Marella

scritto da Silvia Penso

Attraversavamo scheggianti il sottopassaggio e il rumore del treno che sferragliava sopra i corpi sincopati, di corse e pedali, esplodeva nelle orecchie, quasi fosse lì, nelle nostre cavità, nelle pieghe dei canali uditivi, ululante di stridii meccanici dentro la testa. Le due bici, la mia, la sua, sfrecciavano ondulando oscillatorie contro ogni legge di gravità, contro la curva a gomito del sottopasso, presagendo talvolta una caduta che non avveniva. Forse, sarei potuto andare più veloce, passare avanti, fare quello più bravo. Ero tentato, ma mi piaceva sbirciarla sulla Graziella sbilenca in corsa, con i capelli al vento, Marella, con la maglietta con su scritto in vellutino rosso Marella. Disordinata, lentigginosa, occhi blu, si muoveva sempre veloce, scattosa. Parlava come una macchinetta. Era in perenne mobilità dinoccolata. Era la mia amica, eravamo inseparabili.
Era al bagno 39 che eravamo diretti con le bici, ogni giorno d’estate. Ci sentivamo sfrontati e liberi, e il futuro era pieno di promesse, come il mese di luglio, che non è maggio, quando tutto deve ancora delinearsi, e non è agosto, che è una fine. Una volta arrivati, i piedi nudi, le ciabatte in mano, buttavamo le bici sul marciapiede sterrato, correvamo con ginocchia alate lungo la linea mattonata, per fiondarci, conquistata la riva, nelle onde, catapultandoci, in perenne battaglia di braccia, dagli scogli che a Misano Adriatico se la filavano in verticale, sospesi sul mare, come linee di fuga ai lati della spiaggia infinita. Saltavamo, all’ultimo appacificati, mano nella mano, mentre intorno i ragazzi più grandi pescavano i baganelli. La trascorrevamo così, ogni calda stagione, da sempre, io, lei, e pochi altri satelliti amici. Il fulcro era lei. Il fulcro ero io. D’inverno ci riconsegnavano alla città bigia, ognuno la propria, agli antipodi dell’Italietta craxiana.
Avevamo giocato ai genitori, a spingere la carrozzina col bambolotto nero, che lei aveva preteso strillando davanti alla vetrina; Marella non lo voleva un figlio convenzionale, lei aveva un figlio nero senza nome e uno indiano che si chiamava Winnetou. Dal bar dello stabilimento contavamo le barche scommettendo ghiaccioli e ci accapigliavamo le duecento lire per giocare e vincere le biglie alla macchinetta infernale, con il manubrio che era sempre storto, almanaccando una cingomma per uno, tonda come le biglie, tripudio di colori e mal di pancia silenziosi.
E la guardavo già allora, Marella, come la cosa preziosa che era, che sarebbe stata, leccare con gusto bambino il quotidiano ghiacciolo all’amarena, con la lingua che a poco a poco s’imporporava dello stesso colore amaranto. Gli occhi socchiusi, felici, sognanti, con spade di luce tra l’ombra che nettavano il viso di sole. Dodici anni lei, quattordici anni io. A volte incontrava il mio sguardo e regalava, dalle labbra già disegnate e piene, a me intontito di lei, un sorriso, un sorriso che fondendosi con una luminosità dello sguardo era dolce, come non sempre era lei. L’avevo baciata poi l’anno dopo, trovando un coraggio insperato di superare quella soglia, il confine che separa l’affetto dall’eros. Quando ci eravamo staccati, mi aveva detto che ero stato il primo, ma che avrei potuto scegliere un posto migliore, e volgendomi con lo sguardo un’intesa, che lì per lì non avevo compreso, aveva indicato una cacca di cane vicino ai nostri piedi, scoppiando a ridere luminosa, la testa gettata indietro, con la capacità dell’iride di irradiare aquiloni di luce da chissà quale astro interiore. Ma chi l’aveva vista la cacca, pensavo io, mentre avevo ancora voglia di lei, della saliva, del gusto passivo di amarena dell’ultimo ghiacciolo, cercando intanto di nascondere un desiderio assoluto che rigonfiava i pantaloni e cercandole di nuovo le labbra, morbide, piccole, come un cuore, come il mio cuore che si stringeva. Come ogni settembre. D’inverno non scriveva mai e ogni anno era più bella.

