Sharon Vanoli

Nasce a Bergamo nel 1994. Vive tra una valle di montagna e la periferia di Milano, dove studia Lettere Moderne. Suoi racconti sono apparsi o in via di pubblicazione su inutile, L’Elzeviro, L’inquieto, Morel, Nazione Indiana, Neutopia, Risme. Interessi compulsivi: camminare, pensare, fumare, scrivere, leggere, la natura, la musica, le visioni – tutto confuso e mischiato.

Sucre glace

scritto da Sharon Vanoli

Si chiama sclera, la parte bianca dell’occhio. Da quando lo so, ogni volta che sento la parola torno con la mente a una cena della mia infanzia. Allo sguardo sfibrato di mia sorella Maddi.
La scrutavo cauta, era seduta di fronte a me. Teneva le pupille scure così girate verso l’alto da farmi provare orrore di tutto quel bianco vischioso. Continua a leggere

La stanza di luce

scritto da Sharon Vanoli

Fingevo di leggere i dorsi dei libri sulle mensole sopra la mia testa quando Saverio mi rivolse la parola. Lo avevo visto arrivare – la sua sagoma alta e magra dall’altro lato della sala, le mani in tasca, lo sguardo gentile. Si era fatto vicino poco a poco. Io lo seguivo furtiva girando la testa con rapidi scatti. Fu fermato più volte lungo il percorso. Profili che non riconoscevo, a parte un paio di professori, suoi colleghi. Lui rispondeva ai saluti cordiale, poi si scostava stringendo le mani senza fretta, l’aria un po’ impacciata. Aveva per tutti quel suo sorriso religioso. Mi spiazzava sempre: nella mente citavo a memoria la frase di un romanzo, girata al maschile: c’era in lei la nobiltà spontanea degli animali, dei bambini, o dei primi abitanti del paradiso.
Quando mi fu alle spalle non seppi fingere sorpresa, mi imbarazzai, sorrisi e basta.
«Sei qui da sola?» chiese.
Proprio allora avvertii nell’aria un’aroma salato, di forno caldo. In un brusio festante osservai la gente avanzare a piccoli gruppi verso la sala laterale. L’aperitivo era stato servito, dunque. Mi sposterò anch’io, come tutti, in direzione di quella sala? Saprò parlare con gesti disinvolti con chi mi si pone vicino, mentre prendiamo qualcosa al buffet, con un bicchiere di vino in mano? Mi chiesi questo; ma già sentivo dentro di me brutti pensieri, voci cattive, bisbigliavano qualcosa: starai male-sarai d’impaccio-sognerai un rifugio-tornare a casa-contando i minuti. Come si scongiurano le paure di tutta una vita?
Saverio mi osservava con i suoi soliti tratti lieti. La sua calma mi rassicurava.
«Ora sì. I miei compagni se ne sono andati dopo la conferenza».
Prese a parlare con un tono di confidenza che non si era mai concesso in precedenza, forse spinto dal contesto. E parlando con la mano fece cenno di avviarci, anche noi, verso la sala servita.
Fui subito sola, di nuovo. Non appena adocchiai un gruppo di professori puntare dritto verso di noi – insegnanti di filologia, come Saverio – filai via quasi senza salutare. Li conoscevo tutti quanti ormai, i loro lavori di ricerca, i dottorandi che avevano sempre tra i piedi. Proprio uno di questi, Luca, un pomeriggio di torpore in biblioteca, mi aveva detto: c’è questa conferenza, vieni con chi vuoi. Ma da studentessa non ho mai saputo vivere con agio il mondo accademico – mi calava addosso ogni volta, in prossimità dei professori, un sentimento osceno di insignificanza, di ottusità della mia figura.
