Polaroid

scritto da Valerio Russo

In bilico sulla sedia, col peso della testa sorretto dal gomito, Alberto osservava i girasoli al centro del tavolo, immaginando una colazione a due illuminata dall’arancio vivo dei petali al mattino.
Tuttavia, per Alberto quei girasoli non erano solo un modo per rievocare il primo appuntamento, ma stavano diventando la bussola con cui tenere traccia del trascorrere del tempo. Considerò la leggera penombra che si andava diffondendo nel cucinotto e sentì di essere in ritardo rispetto all’orario reale della giornata. L’orologio da polso segnava le sedici, anche se probabilmente erano già le diciotto di un pomeriggio molto più scuro di quanto il sole dava a vedere. Doveva essergli successo di nuovo.
Non era un problema risolvibile da un orologiaio il suo: per quanto ne sapeva gli ingranaggi non necessitavano di riparazioni, a meno che non si dovesse riparare anche il sole. Aveva ormai realizzato che, pur avvertendo gli oggetti circostanti per come erano, con tutte le loro proprietà, li vedeva in ritardo rispetto alla loro configurazione temporale. Uno scherzo della percezione che gli si presentava sempre più spesso; a volte si trattava di minuti, altre di ore intere.
La prima volta gli era successo all’improvviso, un giorno come un altro: stava fumando mentre batteva gli ultimi capoversi di un articolo e la sigaretta arrivò a bruciargli le labbra. Lasciò cadere il mozzicone sulla scrivania, una reazione istintiva, mentre cercava di rintracciare la scottatura sulla bocca. La sigaretta sembrava essere lì, ben lontana dall’arrivare al filtro; poteva ancora vederla tra le sue labbra, riflessa sul vetro della finestra, pur sapendo che gli era caduta. Stessa cosa per il testo che aveva digitato e di cui non c’era traccia sullo schermo. Ma lì per lì non si fece troppe domande, semplicemente accusò un malore e, scusandosi col capo, tornò a casa tra le prime difficoltà dei suoi sintomi. Più tardi, quello stesso giorno, il capo lo aveva chiamato per dirgli che se non stava bene, poteva tranquillamente prendersi qualche giorno. «Ma l’articolo…» cercò di obiettare lui. L’articolo era concluso e perfetto così com’era, tanto da procurargli i complimenti del caporedattore.
I giorni seguenti non disse nulla a Ludovica, non sapeva come descriverle quel malessere intermittente. Era ancora impegnato a comprendere l’enigma di quell’effetto polaroid, come quando si scatta un’istantanea, ma si deve attendere perché l’immagine compaia. Sapeva quanto fosse dura in quel periodo per lei a lavoro, perciò evitò di appesantirla con i suoi problemi.
Nel frattempo Alberto aveva iniziato a regolare la sua vita sulla base di quello scarto temporale, abituandovisi a poco a poco. Con i colleghi della redazione era semplice parlare del nulla durante le pause caffè: a quanto pare il suo disturbo non coinvolgeva le persone. Ciononostante, cominciò a evitarli e a negarsi sempre più spesso, cercando di anticipare il lavoro e uscire prima, dato che ormai prendere l’automobile o i mezzi pubblici gli era diventato impossibile.
Solamente una volta, una mattina, aveva chiamato il suo medico per spiegargli a grandi linee il problema, almeno fin dove poteva osservarlo. Il dottore assentì, come se stesse prendendo nota, ma quando Alberto gli chiese se poteva visitarlo urgentemente, si sentì rispondere che lo avrebbe visto l’indomani. Ebbe paura a chiedergli cosa intendesse e riagganciò.
Ma con la sua ragazza era diverso. La vedeva sempre più taciturna e si domandava se non avesse notato qualcosa. Avrebbe voluto spiegarle quello che provava, dirle del suo sentirsi indietro, sospeso a metà. Avrebbe voluto chiederle se le fosse mai capitato o se avesse idea di cosa gli stava succedendo, ma si rese conto che tutti quei discorsi erano prematuri, e si convinse che i sintomi se ne sarebbero andati così come erano arrivati.
D’altronde il loro rapporto restava per lui una costante, e proprio ripensando al loro primo appuntamento aveva deciso di prenderle quei fiori.
Quella volta, Ludovica lo aveva portato nel posto che più di tutti la faceva stare bene, dove si rilassava e staccava la spina dal mondo. Davanti a quell’immensa distesa di girasoli gli aveva detto affascinata che le corolle seguivano il sole sin dal mattino, accompagnandone il movimento in cielo fino al tramonto. Una cosa pazzesca, aveva aggiunto, dato che le piante non hanno muscoli che gli consentono di muoversi. E continuava a guardarli entusiasta, mentre gli raccontava che, persino chiusi in laboratorio, per un certo periodo continuavano istintivamente a seguire il sole, anche se non lo vedevano.
C’era in loro una sorta di ritmo interno, considerava ora Alberto, mentre guardava i girasoli che le aveva comprato, intenti a fissare la parete del cucinotto senza finestra. Era come se sapessero che il sole stava tramontando lì e Alberto pensò che anche lui stava imparando a vivere come loro, sentendosi un po’ eccezionale a modo suo.
Ludovica li aveva visti di sicuro, si disse, ma la sera precedente doveva essere rincasata tardi e aveva preferito non disturbarlo. La stessa premura che aveva usato lui quella mattina, dato che ormai doveva anticipare l’alba per arrivare a piedi in ufficio.
La aspettò lì, con la sorpresa dei fiori sul tavolo, ché non è mai troppo tardi per le sorprese, e quando la sentì rincasare, ne contemplò in silenzio i passi. Ludovica si fermò sulla porta del cucinotto e lui le chiese che ore erano e se non fosse tardi per una cena fuori. Rimase in attesa di una risposta e piano piano gli venne il dubbio che lei avesse parlato ma che non l’avesse sentita, che anche le parole fossero oggetti materiali, capaci di sfuggirgli, correre via come frecce e lasciarlo indietro. Ma Ludovica era rimasta in silenzio a fissare i girasoli sul tavolo, come se per un istante un ricordo le avesse sfiorato lo sguardo. Lui restò in attesa per tutto il tempo in cui vide quel ricordo tramontare, anche se nel cucinotto il sole non arrivava.

