Creature

scritto da Maria Pia Dell'Omo

M’haje fatte a piezze
primme ancore‘e me fa nascere
m’haje sputate ‘mmocca
primme ancore ‘e me verè crescere.
“Cuore infranto” mi chiamavi,
ma io tenevo cinche anne – che ne sapevo che vo’ ricere
“cuore infranto”?
Me lo immaginavo, questo cuore, sotto una campana di vetro,
in mezzo alle rose
e con uno strano lucore aranciato
ppe’ fa’ luce dìnto a ‘stu cielo scuro e spezzato.
“Cuore infranto” mi chiamavi e
e nodi amari tessevi con le mani,
i legamenti prendevi,
come cavi, li annodavi;
le mie ossa le rubasti al camposanto
dal corpo di un farabutto, di un poeta, di un santo.
È per questo che il mio canto è un raschiare di gola
e il mio storpio cuore nessuna alba ristora.
In ogni posto in cui vado mi sento marcio
il tuo sguardo nella memoria è
uno squarcio in quest’animo guasto.
Ogni mio passo è sghembo, padre demonio,
e cammino sbilenco, in questo mondo-manicomio.

non c’è vittoria in questa storia,
né vinto o vincitore,
io sto parlando solo di persone sole:
tu, sconfitto dalla tua ossessione di perfezione
il tuo unico linguaggio è la prevaricazione
io, trafitto dalla tua presunzione;
mai davvero figlio, solo morta creazione
c’est fait mal, croi moi une lame
enfonceè dans mon ame; regarde en toi,
n’est pas l’ombre d’une larme.
Et je saigne encore, je souri a la mort
tout ce rouge sur mon corp…
(1)
e tutte ‘stu sanghe che me scorre pe’ cuollo
a’ carne acoppe, ‘e maccarune asotte.

Padre, perdono se ti ho rinnegato,
ma tu questo figlio non l’hai mai amato.
Ed è per questo che non so mai chi sono
e nemmeno ppe’ te je nun vaco maje buono!

Sogno albe di tigri e girasoli
voglio stare in un quadro di Van Gogh
in un campo di fiori
e campanili come lame nell’azzurro
a scampanare nel cuore di dio in letargo,
ché se io esisto,
è perché mi hai fatto tu, Victor.
Non sono passato dalla gonna di una donna –
tu non hai il cuore chirurgico delle madri:
loro non farebbero figli laceri
e se pure fossero a pezzi,
li farebbero sentire interi,
pronti a spiccare il volo come sparvieri
a salpare i mari come velieri

Invece tu senza parole mi hai voluto lasciare
ho spezzato la tastiera il giorno in cui eri in ospedale
a crepare male…
mi ha insegnato il balbettio la pioggia
che batteva un canto nel petto – lei alla finestra,
tu in cielo come il mio guasto dio
che il cuore protese a creare creature incomplete
destinate ad essere dal mondo incomprese

Io canto il salmo dei negletti,
degli imperfetti figli maledetti
di noi che, ricoperti d’insetti,
marciremo come i fiori più belli di questo molesto creato

Ascolta Creature letta dall’autrice


(1) Testo da “Et je saigne encore” di Le Kyo. Traduzione: E fa male, mi attraversa una lama conficcata come un pugnale, fin dentro l’anima: ti guardo, non vi è l’ombra di una lacrima (sul tuo viso). E sanguino di nuovo, sorrido alla morte, tutto questo rosso (sangue) sul mio corpo”…

Caro Maestro…

scritto da Maria Pia Dell'Omo

Alice – How long is forever?
White Rabbit – Sometimes, just one second.

