In bilico sulla sedia, col peso della testa sorretto dal gomito, Alberto osservava i girasoli al centro del tavolo, immaginando una colazione a due illuminata dall’arancio vivo dei petali al mattino.
Tuttavia, per Alberto quei girasoli non erano solo un modo per rievocare il primo appuntamento, ma stavano diventando la bussola con cui tenere traccia del trascorrere del tempo. Considerò la leggera penombra che si andava diffondendo nel cucinotto e sentì di essere in ritardo rispetto all’orario reale della giornata. L’orologio da polso segnava le sedici, anche se probabilmente erano già le diciotto di un pomeriggio molto più scuro di quanto il sole dava a vedere. Doveva essergli successo di nuovo.
Non era un problema risolvibile da un orologiaio il suo: per quanto ne sapeva gli ingranaggi non necessitavano di riparazioni, a meno che non si dovesse riparare anche il sole. Aveva ormai realizzato che, pur avvertendo gli oggetti circostanti per come erano, con tutte le loro proprietà, li vedeva in ritardo rispetto alla loro configurazione temporale. Uno scherzo della percezione che gli si presentava sempre più spesso; a volte si trattava di minuti, altre di ore intere.
La prima volta gli era successo all’improvviso, un giorno come un altro: stava fumando mentre batteva gli ultimi capoversi di un articolo e la sigaretta arrivò a bruciargli le labbra. Lasciò cadere il mozzicone sulla scrivania, una reazione istintiva, mentre cercava di rintracciare la scottatura sulla bocca. La sigaretta sembrava essere lì, ben lontana dall’arrivare al filtro; poteva ancora vederla tra le sue labbra, riflessa sul vetro della finestra, pur sapendo che gli era caduta. Stessa cosa per il testo che aveva digitato e di cui non c’era traccia sullo schermo. Ma lì per lì non si fece troppe domande, semplicemente accusò un malore e, scusandosi col capo, tornò a casa tra le prime difficoltà dei suoi sintomi. Più tardi, quello stesso giorno, il capo lo aveva chiamato per dirgli che se non stava bene, poteva tranquillamente prendersi qualche giorno. «Ma l’articolo…» cercò di obiettare lui. L’articolo era concluso e perfetto così com’era, tanto da procurargli i complimenti del caporedattore.
I giorni seguenti non disse nulla a Ludovica, non sapeva come descriverle quel malessere intermittente. Era ancora impegnato a comprendere l’enigma di quell’effetto polaroid, come quando si scatta un’istantanea, ma si deve attendere perché l’immagine compaia. Sapeva quanto fosse dura in quel periodo per lei a lavoro, perciò evitò di appesantirla con i suoi problemi.
Nel frattempo Alberto aveva iniziato a regolare la sua vita sulla base di quello scarto temporale, abituandovisi a poco a poco. Con i colleghi della redazione era semplice parlare del nulla durante le pause caffè: a quanto pare il suo disturbo non coinvolgeva le persone. Ciononostante, cominciò a evitarli e a negarsi sempre più spesso, cercando di anticipare il lavoro e uscire prima, dato che ormai prendere l’automobile o i mezzi pubblici gli era diventato impossibile.
Solamente una volta, una mattina, aveva chiamato il suo medico per spiegargli a grandi linee il problema, almeno fin dove poteva osservarlo. Il dottore assentì, come se stesse prendendo nota, ma quando Alberto gli chiese se poteva visitarlo urgentemente, si sentì rispondere che lo avrebbe visto l’indomani. Ebbe paura a chiedergli cosa intendesse e riagganciò.
Ma con la sua ragazza era diverso. La vedeva sempre più taciturna e si domandava se non avesse notato qualcosa. Avrebbe voluto spiegarle quello che provava, dirle del suo sentirsi indietro, sospeso a metà. Avrebbe voluto chiederle se le fosse mai capitato o se avesse idea di cosa gli stava succedendo, ma si rese conto che tutti quei discorsi erano prematuri, e si convinse che i sintomi se ne sarebbero andati così come erano arrivati.
D’altronde il loro rapporto restava per lui una costante, e proprio ripensando al loro primo appuntamento aveva deciso di prenderle quei fiori.
Quella volta, Ludovica lo aveva portato nel posto che più di tutti la faceva stare bene, dove si rilassava e staccava la spina dal mondo. Davanti a quell’immensa distesa di girasoli gli aveva detto affascinata che le corolle seguivano il sole sin dal mattino, accompagnandone il movimento in cielo fino al tramonto. Una cosa pazzesca, aveva aggiunto, dato che le piante non hanno muscoli che gli consentono di muoversi. E continuava a guardarli entusiasta, mentre gli raccontava che, persino chiusi in laboratorio, per un certo periodo continuavano istintivamente a seguire il sole, anche se non lo vedevano.
C’era in loro una sorta di ritmo interno, considerava ora Alberto, mentre guardava i girasoli che le aveva comprato, intenti a fissare la parete del cucinotto senza finestra. Era come se sapessero che il sole stava tramontando lì e Alberto pensò che anche lui stava imparando a vivere come loro, sentendosi un po’ eccezionale a modo suo.
Ludovica li aveva visti di sicuro, si disse, ma la sera precedente doveva essere rincasata tardi e aveva preferito non disturbarlo. La stessa premura che aveva usato lui quella mattina, dato che ormai doveva anticipare l’alba per arrivare a piedi in ufficio.
La aspettò lì, con la sorpresa dei fiori sul tavolo, ché non è mai troppo tardi per le sorprese, e quando la sentì rincasare, ne contemplò in silenzio i passi. Ludovica si fermò sulla porta del cucinotto e lui le chiese che ore erano e se non fosse tardi per una cena fuori. Rimase in attesa di una risposta e piano piano gli venne il dubbio che lei avesse parlato ma che non l’avesse sentita, che anche le parole fossero oggetti materiali, capaci di sfuggirgli, correre via come frecce e lasciarlo indietro. Ma Ludovica era rimasta in silenzio a fissare i girasoli sul tavolo, come se per un istante un ricordo le avesse sfiorato lo sguardo. Lui restò in attesa per tutto il tempo in cui vide quel ricordo tramontare, anche se nel cucinotto il sole non arrivava.
Polaroid
scritto da
Valerio Russo