Esser buoni

scritto da Emma Caterina Cori

Nessuno era mai riuscito a bollirmi in pentola: ero sempre scappata da ogni trappola che mi avevano teso, e anche da quelle che non mi avevano teso. La mia pelle – liscia, squamosa, resistente alle fiamme e ai temporali più violenti, mi rendeva invisibile ai predatori e perfettamente idrodinamica; ed ero forte come un ramo ancora verde che si piega e si piega ma non si spezza mai, e per anni ho desiderato solo di rimanere verde quel tanto che bastava da potermi piegare fino alla morte senza morire davvero. Continua a leggere

Quindici indizi di una possibile infelicità

scritto da Matteo Quaglia

1. Erano i giorni del condizionatore rotto, del basilico bruciato dal sole, le cui foglie marroni suggerivano dolorosa sopportazione.
Di una canzone di Calcutta ascoltata allo sfinimento, di una bottiglia di assenzio sul balcone. Era pur sempre estate. Soprattutto, era il periodo in cui il fuoco si era mangiato una fetta del contorno cittadino riempiendo il cielo di monossido. L’aria era un problema. I boschi avevano bruciato per settimane. Diversi tipi di uccelli erano migrati a Sud. La prudenza ci aveva imposto di restare per lo più a casa.
Giocoforza, durante quei giorni avevamo abdicato al rituale dell’abbronzatura. Gli stuoini, i Mojito, il sole che si tuffa nel mare tra le grida degli studenti brilli, tutta quella roba era stata sostituita dal velluto dei nostri divani “Plano Lux”. Possedevamo uno schermo da cinquanta pollici, regalo di certi zii di Sara che, quanto all’alta definizione, parevano intendersene.
A causa dell’incendio, inoltre, avevamo rinunciato a Mykonos. Sara ci era rimasta male. Aveva organizzato la vacanza per mesi; a nulla serviva la promessa che ci avremmo riprovato l’anno successivo. Continua a leggere