Sono caduta, maestro,
e non mi sono più rialzata.
Giacendo bocconi per strada
ho visto cose piccole piccole,
diresti “minuscole”.
Ho visto case nei tombini
e fiumi impervi
e le buche nell’asfalto,
come cicatrici,
raccoglievano acqua,
si facevano lago.
Una varicella le coglieva,
ma nessuno lo vedeva
perché ribaltavano il cielo
nel loro essere più in basso
del basso,
più in basso di me.
Sono caduta, maestro,
e sono scivolata più giù.
Dicono che sia oltre il terriccio,
ho in bocca humus e qualche lombrico
– inizio a vedere qualche osso di pollo,
sarà il furto di qualche randagio.
Dicono che stia precipitando,
come Alice.
Ho attorno le formiche,
e loro scavano scavano
scavano,
nel silenzio scavano.
Nel buio, hanno una regina
gravida
che si gonfia come un teratoma
prima di dare alla luce
piccole creature centrifughe.
Avrei bisogno di pastiglie tossifughe
– ho terra ovunque:
nelle orecchie
nel naso
nel cervello.
Mi porto questo fardello
della grevità,
non è questione di gravità
ma di inadattabilità.
Sono caduta, maestro,
perché portavo un peso al piombo,
a filo dritto dallo sterno
fino a questo strapiombo.
E precipito,
precipito
ma forse è un ritornare
in un posto dove
non starò più male
anche se fa male cascare.
E precipito
precipito
con queste ali inette,
si sono trasformate
in due ferite infette.
E precipito
precipito
nel buio terminale
dispersa alla ricerca
di una pietra filosofale.
Mi diresti, maestro, che
è una cosa inattuale,
che ero una bambina sensibile
e non un animale,
mi diresti che è per questo,
con fare paternale,
che è un fatto manifesto
che io lassù sto male.
E qui cado ancora
mentre il caldo rincuora.
Sembra quasi il tuo abbraccio
di quando andavo a scuola.
Sono sola, mi dico,
in questa vacuità sonora
e i cancelli dell’inferno
tremano, una volta ancora:
è tutto così placido
questo piover cose ctonie,
magmatiche comete
rigano il nero
come lacrime.
Sono al centro, maestro,
il centro di tutto.
Vedo Ratatoskr addentare
le radici di Yggdrasil,
mentre la tua radio accenna
che ci governa Draghi,
ma io non la sento
nel pozzo disadorno
da cui non farò ritorno.
Sembrano luci al led
queste anime luminescenti.
Verrebbe voglia di afferrarle
come lucciole,
o come Exos lucius
a branchi,
che esplodono come petardi
dalle larve,
abbarbicate agli alberi
come gemme eleganti.
Ma un sonno da luminale
mi fa gentilmente ripiegare
in posizione fetale.
Sussurrano ai miei orecchi
diverrò uno strato germinale
e fiotterò sangue nelle linfe
di alti rami.
Sfiorerò il cielo,
ancora,
custodita come un segreto.
Sepolta come uno spergiuro obliato,
forse in osseto.

Ascolta Caro Maestro… letta direttamente dall’autrice

Il mese di Marte

scritto da Rachele Pavolucci

Pulisco l’uovo sodo,
il guscio strappa il bianco come
quel pomeriggio in tre:
in mano il cerchio rosso del cuore.

E poi, quasi gridando, precisi:
Sono figlio di contadini – mica d’arte.

Io non so quale intuizione dovrei avere,
penso solo:
Di sicuro non sa zappare
e non ha imparato nulla
di ciò che la campagna insegna
sull’amore.

Ascolta Il mese di Marte letta dall’autrice

Tutti più felici di me

scritto da Rachele Pavolucci

Tutti più felici di me
senza guasto al motore
senza architravi, semplicemente
liberi, volatili, con orgasmi perfetti;
Tutti luminosi, incandescenti
con bocche aperte e piedi
bianchi, limati, lavati.

Io sono figlia di grano
sono figlia di falce io
e filamento che si spezza per soffio.
Ruzzolo giù tra le paglie e rido ragliando
sono fatta di pelo
odoro di cane e sterpaglia.

Tutti concentrici voi
senza correnti, con conoscenza del centro.
Io senza equilibrio, io danzante nel passo
io onda, schiuma di sasso;
io che cerco la tana e sono fatta di fango:
non costola, non pretesto
non a soddisfare bisogno.

Tremo, tremo e mi lancio
vibro e scordo d’essere spinta
da gravità terrestre.

Voi stretti in un corpo
io piena di amanti mortali
di cui porto callo e ricordo
il sapore, il tepore
del sonno.