Ripensavo a tutto quello, a tutta la vita scivolata via, ai gelati, alle briosche calde dell’alba, al bagno 39, alle sue labbra di violaciocca, alla maglietta con su scritto Marella in vellutino rosso, mentre scendevo le scale del monolocale che era stato il suo. Erano passati vent’anni. Fuori diluviava, e Bologna era pioggia serrata che scosciava dai tetti e dai campanili per cadere nei tombini della morte anche lei. Pioveva, ma non come quella volta in cui il temporale ci aveva sorpresi sulla spiaggia. Scuro, improvviso, il cielo poco prima solo butterato di cimbri s’era fatto liquida pece. E siluri di acquatiche spine si erano scagliati violenti pugnalando la sabbia, che dorata diveniva ad un tratto crosta bagnata. Marella aveva alzato la faccia al cielo inclemente e amato la pioggia. L’avevo guardata, adorata, col viso in su a ricevere le gocce, e chiamata, «Marella non fare la scema, vieni sotto la pensilina, i fulmini». Solo dopo mi aveva raggiunto, quando, bastandosi al mondo, s’era ritenuta soddisfatta delle staffilate sul volto. Tremava. Eravamo piccoli davanti a una forza che sembrava aver a che fare con Dio, e nel fischio acuto, sibilato del vento, nello sferzare fortissimo della pioggia, lungo la riva avevamo visto volare rotolando, in fila o in coppia, uno dietro l’altro, vorticando velocissimi, correre di lena verso un appuntamento improrogabile che solo loro sapevano, tutti quei gonfiabili che i genitori avevano abbandonato fuggendo sotto gli ombrelloni in pericolo. In mezzo all’apocalisse roteavano ciambelloni, unicorni, fenicotteri, coccodrilli, wurstel, cigni, hamburger con ketchup, avvolgendosi su loro stessi, felici ed ebbri, in onirico assetto. Alla fine della fila lei aveva detto d’aver visto anche quel solitario Hare Krishna, che spesso avevamo notato meditare solo, unico appartenente del lido alla categoria, sopra gli scogli sfuggenti verso un punto di fuga che non fuggiva, ahimè, da nessuna parte, e diceva d’averlo guardato accodarsi al disastro di gomma e di forme e colori e suonare il tamburello ripetendo ancora quel mantra hare kṛṣṇa hare kṛṣṇa. Poi, Marella, nell’umano silenzio che lasciava spazio solo al delirio del cielo, aveva aggiunto sotto voce, per non disturbare il divino, che le era sembrata anche una parabola umana, quell’accavallarsi di corpi, seppure non vivi, quella ignara fragilità che ruzzolava in mezzo alla furia del tempo, surreale e giocosa, verso una fatalità che nel caso specifico sarebbe stato l’accumularsi verso il promontorio di Gabicce, tutti insieme, forme e colori, verso un felliniano destino, ossia le rocce che lì li avrebbe bloccati, come esseri non finiti, sognanti. Qualcuno, libero, nell’aria, avrebbe potuto sfuggire, prendere la via sconosciuta del mare in tempesta, frustrato dalle onde ingrassate.
«Entra» aveva infine detto guardandomi, nient’altro, indicando la cabina. Le sue labbra sapevano ancora di amarena ma sapevano anche bene cosa fare e dove farlo e c’eravamo amati in piedi, di corsa, con una fretta che sembrava desiderio e forse lo era, che non fingeva amore, ma forse lo era. La pelle sapeva di sale, e i capelli di lei del sudore microscopico che stanziava sotto la nuca.
Era stata felice? L’avevo già notati la magrezza e gli occhi di ferro, la pupilla che sembrava risucchiare lo spazio che era stato dell’iride?

I buchi, io l’avevo visti? Avevano chiesto dopo gli amici.
Erano arrivati tutti e la giornata appariva ancora più bigia, ci sembrava dovesse spuntare anche lei da un momento all’altro, come faceva di solito, all’ultimo, sempre in ritardo, trafelata, ammanettata nel nostro ricordo, per sempre, alla maglietta Marella in vellutino rosso, al manubrio della bici, al caldo del pomeriggio, al rumore delle cicale quando ci incontravamo sotto le palazzine durante la siesta dei genitori. Ma stavolta sapevamo tutti che non sarebbe venuta, che la Graziella era abbandonata nella cantina della casa chiusa aspettando una lei che non era più, che mai più sarebbe stata.
Il prete aveva intimato il gesto della croce. Lo odiava lei. Se sapesse. Ma magra era ora dentro quel legno, accanto a un altare in cui non aveva mai creduto, che non l’aveva consolata, sollevata dalla sua esistenza friabile, dall’inconsistenza degli altri. Nuvole nere stazionavano sopra le teste dei convenevoli, delle condoglianze obbligatorie. Lei che diceva solo la verità, che non sapeva il male, che era tutta tendini, pensiero, slancio. Lei, l’avevamo abbandonata anche noi nella fragilità che l’avvolgeva come un burnus.
In macchina, dopo, da solo, riascoltavo le canzoni con la testa, quelle del walkman condiviso, litigato, grigio come la Graziella da uomo, come le sue ciabatte da mare, come la luna quella notte dell’eclisse, quando le avevo detto ti amo e lei aveva riso, per poi allontanarsi nel buio, da me, dal mio corpo in attesa di lei, dinoccolata come il gatto che era, dicendo «Ti sto facendo un favore». Di schiena, passo dopo passo, ogni passo un deraglio di mitra. Forse sapevo che non l’avrei più rivista. Nella mia testa ha ancora dodici anni, succhia senza malizia un ghiacciolo all’amarena, canta Self control, mi sorride dolce, attraverso le labbra viola.

