Daruma

scritto da Rebecca Buselli

Saresti la ragazza perfetta se ti tagliassi le gambe, dice e si accarezza la guancia.
Io la guardo, guardo le mie gambe e le butto in avanti per camminare. Penso a quelle statuette giapponesi di un monaco rosso senza arti, li ha persi meditando.
Potrei sedermi qua, sulla veranda di questa casa non mia e meditare su tutte le cose che dicono gli altri e aspettare che anche a me caschino le gambe. Le braccia mi sono già cadute.
Preparo la borsa, allaccio le scarpe ai piedi che sono attaccate alle gambe che mia mamma vorrebbe non avessi. Continua a leggere

La differenza la fa il dolore

scritto da Mattia Grigolo

Lo zio Alfredo non piace a mia madre.
È arrivato una domenica, mio padre lo ha accolto fradicio di sudore, sorridente.
Sarei dovuto scendere d’inverno – dice allargando le braccia.
Al nord non è estate? – risponde papà. Si prende l’abbraccio del fratello.
Hanno gli stessi tratti somatici, sembrano gemelli, ma uno è magro e scavato, l’altro robusto con una folta barba che gli arrotonda ancora di più il volto. Lo zio è quello magro.
Mi guarda, s’inginocchia e mi accorgo che, tra i suoi piedi di fianco a un borsone da viaggio, c’è un grosso scatolone forato sul lato più lungo. Sei piccole fessure come tre oblò affacciati nell’oscurità. Continua a leggere

La tua paura più grande

scritto da Simone Paparazzo

«Dove vai?» mi fa.
Sara non si muove dal letto. Si è voltata a guardarmi e dalla finestra la luce del lampione le guizza tra i capelli tinti di rosso. La tapparella non scende oltre e restano quei fori orizzontali che privano dell’oscurità.
«A lavarmi».
Nudo. Il telefono in mano.
Siedo sul gabinetto e ho un solo nome in testa. Accendo il telefono. Il neon sopra al lavandino mi dà un colorito simpsoniano. Sugli appendini c’è un pantalone da lavoro dimenticato dalla sera precedente.
Sento Sara rigirarsi nel letto. Arriva rumore di plastica.
Fabio. Non trovo il tuo numero. Continua a leggere

Non c’è niente di mio qui

scritto da Giovanna Vicari

Arrivo mezz’ora prima, entro dal cancello in ferro battuto che dà sul cortile, uno spiazzo tra palazzi di inizio secolo. Ci sono già stata qui, mi dico. Due casupole si fronteggiano unite da una pergola con rampicanti e lampadine sospese, sotto ci sono una manciata di tavoli.
Me lo ricordo, una decina di anni fa qui c’era un piccolo cinema indipendente con un bistrot.
Avete cambiato gestione?
Uno dei due camerieri, il ragazzo, scuote la testa e si scusa, non sa rispondermi.
Certo, gli dico, tu sei giovanissimo e dicendolo mi sento più vecchia di mia madre. Continua a leggere

Disdetta

scritto da Egidio Matinata

DISDÉTTA s. f. [der. di disdire]
1. Anticamente, con senso generico, il dir di no, rifiuto, ricusa. Oggi, dichiarazione di risoluzione di un contratto. Termine, tempo utile per disdire.
2. Sfortuna

11.12.2020

Non credete a nulla di quanto sentite dire e non credete che alla metà di ciò che vedete

La frase riecheggia nella mente di Vittoria. La donna è seduta dietro la scrivania, ha lo sguardo rivolto fuori dalla finestra e una tazza di tè a riscaldarle il grembo e le mani. Il fumo della bevanda si incrocia con i raggi del sole che attraversano i vetri. L’azzurro del cielo fa risaltare la prima neve sui monti in lontananza. Mentre il marito e la figlia stanno ancora dormendo, lei è sola e immersa nella pace; si è svegliata riposata, di buon umore e motivata. È pronta per un’altra giornata di lezioni a distanza. Ha quattro ore, dalle otto alle dieci e dalle undici all’una. Volendo, avrebbe anche il tempo di fare una passeggiata veloce. Continua a leggere

