Stefania Maruelli

Stefania Maruelli vive e lavora a Milano. Laureata in Scienze della comunicazione e specializzata in Pari opportunità e studi di genere, ha frequentato corsi di scrittura creativa presso la Scuola Holden e la Bottega di narrazione. Trovate suoi racconti, oltre che su inutile, su micorrize, Risme, Malgrado le Mosche, Narrandom, L'Inquieto, Allarmata Radura.

La situazione del piatto

scritto da Stefania Maruelli

C’era questo piatto col cervo, anzi un cerbiatto, ma cosa dico: una lepre – mai riconosciuto gli animali del bosco, ma senza alcun dubbio questa era una lepre, – ed era tra le mie mani. Ma è un piatto, ho detto, e Luca ha annuito di sì con quell’inflessione che usa quando deve fare da cuscinetto emotivo tra me e il resto del mondo. È un’inclinazione lieve del capo a cui seguono tutta una serie di giustificazioni preventive a placarmi. A me dispiace per lui, davvero, perché di fatto non è stato Luca a regalarmi il piatto col cervo, ma non c’è niente da fare: Luca percepisce i mali del mondo – ovvero tutto ciò che è in grado di ferirmi – come una sua diretta responsabilità. A volte usciamo dal cinema e inizia a dirmi che si sapeva che il film era stato finanziato da Netflix o che il regista, a quell’età, dovrebbe ormai ritirarsi. Ma dicevamo. Continua a leggere

Consolazione

scritto da Stefania Maruelli

Guardo i segni del legno sulla panca, ci passo su un dito, mi metto a grattarli. Ora avrei dovuto tenermelo sempre, tutti i giorni. Mi alzo al cenno del prete: è la terza volta che ci fa alzare e sedere. Luca volta la testa di un niente nella mia direzione, vuole essere complice, farmi sorridere di questo continuo alzarsi e sedersi, farmi capire che conosce l’inutilità del tutto, lasciarmi intendere che siamo uguali anche se non è vero. Consolarmi dai miei pensieri anche se il padre nella bara è il suo. Torno col dito sui segni dei tarli. Ora avrei dovuto tenermelo in casa ogni giorno, tutte le mattine e tutte le sere. Certo, in mezzo ci sono l’alzarsi, il vestirsi, un caffè buttato giù in fretta, molto ore di lavoro, il pranzo fuori, altro lavoro, le commissioni della vita. Tuttavia rimane la sera. Niente più solitudine, niente più scrivere. Ora che è orfano ha solo me al mondo, solo me e quella casa dove finora ero riuscita a restare da sola, farlo correre all’occorrenza, mai nei weekend. Nei weekend c’è da scrivere, non perdere tempo. Continua a leggere

Mi scusi, lei vive da sola?

scritto da Stefania Maruelli

Sono arrivati in cinque. Francamente mi è sembrato un dispiegamento di forze eccessivo. Non tanto i tre della guardia medica, ma i due poliziotti, quelli proprio non me li aspettavo. Come mai la polizia? ho chiesto alla ragazza che mi misurava la pressione.
È la prassi, mi ha detto lei sorridendo, non preoccuparti. Intanto però un poliziotto aveva acceso una torcia – una piccola torcia che mi ricordava quella che usavamo io e mia sorella da piccole quando restavamo al buio e disegnavamo figure luminescenti sulle pareti della cameretta – e aveva preso a percorrere il corridoio, senza neanche chiedermi il permesso, aveva aperto la stanza dell’abbandono, quella dove dopo due anni c’erano ancora scatole da cui con Luca tiravamo fuori cose al bisogno – libri, vestiti, vecchi film – era un po’ il segno del nostro cedimento, o della nostra poca costanza, e mi dava fastidio che un poliziotto fosse lì con una torcia a mettere in luce la cosa. Poi per fortuna ha richiuso la porta ed è andato avanti, fino alla camera da letto e al bagno: sarà stato deluso di non aver trovato tracce di sangue nemmeno laggiù. Continua a leggere

Tina

scritto da Stefania Maruelli

Il gatto aveva tagliato in due metà esatte il giardino, poi si era nascosto nel cespuglio di mirto. Quando mia madre lo aveva visto passare, aveva sollevato appena le spalle, buttato giù il vino. A tavola, quella sera, non eravamo riuscite a mettere insieme neanche una vaga forma di conversazione: questa cosa le metteva sempre malinconia. Io avevo provato a rimediare con la trama di un libro che avevo letto di giorno, anziché scendere al mare, ma né lei né mia sorella sembravano interessate. Era la storia di tre donne, tre generazioni diverse, che finivano col vivere insieme il resto dei loro giorni. Ripensandoci, avrei potuto evitare. Continua a leggere