Il cacciatore Popotin

scritto da Stefano Marinucci

Il cacciatore Ernesto Popotin è pronto. Il bazooka l’ha piazzato sul colle che sovrasta il camposanto del paese, circondato da fittissimi cespugli infestanti cresciuti senza ordine sulle tombe. È stato anni ad aspettarla, a studiarne le mosse, i percorsi, le mimetizzazioni nella terra e sotto al sole. Finalmente è arrivato il suo momento. Potrà dire ai compagni di classe e ai professori, quando stasera tornerà dopo la battuta di caccia, che il suo metodo innovativo funziona davvero, mostrerà la testa dell’animale ai parenti, la farà imbalsamare come ricordo di questa memorabile battaglia.
La vede uscire da una tana stretta, nascosta vicino a una lapide in terracotta, senza fiori né fotografie. Sono a dieci metri, l’uno dall’altra. Continua a leggere

Mal dei giardini

scritto da Paola Marcolini

Premessa della notte tra il venerdì e il sabato

Nella notte, due uccelli cantano poggiati su un ramo di castagno, e due bambini stanno stesi alle sue radici, morti, anche se ancora non lo sa nessuno. Il fiume scorre accanto loro. L’assassino corre lungo l’autostrada. I corpi dei due bambini distano poco dalla casa dell’anziana. Lei dorme mentre gli uccelli cantano.
In un altro nido, su un faggio del bosco che cinge la cittadina, un altro omicidio, di diversa natura, viene consumato. Due dei tre pulcini che abitano il nido vengono portati via dalla faina. La faina scappa tenendoli stretti in bocca. Finalmente qualcosa da mangiare dopo il lungo inverno. Il terzo pulcino cade dal nido, e questa è la sua storia. La storia di un complemento di modo o mezzo, che lega soggetti e verbi con altri soggetti e verbi.

Sabato

Ore 6.
Nella mattina appena nata, l’anziana appoggia alcune briciole sul davanzale.
Il pane che compra è impastato da un ragazzo cresciuto nel deserto.
Nella mattina appena nata, il ragazzo cresciuto nel deserto si sveglia di soprassalto: ha sognato i propri fratelli. Beve il tè, prepara lo zaino e si incammina verso il sentiero di montagna che inizia poco lontano da casa sua. Continua a leggere

Lontano da casa

scritto da Margherita Maggi

“When the jaintor returned with the two other man, the whale was no longer there. Neither was the small boy. But the seaweed smell and the splashed, brakish water were there still, and in the pool were several brownish streamers of seaweed, floating aimlessy in the chlorinated water, far from home”
Walter Tevis – Far from home

Mentre si accorgeva di sognare il sonno si era sfilacciato e si era dissolto.
Si era svegliato sommerso dallo stesso chiarore lattiginoso che aveva cercato di arginare prima di addormentarsi: il vento aveva aperto la finestra e tirato via il telo che aveva incastrato intorno all’infisso, come tenda di fortuna, per trovare almeno il sollievo della penombra. La sveglia accanto al letto segnava le tre e dieci del mattino: l’allarme doveva essersi inceppato, o forse aveva funzionato, ma era così stanco che non lo aveva sentito.
Già un istante prima che l’immagine compatta della sua stanza di bambino perdesse consistenza, si era chiesto come potesse essere di nuovo in quella casa. Poi, mentre la luce gli apriva gli occhi, aveva creduto di essere ancora sulla nave. Alla fine aveva ricordato che era nella baia, da tre giorni, anche se in fondo non faceva nessuna differenza: sulla terra ferma o in mezzo all’oceano, era comunque lo stesso identico giorno artico, la stessa notte senza notte che si ripeteva ormai da un mese.
Si era alzato e aveva iniziato a vestirsi in fretta. Portava ancora addosso la felpa che aveva usato nell’ultimo turno, ne aveva cercata una pulita rovistando nello scaffale che avevano trasformato in armadio. Marta doveva avere fatto la stessa cosa prima di uscire, perché c’erano vestiti sparpagliati ovunque nella stanza, sprazzi di colore che galleggiavano nel bianco della luce e il bianco delle pareti, dei pochi mobili, delle assi di legno del pavimento e del soffitto: ogni cosa era bianca dentro quella specie di cottage dove li avevano sistemati. Continua a leggere

Il tempo insieme

scritto da Umberto Morello

Beati i poveri di spirito. Pagheranno meno tasse sulla propria anima.
Imposte, albe, emozioni, bollette, e aspirazioni. Io sto nel mezzo: le rateizzo. Ma anche fatto come sono, che farci se stamattina, arrotolato in macchina, con il maglione sotto al culo e un cuscino improvvisato dietro la cervicale, l’unica cosa che mi manca è lui?
La pianto con gli eccessi. È che tira vento nella Panda da quando non c’è più. Mi restano solo le mie nuove libertà, come quella di non impazzire per le briciole, gli affettati, le patatine frantumate o gli stralci di formaggio sparsi tra i sedili; tutta roba che in teoria lo avvelenava, e in pratica era la sua festa.
Basta pensarci. Incastro la chiave e la metto bene obliqua. Tento giusto un paio di volte, poi la macchina mi asseconda. Fa sempre così. Il motore grida trafitto il solito lamento. Allento il pedale e recupero la frizione.
«Andiamo indietro, okay?» Continua a leggere

Il senso della fine

scritto da Marianna Crasto

Quello che segue è il primo capitolo di Il senso della fine, il romanzo scritto dalla nostra Marianna Crasto in uscita per effequ (e già finalista al Premio Calvino 2022). Ringraziamo di cuore l’editore per la gentilezza e la possibilità di pubblicare il capitolo in anteprima.