Ascolta Tutti più felici di me letta dall’autrice

La bestia sbagliata

scritto da Max Di Mario

Le mattine non hanno tutte l’oro in bocca
ma più spesso un retrogusto di vodka
che è ferita metafisica nello specchio del fiato
mi spezzo mi piego e mi spoglio delle foglie
facilmente, come un ramo
come Remo so solamente invidiare
il destino del gemello giusto
fondatore di imperi benedetti da dei
che io sono capace soltanto di bestemmiare
è difficile trovarmi nelle pagine che scrivo
spiare oltre gli argini di cirri e ciminiere
in un città di ghepardi da tastiera
recitare la mia parte di fragile erbivoro
da sempre la bestia giusta al momento sbagliato
è evidente,
sono un bag del sistema, un insetto sterco
sono il terrapiattismo per la filogenesi
un errore imprevisto nella classificazione di Linneo
un repellente neo peloso sotto l’occhio di Darwin
Rewind. Pianosequenza in un’anonima classe delle elementari
Suor Rosa, tenero bocciolo con bicipiti da Undertaker
avvolto nella sua custodia di nera ossidiana
ci affibbia una lettera da abbinare a animali
scatenando una pioggia di G come gatto, di C come Cane
di L come Lupo, di R come Rana
e di Z come Zebra che la mandano in sollucchero
fino ad arrivare a Max, con la sua P
come, ovviamente, Petauro dello zucchero
e giù scrosci di risate, come aghi sottopelle
piccole bocche malvagie e licantropici dentini
di futuri questori, fashion blogger e banchieri
lo sguardo di Suor Rosa
lo stesso di Schwarzenegger
quando pronuncia il suo fatale: Hasta la vista baby
e io stringo geloso il mio Petauro, al petto
sotto gragnole di scherno e di T come Topo
prendo coraggio, dico: l’ho letto in un libro!
è un marsupiale dotato di membrane dette patagi
vive in Nuova Guinea, ve lo giuro, esiste
è uno scoiattolo che vola
una M come Mucca per poco non mi acceca
Suor Rosa mi solleva, gonfia il collo taurino
scambia di posto le mie costole come un cubo di Rubik
mi chiede: perché insisti a prenderci per il culo?
Cos’hai contro il Pollo, il Pinguino, la Pecora
se vuoi fare l’originale scegli il Pitone, il Puma
Ma non stuprare con la fantasia la perfezione della natura
mangia merendine, gioca a calcio
suona Fra Martino col flauto, come tutti
invece di insistere ad infilartelo nel naso
Spera di essere un Re Magio alla recita di Natale
invece di sperare di essere l’asino
il mondo è così, puoi essere soltanto l’animale che sei nato
puoi avere occhi di aquila, o essere talpa, cieco
ma non puoi essere uno scoiattolo alla conquista del cielo

a casa rispondo che va tutto bene, prima di rintanarmi
nella mia giungla divano
Nuotando nella testa assieme agli ornitorinchi,
imitando gli starnazzi di emù e kookaburra,
e ammirando le feci quadrate di un vombato
mentre rimetto in ordine le spalle lussate
senza sapere che un giorno un conato di noia
per ragli uniformi, omologati muggiti
dopo un lungo curriculum fatto di sbagli
di amori dadaisti e vodke in bocca al mattino
mi porterà a squittire in un modo solo mio
irsuto roditore che plana nell’alba
felice, chiamando i suoi versi poesia,
di essere al momento giusto la bestia sbagliata.

Ascolta La bestia sbagliata letta dall’autore

Tempesta imperfetta

scritto da Max Di Mario

Tu che ti svegli
tra le macerie della notte
stretto da pareti di fogli A4
imbrattati degli ultimi bisbigli di sogni
nascosti nel cassetto di qualcun altro.
Tu che ti addormenti scarafaggio
per risvegliarti uomo,
che lavi i denti dopo i pasti
per un sorriso seducente a questo specchio vuoto:
sei sia la gallina che l’uovo.
Sei nato prima di inventare te stesso
ma hai calato le braghe dopo esserti pisciato addosso.
Così non va sorella
e fratello, credimi, stai messo male.
Da animale a animale, di sociale hai solamente
la tendenza a fantasticare su quale sarà la prossima hit dell’estate,
finché non interviene la nobile arte del dissociare:
mente e mani, cervelli e peni, vescica e reni,
e allora dici bisogna fatturare
bisogna fratturare ulne tibie scapole omeri frantumare omero dante
e pezzo per pezzo piazzare dei bot dei bond gli stock la glock qui in front
Oh!
Mio nonno bracciante lucano smottava la terra
perdeva la guerra di troia contro la servitù della gleba
sopravvissuta zitta zitta nel sommergibile della storia.
Mangiava controfiletto di merda, direttamente dalla scodella,
finché non ha mollato la zappa ed è salito, su
dal battiscopa pieno di polvere all’aria pura della finestra.
Sul carro del venditore.
Sul: carissimo compagno lavoratore
eccoti un bel contratto, l’appartamento all’angolo nel palazzo, il conto in banca,
saluta il calanco e abbraccia il Nord Est che produce,
bacia la croce e saluta il duc…ssssssh!
Ma pensalo e basta, perché non si dice.
Ora addormentati e risvegliati
felice.

Ma non basta.