A lezione invece andavo volentieri. Ascoltavo, prendevo appunti, ma parlavo poco – sopportavo male la fiumana chiassosa degli studenti. Come una raminga taciturna e spaurita, entravo e uscivo dalle aule senza farmi notare, prendevo posto tra le ultime file e sussultavo ogni volta che mi veniva il timore di essere scelta dall’insegnante per rispondere a una domanda. Soltanto in certi giorni di euforia mi prendeva una voglia di parlare che mi rendeva tutti gradevoli e mi inserivo allora con piacere nelle discussioni degli altri.
Perché sono venuta qui, pensai con astio, avevo l’impulso di correre via dalla sala. Dalle grandi vetrate guardai il cielo nero sopra la città vibrante di luci. Anche nel buio della sera si intravedeva il livore delle nuvole, dense di pioggia – tra quanto avrebbe cominciato? Poi una voce mi arrivò dalle spalle.
«Sei sempre assente. Non nasconderti».
Luca. Mi voltai coprendomi la bocca con la mano, masticando. Lo salutai con un cenno del capo. Ci scambiammo le solite domande, le solite risposte. Non persi mai di vista il grosso libro che teneva appoggiato al petto. Che ci fai con quello, chiesi.
«Questo» disse piano, picchiettando le dita sulla superficie della copertina rigida «è qualcosa di illuminante; qui dentro si spiega molto bene il principale difetto della narrativa contemporanea. Vale a dire la mancanza di audacia, di prospettiva in grande. Ormai gli scrittori raccontano solo storielle, romanzi di centinaia di pagine su vicende private, insignificanti di personaggi insignificanti. La narrativa si è persa nel piccolo, nella piccola voce del singolo. E ha perso il suo potere».
Mentre parlava teneva i suoi piccoli occhi chiari fissi nei miei, ma senza che io ne ricevessi un senso gradevole di dialogo, di condivisione vera. Parlava senza prendere fiato, senza interrompersi per chiedere il mio parere. Non gliene importava niente – era chiaro. Parlava rivolto a se stesso – lo vedevo bene. Non è quello che facciamo tutti, forse, in una certa misura? Quante volte mi sono sorpresa, pensai, a cadere anch’io, senza volerlo, in questi toni autoreferenziali e compiaciuti. Ma in quel momento mi mancò l’energia di fare da specchio alla vanità di Luca, tagliai corto con la scusa di dover salutare qualcuno e mi allontanai dalla vetrata.
Guardai con discrezione intorno a me. La sala mi sembrava sempre più piena, si gonfiava. Di nuovo frenai la frenesia delle gambe che volevano andarsene. Saverio dov’era. Tra i corpi in completo blu, in completo nero, e le mani che flettevano nello spazio della sala stringendo calici tremolanti, intravidi il suo profilo. Lo sguardo a terra, assorto – comunque radioso. Proprio come allora, nel giorno del nostro primo incontro, quando trafelata avevo varcato il portone dell’università, avevo attraversato il cortile interno dirigendomi verso il dipartimento della mia facoltà per presentarmi al primo colloquio con il relatore di tesi, in netto ritardo. Ero salita su per le scale di corsa fino al pianerottolo del secondo piano. Nell’atrio di attesa non c’era nessuno; con un gesto irriflesso della mano mi ero asciugata svelta la fronte dagli accenni di sudore. Mi ero avviata verso il corridoio dove si trovavano le aule di ricevimento, sforzandomi di calmare il respiro – sentivo ancora sulla pelle il tepore della corsa di prima. Avevo percorso il corridoio lentamente, scorrendo le targhette affisse sulle porte che indicavano i nomi dei professori. L’ultima porta era aperta. Mi ero sporta appena, sull’uscio, per vedere se dentro ci fosse qualcuno. Veniva dalla finestra una luce limpida e tanto accesa da inondare l’aria della stanza, abbagliarmi la vista. Un professore che non avevo mai visto, chino sui suoi libri, aveva alzato lo sguardo verso di me. Io avevo distinto soltanto, in modo vago, fra tutto quel chiarore, i contorni del viso e la fronte alta da cui partiva un ghirigoro di capelli scuri. Riceve qui Tagli, avevo domandato.