Il problemino

scritto da Guendalina Bruni

Il giorno dei miei otto anni mia madre preparò una torta insieme alle altre detenute nel cucinotto di servizio. Non ci facevano entrare nessuno li dentro, eccetto quelle che organizzavano la cambusa per la mensa. Mamma convinse Pina a farglielo usare, le avrà detto che otto anni ce li ha avuti anche il suo di figlio, Pina avrà stretto le palpebre e le si sarà scaldato il cuore. Lì dentro ero un po’ il figlio di tutte, mi avevano visto nascere. Gli altri bambini dopo un po’ uscivano insieme alle madri o venivano dati in affido. Io no. Quella era casa mia; non avevo ancora trovato una famiglia che mi prendesse. Forse per via del problemino: sbandavo e sbattevo dappertutto, contro gli stipiti delle porte, gli spigoli dei mobili, contro ogni cosa mi si trovasse davanti; ero continuamente cosparso di lividi. Nelle giornate più sfortunate, oltre a sbattere, inciampavo nei piedi di tavoli e sedie, a volte finivo anche giù per le scale. All’inizio sembrava fosse un “banale problema alla vista”, così aveva detto il medico del penitenziario: «Tranquillo è normale se nasci qui dentro, un paio di occhiali e il problema è risolto». Continua a leggere

Sangue nero

scritto da Felicia Buonomo

«e nessuno ti vede,
e nessuno ti vuole
per quello che sei».

(Mimì sarà – Francesco De Gregori)

Percorro 23 chilometri per andare al lavoro, circa un’ora di strada, con traffico moderato. All’andata, mi fa compagnia una parvenza di serenità. La via del ritorno assomiglia, invece, a un guaito che si espande prepotente e irrimediabile nel circostante. Questa dualità emotiva mi accompagna da più di due anni.
Soffro la più nera delle solitudini interiori.
Nera come il sangue seccato del cagnolino che da tre giorni incontro all’imbocco della tangenziale. Si estende lungo tutto il perimetro del corpo, che se ne sta lì, rannicchiato, come se qualcuno – dopo averne provocato la morte – l’abbia messo comodo, in una posizione anche visibilmente piacevole per i passanti occasionali; come se questo servisse a evitare l’indifferenza che io per prima agguanto, trasformandola in scudo. Il sangue nero, la sua simbologia con la solitudine, tuttavia, ci accomuna.

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Prima di tutto

scritto da Marcello Luberti

Accadde prima che tutto si mettesse a correre e diventasse frastuono e insensatezza.
La crisi petrolifera aveva appiedato l’Italia da novembre. Nei giorni di festa non circolavano le macchine e Chieti sembrava desolata e fuori dal tempo. Per giunta, nevicava dal 23 dicembre.
Incaciava, come si dice da quelle parti.
Quel termine fu la conferma, sì, siamo ancora noi, la domanda che fece mia madre Antonietta sulla soglia di casa quella sera della prima neve.
Allora, Marce’, sta ‘ncacià, sta facendo sul serio? Continua a leggere

Discotechina cotechina

scritto da Pierfrancesco Trocchi

«Ma queste case sono in vendita?».
«Sì, bifamiliari a 130 mila euro l’una».
«Ah! Beh, niente male».
«Sì, ma sei a Palata Pepoli».
All’ultima risposta Luca resta a guardarmi con un sorriso sfranto, ha usufruito con nonchalance di cinque cicchetti, di cui gli ultimi due di whisky, il che ha avuto un effetto straniante su di lui perché non si ricordava che il nettare del nord lavora a rilascio controllato e appena ti siedi sfascia e turbina e immalinconisce. Andrea sta contemplando la campagna e mi chiede se quell’appezzamento di fronte casa sia mio, io rispondo di sì e che me ne faccio di poco, perché da questo luogo vorrei congedarmi e volare come un aliante senza rumore sfruttando le sacre correnti del tempo, eppure mi trovo sempre qui a scrivere di quanto vorrei andarmene. Ritorniamo sul discorso delle case e ci rendiamo conto che a Palata probabilmente non se le comprerà proprio nessuno, occorre un certo autolesionismo e soprattutto occorrono figli – si chiamano “bifamiliari” per un motivo -, così ci rendiamo conto che abbiamo tutti passato i trent’anni e che il problema di quest’Italia misera e sbruffona siamo noi tre senza nemmeno una donna cui prospettare il fascino di una vita insieme. Continua a leggere

Allerta meteo

scritto da Raffaele Calvanese

La sveglia di Ernesto suona alle 7, dopo meno di un minuto suonano anche le campane della chiesa dietro casa. In quei sessanta secondi Ernesto fissa il vuoto senza parlare, non si muove nemmeno, si alza solo quando hanno smesso di suonare le campane. Ogni volta la schiena gli fa male, lui se la massaggia col dorso della mano e va ad aprire la finestra.