C’è nei tuoi occhi, sorella, la cresta di un’onda,
c’è nella tua pancia, fratello, una sorgente che sgorga,
c’è una vecchia favola che nel tramonto rimbomba,
un gigantesco drago addormentato
che sogna i suoi sogni di fuoco nell’ombra,
un gregge di pecore nere, smarrite nei crepacci del mondo,
che belano la loro rivolta
alla spalle indaffarate del roveto ardente,
finché non interviene la somma arte del sussurrare:
parole e voci, respiri e fedi, stanchezze e schiene
e allora dici bisogna complicare
bisogna compitare cifre, ore, notti, gradini, compilare bilanci e grafici
e pezzo per pezzo spezzare
il pane e rendere le disgrazie, realtà.
Occupare il nostro piccolo spazio.
Rimanere in silenzio.
Lasciando scorrere una poesia
accendersi, un istante poi via
nell’oblio dispettoso del fiume Lete
concedendo alle nostre orecchie, la libertà
di decidere se combattere
per la tempesta o per la quiete.

Ascolta Tempesta imperfetta letta dall’autore

Maria Elisabetta Alberti Casellati

scritto da Fabrizio Nuovibri

Mai l’Italia ebbe altra sterile casta
Italia sballata: stabilirete camere?
Sì, se l’Italia batte altra bicamerale
L’Italia mistica sale: ballare, battere!
L’Italia illibata batte: camere, ressa!
L’Italia illibata… se c’è erba, stremata.

E l’italia bacia e brama triste stella
L’Italia bacia le metastasi tra le B.R.
L’Italia, estrema star, ti bacia le balle
L’Italia estremista tace: è lì la barba
L’Italia tassa certi malati e le barbe
L’Italia tassa il bere ma cita la Bertè
Italia marcita: la lebbra, le tasse, tiè!

L’Italia emetica resta lì: è slabbrata
L’Italia scema testerà l’Italia ebbra
L’Italia tribale cambierà: la Sette sa
L’Italia sa, birra, tetta e besciamella
L’Italia testa tesa, birra e ciambella
L’Italia alta ci abbasserà le mirette
E l’Italia bassa tratterà male i celibi

E l’Italia mastica bretelle e sbraita
L’Italia arrabbiata miscela le sette
L’Italia la smette, c’è rabbia realista
L’Italia esacerbata è matta, se brilli

E l’Italia baratta mesta le braci lise
L’Italia lacerata sbatte miserabile
L’Italia abbatte macerie, sa e strilla
L’Italia tesa, ribelle: basta Amatrice!
L’Italia metterà sabbia lì, tra le case
L’Italia trebbierà la mise catastale
L’Italia misera ti abbatterà le scale

L’Italia cela misteri e blatera: BASTA!