* * *

Non appena ebbi cinque minuti per pensare alla fine del mondo, schiacciai muto sul telecomando e mi stesi sul pavimento. Quello che vidi: polvere a perdita d’occhio in morbide pianure di velluto e batuffoli grigi negli angoli.
Mi ero appena innamorata e pensai moriremo quindi, una constatazione che non mi turbò in sé, a eccezione della nostalgia per il nuovissimo amato che avrei perso presto. Pensai anche che pavimento sporco.
Sentivo trambusto al piano di sopra e voci per le scale trattenute sul pianerottolo dal tufo freddo e spesso dell’edificio. Ebbi paura di uscire e non uscii.
Poi scoprii invece che erano usciti quasi tutti, nelle ore successive vennero fuori dai salotti, giù per le scale e negli ascensori, oltre i portoni; si incontravano agli angoli delle strade tra sconosciuti ma come a un appuntamento. Continua a leggere

Chiedere cerotti ai turisti

scritto da Barbara Antonelli

La prima volta l’avevo baciata alla festa di Gaia. La conoscevo da poco Lisa, da quando seguivamo insieme il corso di Storia dell’Arte. Un’ora pallosissima di slide sui realisti francesi che, voglio dire, a parte L’origine del mondo, nulla da segnalare.
Alla festa, Lisa mi era quasi saltata addosso. All’inizio aveva cercato la mia mano. Che io, a furia di tener le mani a posto, le ragazze dovevano venire a stanarle da dentro le tasche.
Comunque, quella sera ero lì per Gaia, che le sbavavo dietro dall’inizio delle lezioni, che pure lei seguiva i realisti francesi con entusiasmo, mentre io nel buio dell’aula provavo a ridisegnare il suo profilo sul taccuino. E Gaia seduta accanto a me, perché il minimo che potevo fare era tenerle il posto, rideva divertita dei miei scarabocchi e alla fine dell’ora mi passava gli appunti come un’elemosina.
Insomma, ero convinto di essere trasparente. Senonché alla festa, mentre stavo seduto a fumare sulla soglia della finestra che dava sul campiello, Lisa si era fatta stretta stretta per condividere la stessa soglia e infilarmi la mano nella tasca del giacchetto. Perché io, manco me l’ero tolto il giacchetto, sembrava che stavo all’asilo ad aspettare l’ora che tornava la mamma.
Con la mano di Lisa che mi frugava nella tasca, le avevo chiesto se voleva una sigaretta, ma lei no, non era quello che voleva.
Fuori c’era un’aria accartocciata, il buio si era annidato tra le lastre del selciato, tanto erano lucide di china. I muri delle case sudavano sotto la luce del lampione sospeso, mentre il campiello disegnava un quadrato esatto dai contorni sfrangiati, su cui scivolavano le mie incertezze. Gli scuri delle finestre erano chiusi, nessuno sembrava curarsi dei nostri schiamazzi oppure se ne erano andati tutti.
Però io mi sentivo gli occhi addosso, qualcuno che spiava la festa da un sottotetto e che non ci avrebbe perdonato quel casino. Qualcuno che avrebbe chiamato la polizia perché non si poteva dormire, che le casse dello stereo facevano tremare i vetri e i ragazzi della festa erano ubriachi e forse si stavano drogando. O perché c’era un tizio alla finestra che fumava qualcosa di sospetto mentre una ragazza sballata gli sfruculiava sotto i vestiti.
Gli amici di Gaia stavano tutti sdraiati a terra, stravaccati sui cuscini. Urlavano, alzando la voce sopra il volume della musica e si passavano la bottiglia. Erano passati dagli stuzzichini al giro di malvasia e avevano accompagnato la torta con diversi tipi di vodka. Gaia aveva proposto un brindisi agli innamorati e aveva detto Ma come siete carini voi due e io mi ero sentito un po’ verme, ma avevo la testa di Lisa affondata sulla spalla e lei sempre più aggrappata al braccio.
Lisa sapeva di alcol, ma l’immagine che il mio cervello proiettava in quel momento era L’origine del mondo.
Così abbiamo lasciato la festa e siamo scesi nella corte. Ci siamo baciati davanti al pozzo e le mie mani non avevano pace per la gioia di essere uscite dalle tasche e di tastare qualcosa di diverso dagli orli sudici del mio giacchetto. Tremavo, Lisa mi aveva trascinato al centro del campiello, ma io volevo stare sul perimetro, scomparire nel vano di un portone. Dopo pochi secondi di dita intrecciate e lembi di maglione scostati, il volume dello stereo non lo sentivo più e nemmeno il fastidio di avere addosso gli occhi di un pubblico ammutolito. Lisa aveva un modo straziante di toccarmi, le sue dita mi sfregavano la pelle senza graffiare, come per sentire la materia di cui ero fatto, come per smontare un pezzo di me senza farmi male.
Però a un certo punto mi pareva di sollevare l’onda e avevo rallentato, perché è vero che ci sono delle regole in laguna, ci sono canali in cui devi tenere la dritta e altri in cui tenere la sinistra, solo che io non sapevo leggere le briccole e non mi andava di rischiare.
