Prima di tutto

Accadde prima che tutto si mettesse a correre e diventasse frastuono e insensatezza.
La crisi petrolifera aveva appiedato l’Italia da novembre. Nei giorni di festa non circolavano le macchine e Chieti sembrava desolata e fuori dal tempo. Per giunta, nevicava dal 23 dicembre.
Incaciava, come si dice da quelle parti.
Quel termine fu la conferma, sì, siamo ancora noi, la domanda che fece mia madre Antonietta sulla soglia di casa quella sera della prima neve.
Allora, Marce’, sta ‘ncacià, sta facendo sul serio?
Si, mamma, è incredibile, guarda, e mi scotolai i capelli infarinati proprio davanti ai suoi occhi, per trasmetterle il bagnato. Scemo che sei! E si ritrasse sorridendo.
La neve continuò fino al mattino successivo. A mezzogiorno una stupefacente apertura di sole e fior di cascatoni lungo quel sali-e-scendi per la città aggrappata sulla collina.
Nel pomeriggio, ventate di tramontana e giù altra neve.
Per la cena della vigilia non ci furono prelibatezze, tutte rimandate al pranzo di Natale. Accompagnai mamma e papà a messa. Alberto e Carlo avevano già abbandonato la tradizione mentre io dovevo ancora compiere la mia, di rivolta. Andai di buon grado, perché a San Francesco avrei potuto vedere Maddalena Carnevali, la figlia del professore di matematica di Carlo. Conducevo manovre di avvicinamento dall’inizio dell’anno scolastico ma non trovavo l’aggancio per fare amicizia: lei terza scientifico sezione B, io D.
Usciti dalla messa, continuava a nevicare, le vecchiette faticavano a stare in piedi. Rimediai da Maddalena solo un lieve cenno di saluto. Le sue guance imporporate dal freddo nascondevano forse un mezzo sorriso. Lei era più bella e più alta di me, avrei raggiunto la mia statura solo a vent’anni compiuti. I miei non si fermarono a salutare i Carnevali, si trovavano in imbarazzo perché Carlo non era proprio uno studente modello.
Il giorno di Natale, Chieti si risvegliò immersa nel bianco. Si faticava persino ad uscire di casa. Non volava una mosca, l’assenza delle macchine e il freddo intenso della notte avevano permesso alla neve di consolidarsi, al punto che …
Fui io a bussare alla porta di Guido. Ci proviamo?
Lui aveva pensato la stessa cosa.
Calzammo gli scarponi e con gli sci in spalla salimmo faticosamente, tra cumuli di neve, fin su la Civitella, l’acropoli dell’antica Teate, 330 s.l.m. In tutto, cinque brevi salite, una dopo l’altra, come il percorso di una seggiovia. Continuava a nevicare. Chieti trasfigurata dalla neve era diventata un paese di montagna, una pista da sci.
Le poche persone in giro ci guardavano stupefatte, erano soprattutto ragazzi che giocavano a palle di neve. Nessuno provò ad imitarci, qualcuno scendeva con la slitta.
Ogni volta, venti minuti di fatica per salire e appena cinque minuti per discendere. Lo schuss più impegnativo portava dalla Trinità all’incrocio della Previdenza Sociale, una pendenza del quindici per cento a dir poco. Su quel tratto ripido, stretto, zeppo di neve Guidò ruzzolò su un alberello di Natale piazzato davanti alla palestra del judo.
Nel mezzo dell’ultima discesa, intravidi in piazza Maddalena Carnevali in compagnia di un’amica. Aveva smesso di nevicare. Rimase a bocca aperta vedendomi passare in velocità. Sollevò il braccio, strillò Ehi, che bello! La paura mi diceva di continuare la discesa, ma subito ci ripensai e strozzai una brusca frenata per poterla conoscere, finalmente. Mi misi a racchettare per tornare indietro, lei mi venne incontro.
Sai sciare? Che bravo che sei. Aveva rotto l’incantesimo.
Lunghi capelli rosso pallido le incorniciavano il volto, screziato di efelidi. Vidi da vicino gli occhi chiari, vitrei, raggianti. Era spavaldamente senza cappello ma impacciata quanto me.
Me la cavo, vado in montagna da quando avevo sei anni.
E tu scii?
No, Maddalena non sciava, ma era lo stesso stupenda, sembrava Flora di Botticelli, la giovane inghirlandata.
Parlammo come se ci conoscessimo da tempo. Le proposi di andare al cinema il giorno di Santo Stefano, che intraprendenza! Lei accettò e mi diede il suo numero di telefono. Lo tengo ancora a memoria: 28-40.
Giunsi a casa che i nostri parenti erano già arrivati, pur con qualche difficoltà. Aspettavano solo me. Fradicio di sudore, li abbracciai uno per uno. Ero strafelice, euforico, ma non potevo rivelarne il motivo.
Del pranzo di Natale ricordo prima di tutto il sapore persistente di quell’incontro con Maddalena, la testa che frullava, le aspettative su di lei, le incognite del giorno dopo. La felicità inebriante.
Per una volta c’erano anche i genitori paterni, Nonno Giustino e Nonna Gemma, con cui papà litigava da sempre. Purtroppo, li vedevamo di rado.
Quanto ti sei fatto grande, Marce’, mi disse nonno abbracciandomi. Zitto No’, sono solo uno e sessantaquattro. Mi guardò fisso negli occhi e teneramente mi sfiorò la nuca con la mano: vedrai che crescerai ancora, tuo padre fece lo stesso.
Era smagrito, gli occhi infossati, i capelli ancora di un nero corvino, sorrideva. Così diverso da mio padre.
Ci scommetti che il prossimo Natale sarai arrivato a uno e settanta? Ne era proprio convinto.
Poi, mi strinse forte a sé, non era mai accaduto, non in quel modo.

Il Natale successivo, tra gli invitati ci fu anche Maddalena. Raggiunsi la fatidica altezza di 171 cm.
Fu quella l’ultima volta che vidi nonno Giustino, scomparve all’improvviso nel mese di febbraio.
Il disgelo fu repentino. Le automobili ripresero a circolare giovedì 27 dicembre 1973.