Ascolta Maria Elisabetta Alberti Casellati letta dall’autore

Poesia da 11 pollici e mezzo

scritto da Fabrizio Nuovibri

Vorrei coltivare orchidee
Ma non ho il pollice verde

Vorrei coltivare insalate
Ma non ho il pollice verza

Vorrei allevare lombrichi
Ma non ho il pollice verme

Vorrei trasmettervi entusiasmo
Ma non ho il pollice verve

Vorrei barrire, miagolare, nitrire
Ma non ho il pollice verso

Vorrei bere un Martini
Ma non ho il pollice vermouth

Vorrei sapere la grammatica
Ma non ho il pollice verbo

Vorrei fare l’autostop
Ma non ho il pollice vero

Vorrei scrivere romanzi d’avventura
Ma non ho il pollice Verne

Vorrei leggere tutto Goethe
Ma non ho il pollice Werther

Vorrei girare un film porno verista
Ma non ho il pollice Verga

Vorrei scrivere una fiaba originale
Ma ho solo mezzo pollicino

Ascolta Poesia da 11 pollici e mezzo letta dall’autore

Rave Goa Marino

scritto da Eugenio Griffoni

Uscito di casa questa mattina
pareva quasi di stare al porto,
si sentiva nell’aria lo vedevo per la strada,
era il Mare,
lungo il corso che m’aspettava
a caso sparso tipo briciole,
non fatte di pane,
ma di fatta spuma smarrita e
cozze
sbronze
aperte,
granchi storti alghe perse e cavallucci marini
pure i delfini in postumi micidiali:
era l’alba dei molluschi viventi!
C’era stato un cazzo di rave marino
qualcosa d’eccessivo, psicotropo,
un sabbath abusivo
coi polipi giganti e le balene sciamane
“Caspiterina però penso che potevano anche invitarmi ste balene
che tanto abito qui sopra
avrei diligentemente smezzato la spesa” comunque,
mentre mi facevo sto viaggio mentale
dall’uscio di casa al rave goa marino
mi trovo fra i piedi i delfini
che pregano tutti impastati
“Acqua acqua per favoreEE”
mi sba-va-no
mi slacciano le scarpe “Oooooh! Cazzo volete?
mettete apposto sto macello
riponete nell’ordine le cose
e non si capisca per cortesia
che avete ecceduto nei vizi,
lesti lesti tornatevene in mare
che si scandalizza la borghesia e
sgomberare sgomberare!
Per i postumi il mal di testa
niente Moment OKI o Aspirina:
leccatevi gli scogli
fidatevi, parola mia”.

Ecco dettaglio importante
c’erano pure gli scogli
nte sta cagiara:
uno collassava male
dentro al negozio chic,
n’altro stava sul campanile
bo cantava
n’altro stava
buono buonino
sopra il Cayenne del vicino,
STO SUV DIMMERDA
ora fai il Pouf cuscino
nel mio rave
goa
marino,
grazie scoglio – ti stimo.

Nel mentre della conta
i sopravvisuti del disastro
pensavo a questo mare
sempre zitto e salmastro
che non ha voce per bestemmiare
se non tempesta
per spazzare via la sabbia dai lidi
lungo l’Adriatico, e
ho pianto.

Oh mare, amato mare,
mio mare blu profondo
che sbronzi di salsedine
sognanti e marinai,
versi e cuori rapisci
nel tuo galoppo d’onda:
tu orizzonte! Precipizio che ingoia
sole luna e stelle
istinti
sgomenti
amori
tormenti
tu
tormenta nella notte,
tu che inverti le mie rotte,
oh madre
e fonte,
tu vita che circonda
e matrice di respiro,
tu domanda
senza risposta, sospiro
a te, voce del dio muto
che in te sprofonda:

Cosa ti hanno fatto?
A brandelli microplastici
in radioattivi fondali
hai fatto tuoi gli scarti
di questa ingorda società.

Cosa ci siamo fatti?
Incapaci di respirarti,
leggerti, amarci.

Ascolta Rave Goa Marino letta dall’autore

Delirio Dixan

scritto da Eugenio Griffoni

Se mettessi
la testa nella lavatrice senz’altro
l’intruglio
dei pensieri miei olivastri potrebbe
prendere il largo e diluirsi via via
in deliri profumati
di marca Dixan, così facendo,
roteando anti orario fuori orario
nell’oblio del cestello col volgere
di strani eoni

vedrei Dio, il vuoto cosmico, e Azathoth che sempre dorme.
PURIFICATO TORNERO’ per imporre una verità assoluta
ogni impurità sarà bandita se ritenuta
discutibile.

Adrenalina.
Dammi la scossa dammi una botta
mordimi il cuore che non lo ritrovo,
mi ritrovo? Non mi ritrovo.
Perso parola PIN e indirizzo
nell’incubo ricorrente dove un nero
gorgo
mi chiama,
ma dice altri nomi.

Dalle mie mani
fuggono linee,
non so domare con briglie di fumo!
Una medusa sono
putrescente al Sole
fra i tentacoli un coltello
a far poesie d’amore,
sulla sabbia.
E degrado
lento
fra solchi di terra spaccata
smarrito sono
invertito i poli
in perdita sono
sfinito sfibrato, disabitato,
spolpato dai brillanti
fluorescenti scintillii.

E ho piedi di cemento
un petto di cemento
la testa nel cemento
armato di pali
l’acciaio ficcato
nei sogni dormienti,
testate sul bottone d’allarme espulsione
DOTTORE UNA COMETA la ricetta per favore
dritta in faccia me la prescriva!
Con la scia che rompe il cielo
e incendia l’orizzonte.
Ma facciamo in fretta per favore,
SOS il segnale
il battito del cuore. Alla deriva siamo.
In avaria mayday,
su una landa desolata
d’un riflesso stordito, e colori
che non mi dicono più un cazzo.

Disteso sul pavimento,
anche se il qui e ora è soltanto un paletto
di ruggine marcio
ficcato nel petto,
gli occhi sbarrati infuriano
e squarciano il soffitto, e si tuffano,
come folgori liberate
negli astri.

Ah, eccolo qui, il centro dell’Universo.
Come siamo piccoli,
e miseri.

Ascolta Delirio Dixan letta dall’autore