Così le avevo dato appuntamento per il giorno dopo.
All’ora stabilita ci vediamo in un posticino verso le Zattere che mi ha consigliato il mio coinquilino.
Il bar è strapieno di studenti che hanno deciso di anticipare l’happy hour al mercoledì, per cui ci sediamo ai tavolini fuori. L’idea è abbastanza infelice, siamo due reietti che ordinano con disinvoltura una tazza di tè per prevenire il congelamento. Senza mostrare sintomi di sofferenza, Lisa si scalda subito e inizia a raccontare di quando è stata scaricata dal suo ex, ignorando quello che mi passa per la testa. Dalla parete della bottega una bauta mi fissa, due fosse vuote e un becco sporgente, uno spettro opaco in mezzo a maschere fatte di riccioli, volute e patine rosse e dorate.
Tolgo la bustina di tè e interrogo il riflesso dentro la tazza. Lei dice Andrea, Andrea e io cerco le risposte in quell’attesa.
Mi chiede se c’è una cosa di me, un segreto di cui mi vergogno che potrei raccontare solo a uno sconosciuto. Io le dico una cosa così per ridere, di quando ero bambino e la suora superiora mi aveva dato uno schiaffo perché avevo bestemmiato la Madonna durante la ricreazione.
Era successo nei corridoi e tutti i compagni si erano voltati a guardare e io mi ero nascosto in bagno, per tornare in classe solo alla fine della ricreazione. Quella cosa lì era un segreto, sì, perché mi avrebbero preso in giro, sapendo che continuava a farmi star male. Lei mi chiede se mi capita spesso di stare male per colpa degli altri. Io confesso. Lisa, Lisa, sono una spugna, sono sopravvissuto all’infanzia. Ma mentre pronuncio il suo nome, penso a Gaia.
Lisa sfoglia il mio taccuino. Mi chiede il perché dei corpi, delle figure contorte che disegno con la pancia gonfia e la schiena inarcata all’indietro. Sono uomini incompleti, le spiego, che attendono di diventare altro.
Al ritorno la strada si disfa sotto i nostri piedi e arrivati al ponte mi invento una scusa, di quelle che mandano su il tanfo del fallimento. Dico che ho fatto tardi e devo fare un salto in facoltà.
C’è qualcosa che non funziona, le spiego. Mammamia che roba codarda per iniziare un discorso. La colpa è mia, dico.
Lisa fa una faccia strana, ritira le mani, non sa dove metterle e inizia a frugare dentro lo zaino. Tiro fuori un discorso già sentito e lei tira fuori gli occhiali da sole, anche se il sole è sparito e goccioline di condensa le si appiccicano ai capelli.
Che mi dispiace non essere stato sincero, ma non me la sentivo di ingannarla ancora, perché in realtà ero innamorato di un’altra. Tutto puzza di lista dei consigli dell’amico per scaricare una ragazza.
Allora lei dice ok, mi volta le spalle e la guardo, un busto con le braccia troncate che si allontana lungo il canale. Sotto il ponte passa una barca che rallenta, il conducente suona per iniziare la virata e con tre manovre imbocca la curva a gomito. Espando il torace e respiro la nafta come una lunga e meritata punizione.
Se penso alle quattro cose che ci siamo detti, quattro premesse infilzate lì nel piattino con le fettine di limone, io che ascolto i Depeche e mi ostino a disegnare manichini mutilati, perché ne voglio cavare delle sculture. Lisa che non le piacciono i Depeche e che i disegni li fa solo quando si avvicina la revisione, altrimenti no, nemmeno disegnare le piace. Credo che non potremmo essere più diversi e questo è l’ennesimo cerotto per la sopravvivenza.
Ritorno a lezione, tengo il posto a Gaia, che mi chiede com’è andata. Lascia perdere com’è andata, ti devo parlare, dico. Adesso sullo schermo non scorrono più immagini di donne con fianchi morbidi, seni appuntiti e capelli sciolti. Adesso sfilano dame sulle rive della Senna in guanti e cappellino e nemmeno un lembo di pelle scoperta. Lisa ha il corpo scorticato, la pelle mi è rimasta attaccata ai polpastrelli, li strofino piano per non lasciarla partire.
Sono Manet al Salone dei rifiutati che espone quadri di corpi antichi in pose moderne, ma il pubblico lo deride.
Lisa arriva in ritardo, finge di non vedermi e va in fondo all’aula, due chilometri dietro di me. Pensavo non sarebbe venuta, lei forse pensava lo stesso di me.
Spiego a Gaia che Lisa è stato uno sbaglio – ancora scuse.
Gaia mi propone di preparare l’esame di Progettazione insieme. Dice che ho una buona mano. Anche se proprio non capisce perché le faccio ritratti senza capelli, senza braccia, senza ali. Manca sempre un pezzo di Gaia nella mia arte.