Simona resta ancora a letto, ruba altri cinque minuti di sonno a una giornata senza scopo. Quando Ernesto apre la finestra la giornata è limpida, la luce entra prepotente nella stanza. Simona si copre gli occhi con la mano, dice a Ernesto che quella luce è strana, portavano maltempo. Ernesto va in cucina, accende la macchinetta del caffè, prende una tazzina, la posiziona sotto la bocchetta del caffè e preme un tasto. Mentre la tazzina si riempie lui conta fino a dieci facendo delle flessioni sulle gambe, ha le braccia tese in avanti. Simona è ancora a letto, aspetta di sentire il rumore del secondo caffè per alzarsi. Ernesto ci mette un cucchiaino di zucchero di canna, l’altra ha il caffè amaro. Continua a leggere

Agnus Dei

scritto da Sara Spanò

Non è uno solo.
Sono due, tre, cinque, dieci, che ronzano furiosamente e cozzano in maniera caotica contro la finestra di una casa al mare immersa in una pineta. Perché non l’hai aiutata? Perché non l’hai tirata su? Lo hai fatto apposta? Voci arrabbiate, che la rimproverano ovattate da un tempo forse vero, forse sognato, forse immaginato. Ecco, ora dovrai occuparti di lei, per sempre, anche se. Anche se.

La scelta di Agnese è stata quella di sparire, senza dire nulla a nessuno, tantomeno a lei. Morire al mondo per un po’. All’abbazia di Neustift c’è qualcosa che la attrae, una luce per un insetto notturno.
Il codice membranaceo Brixinensis 19, trovato in una cantina a Brixen nel 1977, contiene alcune omelie sul Vangelo di Matteo – relative ai passi sulla tentazione di Cristo nel deserto –, attribuite a Gregorio Magno, ma composte da un certo abate Pietro, vissuto nel XII secolo. Un clamoroso falso – mutilo, interrotto alla carta 80r – espunto dal corpus gregorianum.

Ma può succedere, una cosa così? Si può davvero espellere tutto? Continua a leggere

Sanguinamento

scritto da Deborah Guarnieri

Avevo quattordici anni e mi stavo lasciando morire di fame come penitenza per essermela menata sul divano di seta verde avocado dei miei genitori. [Il dottor Schrift] insisteva nel dire che la bara che sognavo sempre era mia madre. E come mai mi si erano fermate le mestruazioni? Mistero.
«Perché non voglio essere una donna. Perché mi si confondono troppo le idee. Perché Bernard Shaw dice che non si può essere donna e artista. Il fatto di aver figli esaurisce completamente, dice. E io voglio essere un’artista. È quello che ho sempre voluto.»
Perché non avrei saputo come dirlo allora, ma il dito di Steve nella figa mi dava una sensazione meravigliosa. E al tempo stesso sapevo che quella sensazione languida, dolce, era il nemico. (…)

Mi guardo nello specchio e le mie tette sono diverse. Sono nel bagno di un’anziana signora di Tangeri, capelli nascosti sotto il velo madreperla, quando me ne accorgo. Io sono nuda dopo la doccia, piedi bagnati sulle piastrelle, lancio uno sguardo al riflesso prima di avvolgermi in un asciugamano bianco e le mie tette sono diverse. Sono gonfie, soprattutto sotto, un cuscinetto morbido che spinge il capezzolo all’insù. Le mie prime scopate erano con la maglietta; i miei primi reggiseni, push-up. Esco dal bagno fiera.
«Mi sono cresciute le tette.»
«Sono stato io.» Continua a leggere