«Oh, sì, sì! Arriverà tra poco, gli dirò che lei l’aspetta» aveva risposto, quasi balzando dalla sedia, in un moto di gentilezza vivissima ed esultante che gli aveva riempito il volto – gli occhi, il sorriso – della stessa luce gioiosa che già colmava la stanza. Avevo ringraziato, ero uscita. La suggestione del momento mi aveva stretto la gola, confuso la pancia.
E così la stanza di luce era diventata il mio appuntamento settimanale con il suo corpo leggero, il suo volto serafino. E a primo impatto così brutto – lineamenti allungati che gli conferivano una forma eccessivamente smunta; il naso lungo, irregolare, un po’ schiacciato alla radice; le labbra pallide e appena visibili, incartocciate dai baffi e dalla barba che, a differenza dei capelli – castani – assumevano sfumature rossicce. Il sorriso appena accennato e gli occhi – un’apertura calda color miele di castagno – piegati dall’espressione lieta e ingranditi dalle lenti degli occhiali, esprimevano però sempre lo stesso sentimento di sfolgorio raggiante. Dal suo viso emanava un riflesso di bontà infantile, tutta interiore. Il suo viso era uno sfregio di grazia.
Vidi Saverio farsi impaziente, in un gruppo di docenti, di nuovo stringere mani. Agitava le gambe secche e ossute da bambino minuto, di una magrezza estrema che mi pungeva in viso ogni volta. Voleva andarsene, intuii. Avrei voluto dire: rimani, la tua presenza mi tiene insieme, tiene ferma la sala – il vino a stomaco vuoto e la debolezza mentale mi davano pensieri esaltati.
Ripensai alle parole di Luca. Sei sempre assente. Io vivo nell’ovatta – devo andarmi a prendere in fondo a me stessa, ogni volta, per andare dagli altri. Aprire un varco nel torpore. Cercare le parole in fondo alla gola, cavarle fuori. È dura risalire, è dura ridiscendere. Ma nell’assenza non schivo un dettaglio. Senza sosta vigile, succhio ogni cosa – dalla mia distanza.
Di questa distanza mi sono ammalata. A sedici anni, nel giardino arso dal sole di una casa affittata al mare, il mio primo attacco dissociativo. La mamma e il papà erano andati a passeggiare sul porto. Seguendoli con lo sguardo, avevo contato tre minuti dall’attimo in cui li avevo visti superare il cancello. Poi mi ero accovacciata ai piedi dell’albero di limone e avevo acceso una sigaretta. Chissà perché, mi era venuto da piangere. Una scossa nervosa lungo la schiena, la testa di colpo intorpidita. Poi il corpo mi si era fatto irreale. Sentivo le mani e le braccia desensibilizzate, rallentate e attutite e pesanti – si muovevano nell’aria come in certe acque dense di lago. Le alzavo di fronte al viso e non capivo: di chi sono queste mani? Scoprivo nel mio corpo un’energia nuova, deformata, più viva e più cattiva, che attraverso quei torpori pareva comunicarmi un segreto, ma a me giungeva soltanto un’eco sommessa, come di voce subacquea che fa vibrare l’acqua, ma non sa portare parole. Chiedi aiuto, avevo pensato. Mi ero voltata verso il cancello – ero inorridita. Non era vero quel cancello, e la strada deserta oltre il cancello, mamma e papà a passeggiare sul porto e il mio corpo di scafandro – tutto si era dileguato regredendo allo stato di delirio sognato.
Perché vuoi scomparire? La psicologa del liceo mi guardava paziente con i suoi grandi occhi tondi. Sei così sconnessa dal mondo e dalla realtà – aveva detto – che la tua mente ha bisogno di raccontarsi bugie: non è reale il corpo, non è reale quello che mi circonda. Attraverso gli attacchi cerchi di illuderti di non esistere, per rendere tutto più sopportabile, e allora, andiamo a fondo, cerchiamo di capire: perché vuoi scomparire?