Per prepararci alla sessione d’esame, trascorriamo giorni infiniti a casa sua, con i fogli allargati sul tavolo e sdraiati sul pavimento ad assemblare alberelli di spugna e incidere finestrelle nel cartone sandwich. Mangiamo quando ci va e se ci va, camminiamo scalzi, ascoltiamo le canzoni che piacciono a lei. Gaia è solida, ripulisce ossessivamente le tavole dalle linee di costruzione e dalle sbavature di matita. Dice che quando saremo laureati andremo a vivere in campagna, sistemeremo il vecchio rudere dei nonni e io avrò una stanza per le mie sculture. Sarà bello far crescere i bambini, che potranno giocare all’aperto e che avremmo avuto anche dei cani. Anche se a me i cani non piacciono.
Ogni volta che scendo da casa di Gaia, mi sento addosso le mani di Lisa e allora le cerco nelle tasche. Quando mi succede, vado in sala studio e prendo una postazione di fronte alla sua. Lisa di solito si avvicina con una scusa. Lo sai che vado dallo strizzacervelli?
Allo strizzacervelli ha raccontato dei miei disegni. Secondo Lisa le mie figure con tutte quelle costole pronunciate, hanno delle cicatrici profonde e degli arti invisibili che poi da qualche parte devono proseguire. Che uno si domanda che gamba manca, che piede manca. Dev’essere molto importante, se non c’è.
Lisa mi fa un effetto strano, come di un frutto esotico. Ne assaggi un pezzetto e cerchi di capire se è aspro o dolce e provi a indovinare di cosa sa. E alla fine decidi che non hai mai assaggiato un frutto che non somiglia a nessun altro e forse ti piace la novità.
Mi piacciono i gusti incerti, il più delle volte troppa chiarezza mi mette a disagio. Gaia ha calcolato che entro la sessione estiva deve aver dato almeno tre esami, per rimettersi in pari. Per riuscirci studia un’ora ogni mattina prima di andare a lezione.
Il giorno prima dell’esame di Progettazione ci ritroviamo immersi in un caos dentro cui Gaia annaspa. Le dico di non preoccuparsi, che lavoreremo tutta la notte e arriveremo in facoltà con le tavole pronte e il plastico completo.
Le dico che non servirà il pigiama, non ci sarà il tempo di dormire. Invece poco prima dell’alba, dopo aver sciacquato la colla dalle mani e in attesa che il plastico si asciughi, finiamo a letto. Gaia punta la sveglia, è inquieta e io mi sento abbandonato.
In facoltà il professore è in ritardo e i candidati sono tutti nervosi. Esco a fumare, le dico e mi infilo il giacchetto. La porta di sicurezza è spalancata verso il cortile di ingresso, siamo in tanti a fumare, tutti appiccicati al muro dove batte il sole.
Se il professore arriva lo vediamo, deve entrare da qui. Una ragazza indica all’amica la porta di accesso alla succursale. L’amica si mette a saltare sul posto per l’agitazione o per scaldarsi. Al posto del professore vedo arrivare Lisa con la cartellina da disegno.
Dice che no, non si è iscritta all’esame, è passata a vedere cosa chiede il prof. Le offro una sigaretta, questa volta la prende. Mi dimentico dell’esame e non vedo il professore entrare. Lisa dice Andrea, Andrea. Io le chiedo se è felice. Lei mi parla del viaggio che vuole fare l’estate prossima, vuole andare a nord, senza meta, non ha prenotato né i posti per dormire, né i biglietti dei treni. Vuole viaggiare zaino in spalla e sacco a pelo. È bello poter andare ovunque senza averlo previsto, sapere che un viaggio può proseguire fino a quando ne hai voglia.
Le mostro il ritratto che ho fatto di lei. Perché ho un ombelico così grande, chiede. Non si accorge di quello che manca, le gambe, le braccia, i capelli.
Gaia esce dall’aula e inizia a gridare, che cazzo fai. Un solco profondo le si forma tra le sopracciglia, le parole le escono gracchiate dalla gola. Lisa stringe al petto il mio taccuino sopra il maglione che aveva alla festa.
Sbrigati, il professore ha già iniziato, dopo tocca a noi. Gaia si avvicina, strappa il taccuino dalle mani di Lisa e mi dà uno schiaffo. Hai una bella faccia tosta a mostrarle i miei ritratti, dice. Lisa fa un passo indietro. Divento viola, tutti mi guardano, qualcuno ride e io sono incapace di reagire.
Gaia scompare nell’aula, io tengo la mano sulla guancia, più per l’imbarazzo che per il dolore. Lisa ha esaurito le parole. Ho combinato un grosso casino e scappo. Tra tutte le decisioni che potevo prendere, scelgo la peggiore. Lisa mi segue, allungo il passo e tento di distaccarla. Non sono certo di voler stare da solo, non sono certo di volere indietro il taccuino.
Vado verso le Zattere, faccio quasi metà fondamenta senza rendermene conto, procedo a testa bassa, il sole mi acceca e ho tutte le ferite esposte.
Quando l’onda sollevata dalle barche si placa appiattendosi verso la banchina, mi calmo anch’io e mi ricordo del bar. Chiedo indicazioni a due turisti, scambiandoli per gente del posto e ci impiego un po’ a ritrovare il locale. Mi siedo al tavolino fuori ma anche il sole oggi sta dalla parte sbagliata. Giro la sedia di spalle e la bauta alla parete smette di fissarmi. Ordino due tazze di tè e il cameriere chiede se sto aspettando qualcuno.
Sì, dico, lei sta tornando.