Maioliche dipinte a mano

scritto da Stefania Maruelli

C’era quel polipo fritto, ma non l’abbiamo nemmeno toccato.
Betty se ne era uscita con quella sparata, e nessuno più osava parlare. Io cincischiavo con una mollica di pane, avrei voluto altro mirto, ma anche allungare un braccio verso la bottiglia mi sembrava un gesto eccessivo. Bill, il povero Bill, era rimasto in silenzio. Con la coda dell’occhio potevo vedere la sua mano ancora stretta attorno al bicchiere. Il liquido viola ci si muoveva dentro disegnando delle piccole onde, il ghiaccio ormai si stava sciogliendo. Mi pareva che la vena sulla sua mano si fosse gonfiata, che pulsasse più in fretta, ma con quella luce non potevo esserne certa. Anche May e Paul dovevano essere rimasti basiti, il silenzio della tavolata era rotto solo dal frinire dei grilli che tra poco avverrebbero smesso, smettevano sempre alle nove di sera. Così almeno diceva Betty.
«Oh, andiamo Bill, lo sai cosa intendevo dire» fece Betty.
Alzai lo sguardo e la guardai, lei non sembrava realizzare la gravità della situazione, anzi, sembrava allegra. Si era raccolta i capelli fermandoli con una bacchetta di legno e una ciocca più chiara delle altre le ricadeva lieve sopra la fronte. Era bella, questo sì, questo non si poteva negare. L’abbronzatura le toglieva almeno cinque anni, l’avresti detta sulla quarantina. L’altra però, chi poteva dirlo.
Bill vuotò il bicchiere buttando giù anche il rimasuglio di ghiaccio, lo fece con un movimento che mi era sembrato esatto e puntuale. Per la prima volta capivo perché potesse piacere alle donne. Quei polsi, le braccia. Una certa risolutezza tardiva. Mi venne voglia di sfiorargli la mano che teneva il bicchiere. May e Paul si guardarono e fecero per bere, ma le mani si fermarono quando Bill di colpo si alzò trascinando la sedia su quel pavimento italiano, maioliche dipinte a mano, roba che in altri tempi avremmo anche potuto apprezzare. Avevamo affittato, come ogni anno, una villa in una di quelle isole a Sud dell’Italia, ora non ricordo nemmeno come si chiamano. Eolie? Credo di sì, non me ne intendo di geografia, non mi interessa. Io e Thomas eravamo arrivati quella mattina, un viaggio di tredici ore, volevamo solo finire la cena, andare a dormire, vuotare le valige, forse inaugurare la stanza, ma non era detto. La mattina scendere in spiaggia. Gli altri erano già lì da una settimana e Betty aveva organizzato questa cena a base di pesce, diceva che ormai conosceva per nome il pescatore dell’isola, Gianni, si chiamava, questo me lo ricordo. Quella mattina Gianni le aveva portato del pescato del giorno: roba da mangiare cruda, non mi chiedete cosa perché non ho mai imparato i nomi dei pesci, né dei crostacei, nemmeno mi piacciono, e un polipo, questo sì, questo è facile, da cucinare. Betty aveva apparecchiato con una tovaglia rosa e una rete da pescatore cosparsa di conchiglie, ce n’era una anche sopra ogni piatto e dentro ogni conchiglia aveva infilato un rametto di buganvillea fucsia. Una cosa penosa. Vedendola, mi ero chiesta quanto tempo avesse sprecato per quell’apparecchiatura, mentre avrebbe potuto leggersi un libro, farsi un bagno fino ai faraglioni, prendere il sole, scrivere, addirittura, sapevo che teneva un diario, lo teneva da anni, ma forse era lì già da troppi giorni e il libro, il bagno, il sole e il diario l’annoiavano ormai. E così era andata da Gianni, queste cose si fan sempre e solo per noia. Insomma, al centro del tavolo, tra conchiglie e buganvillee, quel piatto col polipo.
Bill raggiunse il parapetto col bicchiere ormai vuoto ancora in mano, ci si appoggiò con i gomiti. Il sole era sceso da poco e colorava di rosa la superficie oleosa del mare. Erano mesi che aspettavo questa vacanza, era stato un anno pesante con Thomas, e tutto quanto. Insomma, sapete. Vidi che Paul e May si sforzavano come me di non fissare Bill, ma era impossibile. Come facevi a non guardare lui, o lui o il polipo. O al limite Betty.
«No» disse «non lo so cosa intendevi dire.»
Betty scoppiò a ridere, una risata acuta e stonata che risuonò nel silenzio. Aveva bevuto troppo, aveva bevuto anche mentre apparecchiava, ne ero sicura. Fissai il polipo, allora, e mi sembrò che da quando ci eravamo messi a tavola si fosse ristretto, rimpicciolito, e che lo strato rossastro che lo ricopriva si stesse facendo più scuro. Sempre più scuro.
«Spiegami, avanti» continuò Bill, «spiegalo a tutti.»
Bill si era girato e fissava Betty, la sua figura lunga e sottile era un ritaglio di buio contro lo sfondo rosa del cielo. Lei con tutta calma si versò altro vino – buono, vero? chiese a noi che eravamo rimasti in silenzio coi bicchieri vuoti – e lo mandò giù, poi si sciolse di nuovo i capelli. Su o giù, non si decideva, doveva piacersi in entrambi i modi e non aveva ancora deciso quale rispecchiava il momento esatto che stava vivendo. Forse sciolti.
«Non c’è niente da spiegare Bill, non farla lunga» disse Betty. «Ci stai solo rovinando la cena, il polipo si sta raffreddando.»
E andarono avanti così, almeno mezz’ora credo, finché Thomas non mi guardò con lo sguardo che aveva quando era sfinito – pensava alle valigie ancora da disfare, alla nostra stanza che affacciava sui faraglioni, forse solo a dormire ormai, alla fatica dei giorni – e allungò un braccio verso il piatto col polipo. Lo gettò a terra. Il polipo era lì, sopra le maioliche dipinte a mano, i tentacoli aperti come un ventaglio, e a me venne da ridere. Quando fa così mi ricordo di amarlo. Allora l’ho preso per mano e siamo scesi di sotto.

12 febbraio

scritto da Stefania Maruelli


La macchia poteva essere di vino o caffè, difficile dirlo, quel che era certo è che ricopriva una porzione minuscola della quarta piastrella partendo dal lavandino. Anne la stava fissando da quando lui aveva iniziato a parlare.
«Mi ascolti?»
Se fosse stata di vino avrebbe avuto una sfumatura violacea, ma non era detto, forse il colore era dovuto alla porosità delle cementine in cucina. Se le erano fatte arrivare dalla Francia.
«Anne?» Continua a leggere