Tornai con il pensiero alla sala frastornata di voci, il cuore iniziava a tamponarmi il petto. Dovevo andarmene. Appoggiai il bicchiere vuoto sull’orlo di una tovaglia e puntai dritto verso la porta di uscita. Feci in tempo a vedere Saverio, per l’ultima volta, a una decina di metri da me. Forse guardava nella mia direzione, non capii, i contorni delle cose tremolavano. Forse avrebbe voluto salutarmi, accompagnarmi a piedi fino alla stazione parlando stretti sotto lo stesso ombrello. Ma già ero fuori dalla sala. Giù per le scale, e poi nell’atrio al piano terra. Avvertii un forte odore di pulito, nell’ultimo tratto, appena prima di uscire, che mi impregnò le narici. Non so perché mi ricordò subito l’aroma potentissimo, davvero inconfondibile, dell’ingresso di casa di una mia vecchia zia francese. Vorrei saperlo descrivere ma non riesco: inizialmente acre, come certi detersivi che pungono il naso, si faceva poi in fretta aromatico e avvolgente – lo associo mentalmente alla vaniglia.
Una volta in strada mi calmai. Camminando sotto una pioggerella di fine ottobre mi lasciai andare a riflessioni languide e assorte. E così Saverio sarebbe volato a Londra a tempo indeterminato. Aveva ricevuto un’offerta, vincendo un concorso, per poter studiare manoscritti ancora inesplorati, qualcosa a che vedere con la musica medievale. Luca me l’aveva detto. Avrei dovuto lasciare Saverio allo stato di abbaglio nella stanza di luce, e invece l’avevo osservato, spiato, – con i miei occhi nascosti – l’avevo celebrato, per mesi, sempre ai margini della sua vita. Quante volte mi ero chiesta: dove vive? E sempre mi ero figurata un appartamento agli ultimi piani di un palazzo grigio, all’incrocio tra due strade. Da solo? Forse con la madre già anziana – così me l’ero immaginata. Del resto lui non poteva avere meno di trent’anni – trentacinque, avevo poi saputo. Che libri leggeva, quale musica? Quali donne? Forse, uomini? Avrei voluto che i tetti, i muri delle facciate, i muri oltre i muri, cadessero giù a terra e lasciassero vedere ogni cosa. Perché non possiamo rivelarci l’uno all’altro, qui e ora, senza bisogno di parole, e sopraffare la casualità – così allucinante, a pensarci – degli incontri, la fatica del dialogo, della formalità e il suo vuoto di parole?
Luca avrebbe riso, sì, dei miei vagheggiamenti da bambina. Ma io non ho mai saputo – voluto – impedirmi di stemperare la curiosità con la fantasia. Luca avrebbe detto: ti perdi nel tuo piccolo, nei tuoi piccoli stupidi problemi. È vero. Vorrei tanto avere un’altra voce – ma ho questa. Però le voci qualche volta sanno alzarsi. Si uniscono alle altre, in coro, e nasce un nuovo suono. Questo, forse, fanno le voci dei libri: si alzano. Questo avrei dovuto rispondere a Luca. E poi anche: tu non sai che cosa significa vivere con una voce di sirena malata nell’orecchio.
Quando raggiunsi la stazione aveva smesso di piovere. Dal binario osservai, oltre i fili elettrici delle ferrovie, la città in lontananza bagnata dalla pioggia accendersi delle luci della sera. Un acquerello sbavato, puntinato d’oro. Poi puntai lo sguardo contro i fari del treno in arrivo lasciando che la luce mi ferisse gli occhi, ma felicemente – come una benedizione.
Il treno mi si parò davanti e a fatica salii sulla carrozza stipata di corpi schiacciati l’uno contro l’altro. Il tepore pesante dei fiati mi riportò alla realtà.