L’incrocio

scritto da Davide Borgna

«Lui ne ha sentite tante. Non farci caso se ti sembra distratto».
Comincia così, con Andrea che mi parla dopo una cena al Covo, l’enoteca con cucina a due passi da casa. Stiamo bevendo l’amaro. Andrea mi parla a voce bassa. Fa così quando è serio, si irrigidisce tutto e ti guarda quasi in cagnesco.
«Bella cazzata», dico.
«No!» Ingolla il braulio e sbatte il bicchiere. «Ho provato. C’era».
«Ma dài».
Andrea è un tipo quadrato. Uno che schiaccia le fantasie come si spiaccicano le zanzare d’estate. Eppure, Andrea punta il dito e fa: «Vacci».
Non riesco a capire se ha bevuto troppo o se mi sta prendendo in giro.
«Sì, vabbe’». Faccio oscillare il mio amaro del capo, ne osservo i riflessi ramati. «Dove hai detto che sta?»
Andrea si china verso di me, abbassa ancora di più la voce e comincia a spiegarmi dove posso incontrare il Diavolo. Continua a leggere

Soriano

scritto da Carmine Bussone

Prima o poi ti capita. Anche se guardi nei posti dove mai penseresti di vederlo, alla fine il pezzo, l’editoriale, il racconto sul calcio te lo trovi sempre. E io provo una grande invidia per coloro che sono capaci di scriverne. Il campione che viene dalla povertà, il genio che si distrugge con droga e donne, il terzino che fa la sua dignitosa carriera in una grande squadra e poi si dedica alla famiglia, sono tutte cose delle quali non riuscirei a parlare con passione e a illuminare nella maniera giusta.
Dovrei premettere che nella mia vita il calcio non ha mai occupato una posizione di rilievo. Dovrei premettere che non ha mai occupato una posizione e basta.
Il calcio, come tanti altri sport ma forse un po’ di più, è una cosa che o hai la giusta scintilla o è meglio che non ti ci accosti proprio. Quel tipo di attaccamento, quelle cose che solo qualcuno appassionato può comprendere, conferisce l’autorità necessaria a raccontarne, altrimenti qualunque cosa potrai dire o scrivere saranno parole l’una di fianco all’altra. Continua a leggere

