguardo, o verso Giacomo per rispondere alle sue domande, o verso l’altro lato della strada quando c’era da attraversare. Lo stomaco si irrigidiva e subito sbandavo. Colpa del cielo, troppo grande; i miei occhi cercavano un limite e si stancavano di non riuscire a trovarlo. Salire sul pulmino era la salvezza: i conati si calmavano, potevo tenermi ai sedili, e lì dentro il cielo riacquistava una dimensione familiare, ristretto dai finestrini.
Con il passare del tempo al cielo mi sono abituato, anche agli alberi, alle macchine, alle bici e al chiasso della vita in strada. Ad abituarmi a Claudio e Nicola invece non ci sono riuscito. Mi chiamavano “Tino vomitino”. Mi capitava di barcollare all’uscita di scuola, o anche in giardino durante la ricreazione, spesso non riuscivo a rimandar giù il vomito; i passaggi dagli ambienti chiusi agli spazi aperti erano problematici. Dopo un po’ ero diventato “Tino” per tutti; la parola che seguiva era stata sostituita dal gesto delle due dita in bocca, per aggirare i richiami del personale della scuola. Anche il mio vero nome veniva fuori spesso, il maestro mi iscriveva ai tornei locali di scacchi; ero bravo, del resto facevo quello dalla mattina alla sera, con mia mamma, con Giacomo e con gli altri volontari, a volte anche con le guardie di turno sul nostro piano. Mamma mi mandava a giocare in cambio di luci accese fino a fine partita. Ero finito subito sul giornalino della scuola, e le mie foto con le medaglie erano esposte in bella vista nella bacheca della sala sportiva. Mi piacevano gli scacchi: non dovevo camminare, guardare in aria, e soprattutto potevo uscire più spesso. Poi un giorno Claudio e Nicola vennero a vedermi in palestra, al torneo di scacchi della scuola. Lo striscione me lo aveva fatto notare il maestro. C’era scritto Tino, e accanto, il disegno di due dita rivolte verso l’altro; segno di vittoria, avrà pensato lui. Quel giorno mi sbrigai a perdere e me ne andai. Quello dopo misi della polvere di vetro nel panino alla Nutella di Claudio, e quello successivo ancora lui non venne a scuola. Una settimana dopo il suo banco era ancora vuoto, e se in seguito tornò, io non l’ho mai saputo. A scuola, Giacomo e il pulmino non mi ci hanno portato più. La mia casa continua ad essere il carcere, ora però non sono più con la mamma, vivo in mezzo ad altri ragazzi, maschi come me. Del perché siamo rinchiusi qui dentro non ne parliamo mai, tant’è che forse fra un po’ della storia del vetro me ne dimenticherò. La mia cella è piccola, ma mi ci lasciano portare i manga. A volte penso a mia madre, ho sempre quel problemino ma il cielo è tornato a restringersi e non vomito più.