Consolazione

scritto da Stefania Maruelli

Guardo i segni del legno sulla panca, ci passo su un dito, mi metto a grattarli. Ora avrei dovuto tenermelo sempre, tutti i giorni. Mi alzo al cenno del prete: è la terza volta che ci fa alzare e sedere. Luca volta la testa di un niente nella mia direzione, vuole essere complice, farmi sorridere di questo continuo alzarsi e sedersi, farmi capire che conosce l’inutilità del tutto, lasciarmi intendere che siamo uguali anche se non è vero. Consolarmi dai miei pensieri anche se il padre nella bara è il suo. Torno col dito sui segni dei tarli. Ora avrei dovuto tenermelo in casa ogni giorno, tutte le mattine e tutte le sere. Certo, in mezzo ci sono l’alzarsi, il vestirsi, un caffè buttato giù in fretta, molto ore di lavoro, il pranzo fuori, altro lavoro, le commissioni della vita. Tuttavia rimane la sera. Niente più solitudine, niente più scrivere. Ora che è orfano ha solo me al mondo, solo me e quella casa dove finora ero riuscita a restare da sola, farlo correre all’occorrenza, mai nei weekend. Nei weekend c’è da scrivere, non perdere tempo. Continua a leggere

Col buio le ombre non esistono

scritto da Andrea Tani

Dopo che le guardie di Sollicciano hanno aperto il cancello, mi sono fatto subito una pisciata in fondo alla strada. Il vento di un camion me l’ha buttata sulle scarpe di camoscio.
«Ehi Diego», urla uno di loro, «ora che vai via, posso chiederti una cosa?»
«No.»
«Quel tatuaggio sul braccio?»
Mi tiro su la zip, gli mostro la curvatura del bicipite e dico: «Sai di cosa si occupa un apicoltore di ottant’anni?»
«Non ne ho idea.»
«Nemmeno io.» Continua a leggere

Ultime spiagge infuocate

scritto da Matteo Quaglia

1. Marianna mi telefona e dice che deve parlarmi di due cose importanti. Non faccio in tempo a chiederle come faccia a avere il mio numero, che inizia a parlare. Dice la prima è che gli hipster di dieci anni fa ora hanno soldi a sufficienza per aprire locali in cui servire cocktail dentro i vasetti della marmellata. Sospira. È quasi impossibile bere un Pim’s con il Ginger ale da un bicchiere normale, dice Marianna. È estate e fuori dalla finestra l’umidità dipinge aureole intorno ai lampioni accesi. Marianna dice la seconda è che un mio amico, un attore, un motociclista che ho frequentato per un certo periodo, dopo che me ne sono andata da Trieste, ora non si sa che fine abbia fatto. Chiedo a Marianna cosa intenda, lei risponde che deve andare, ne riparleremo ma non al telefono, e in effetti riattacca. 2. Ho sempre associato la parola “scomparsa” a “violenza”. Forse è colpa della televisione, o magari ho poca immaginazione e basta. Continua a leggere

La scala

scritto da Tiziana Borghini

Doveva scendere in cantina a prendere una bottiglia di vino per la cena. Tommaso sarebbe arrivato di lì a un’ora.
Quando sua madre la spediva in cantina a prendere il vino per il padre, all’ora di cena, vi andava sempre controvoglia. Non le piaceva quella sensazione: arrivava circospetta alla porta, accendeva la lampadina che penzolava dal soffitto – una luce troppo debole per vedere bene – pescava una bottiglia impolverata e scappava fischiettando con la sensazione che qualcosa si stesse affacciando dall’ombra per seguirla. Continua a leggere

I fascisti di via Rapallo

scritto da Davide Membrini

1

Il Cipolletta l’appuntamento me l’aveva dato a Sperlonga. «È meglio» aveva detto, «ci vediamo alle nove e trenta in Piazza della Libertà». Ed è certo che per lui era meglio: lui abitava là, a Sperlonga, mentre io invece dovevo prendere il Cotral Gaeta/Terracina – aspettando biglietto alla mano sotto il sole di agosto – e poi attendere che l’autobus superasse il lungomare di Serapo, e che superasse la Flacca, e che finalmente fermasse dove doveva fermare.
Però era lui, il capo. Continua a leggere