Tempesta

scritto da Ilaria Vajngerl

Una cosa che mi ha colpito da bambina è il racconto della defenestrazione di Praga.
La maestra ce ne aveva parlato un giorno che pioveva a dirotto. Era l’ultima ora e avevamo passato tutta la mattina in aula. Giovannino non ce la faceva più a stare seduto, così si era alzato senza chiedere il permesso ed era andato al cestino a temperare la matita. Ormai era grande quanto un mozzicone di sigaretta e aveva una punta aguzza, come certi aghi con cui mi pungeva il dottore quando la mamma mi portava a fare i controlli.
Fate silenzio, diceva la maestra.
Giovannino tornava al posto, cercava di conficcare nel foglio un paio di linee storte, così la mina si spezzava di nuovo.
Non riuscivo a smettere di guardarlo. Si muoveva talmente tanto che avrei voluto inchiodarlo al banco, ma la maestra mi leggeva i pensieri così abbassavo la testa e cercavo di starmene buona. Giovannino faceva certi rumori con la bocca che pareva un insetto, a me tutti gli insetti fanno schifo, specie le cavallette marroni che entravano qualche volta in classe e ci toccava chiamare il bidello per farle uscire.
Giovannino era peggio delle cavallette, perché era più grosso e non potevo schiacciarlo. Avevo cominciato a dondolarmi e a cantare una canzone per non sentirlo, lui aveva preso la matita e mi aveva infilzato il fianco.
Smettetela subito! Basta, Maria, state buoni! La maestra aveva alzato la voce, ma ormai avevo in bocca il braccio di Giovannino e l’avevo morso più forte che potevo. I nostri compagni ridevano, mi pareva di essere in una grotta perché rimbombava tutto e non capivo niente. Improvvisamente però avevo sentito un dolore fulminarmi la testa: avevo dovuto mollare la presa andandoci dietro per farlo finire. La maestra ci aveva trascinato per un orecchio vicino alla finestra e aveva detto, se non la smettete subito passerà alla storia un’altra defenestrazione!
La classe era ammutolita all’improvviso, perché nessuno sapeva cosa fosse una defenestrazione, ma sembrava qualcosa di solenne e terribile e infatti lo era.
Io e Giovannino avevamo dovuto spostare i nostri banchi a lato della cattedra, intanto la maestra si era avvicinata alla cartina e aveva indicato un puntino rosso con la canna di bambù, leggi Maria Teresa, cosa c’è scritto qui sopra?
Io non ci vedevo bene – mi vergognavo – ma la maestra voleva che facessi le cose che fanno gli altri, perché prima si smette di avere paura meglio si sta.
Mi ero sistemata gli occhiali; Praga, avevo letto.
La maestra ci aveva spiegato qualcosa di difficile, su un posto che si chiama Boemia dove oggi si comprano i bicchieri di cristallo.
Mia mamma teneva i bicchieri buoni in alto, li tirava fuori soltanto con gli ospiti o con la nonna Gianna, per fare la gran signora. Papà invece raccoglieva un raggio di sole col bicchiere più cesellato, vieni a vedere Maria Teresa! mi chiamava. La luce si rompeva e la stanza brillava con tutti i colori dell’arcobaleno.
Nella chiesa di San Gaetano le vetrate erano l’unica cosa allegra che mi piaceva guardare quando andavo a confessarmi. La zia Adele quel giorno era venuta a prendermi a scuola con l’ombrello e le avevo spiegato che a Praga dei signori che protestavano si erano arrabbiati così tanto contro quelli come noi- che dicono il rosario e pregano Gesù- da scaraventarli giù dalla finestra di un palazzo.
La zia mi aveva guardato aggrottando la fronte, capitava sempre quando dicevo stupidaggini o quando sbriciolavo i biscotti sul divano.
Maria Teresa, aveva detto, dopo andiamo a trovare don Giulio ché queste storie che ti frullanono in testa mi sembrano un pochino strane.
Io e Giovannino eravamo sempre stati strani, oppure indietro, oppure poveretti. Solo la maestra usava il nostro nome, la mia mamma mi chiamava piccina anche se ero la maggiore e i miei fratelli ancora non sapevano allacciarsi le scarpe.
Zia Adele non aveva bambini, solo un marito simpatico che coltivava i salami nell’orto. Tutte le volte che toglievo i grani di pepe dalle fette dentro il panino, lo zio mi pregava di non buttarli, perché piantandoli nella striscia di terra vicino ai pomodori, sarebbero cresciute delle piante che avrebbero odorato di carne e in ottobre avremmo raccolto cavolfiori e salumi. La zia Adele mi cucinava il pranzo tutti i giorni tranne il fine settimana, sicché dovevo andarle sempre dietro e ubbidire.
Quel giorno pioveva così tanto che credevo saremmo rimaste in casa a ricamare invece abbiamo preso l’ombrello e siamo andate in chiesa a confessarci. Il buio, il marmo e l’incenso ingigantivano la pioggia che crollava sopra di noi, con un frastuono spaventoso. Don Giulio aveva percorso la navata come un ombra, era alto poco più di un bambino e aveva una voce sottile, che mi ricordava i cigolii della porta in cantina. Era entrato in confessionale e mia zia l’aveva seguito. Io ero rimasta seduta davanti a San Giuseppe, perché aveva un viso buono e c’era la luce dei lumini a darmi coraggio. Mi sembrava che mi guardasse negli occhi e che mi conoscesse come mio padre.
San Giuseppe, gli avevo detto. Oggi avrei voluto ammazzare Giovannino. San Giuseppe di solito taceva, ma mi pareva che a sentire i miei pensieri il temporale si fosse fatto più scontroso. Le fiammelle delle candele traballavano ad ogni tuono, il vento fischiava infilandosi attraverso le fessure.
San Giuseppe, io però a Giovannino voglio tanto bene.
Il portone aveva cominciato a sbattere, l’acqua era entrata lucidando pavimento. Zia Adele e don Giulio erano usciti dal confessionale per controllare cosa stesse succedendo. Ero corsa verso di loro, avevo abbracciato la zia; c’è una tromba d’aria, aveva detto don Giulio, ripararatevi sotto l’altare.
Era stato allora che era esplosa la vetrata sopra al santo, tutti i lumini sul candelabro si erano spenti in un colpo solo, coriandoli affilatissimi erano schizzati dentro le acquesantiere, sulle panche scure, sotto gli inginocchiatoi. Con loro avevo visto cadere e schiantarsi tre uomini in velluto verde.
Sono loro, sono loro! Avevo gridato! Sono venuti a prendermi, li ha mandati la maestra!
Ero svenuta dopo pochi istanti, tra le braccia di don Giulio.
Si era abbattuto sul nostro paese un uragano feroce, che aveva anticipato l’estate di qualche settimana. Aveva scoperchiato le case vicino al torrente, divelto i cartelli, piegato i semafori. Un enorme ramo si era staccato dal platano in canonica, aveva sfondato la vetrata della chiesa ed era caduto nel punto in cui le bare prendono la benedizione.
Nessuno era stato ferito, stavamo bene.
Quando mi ero svegliata zia Adele mi aveva baciato le guance e si era fatta il segno della croce. Dalla finestra si vedevano le nuvole grigie farsi, difarsi e poi sparire, la pioggia era quasi impalpabile, il temporale stava smettendo. Mi ero sistemata gli occhiali ed ero andata a controllare che a terra non ci fosse nessuno.
Maria Teresa, mi aveva chiamata San Giuseppe. Avevo fatto finta di non sentirlo, mi vergognavo della bugia che avevo detto ed ero offesa per la punizione che avevo ricevuto. Ero uscita sul sagrato a testa bassa, faceva freddo, la piazza era coperta di chicchi bianchi e aghi di pino.
Il giorno dopo, a scuola, Giovannino andava su e giù dalla sedia.
Fate un applauso a Maria Teresa, aveva esclamato allegra la signora maestra, siamo contenti che tu stia bene.
Giovannino mi aveva abbracciato stringendomi il collo, non riuscivo a staccarlo.
Avrei voluto ammazzarlo di nuovo, ma mi ero ricordata dell’uragano, della defenestrazione e di San Giuseppe. Così avevo alzato la mano, signora maestra, avevo detto, vorrei cambiare compagno di banco.
Il pomeriggio, in giardino, avevo raccolto un mazzo di fiori. C’è n’erano pochi, perché la tempesta aveva distrutto le corolle e sparpagliato i petali in terra, erano resistite le calle sotto il portico e le rose in terrazzo.
Avevo preso la bicicletta ed ero andata in chiesa con la zia e i fiori sotto il braccio. Avevo messo il mazzo in un barattolo di vetro, San Giuseppe ci guardava, illuminato dall’azzurro che entrava dal finestrone circondato dai ponteggi.
Ti ringrazio, l’avevo pregato, adesso ho una nuova amica, fa che non sia come Giovannino.
Avevo aspettato la zia, stava allungando una busta a Don Giulio perché dicesse una messa visto che ci eravamo salvati.
Era di buon umore- la zia Adele- tornando a casa si era slegata i capelli. Quando lo zio ci aveva viste era andato a preparare la merenda, per fortuna le piante di salame erano resistite alla grandine.