All’epoca noi ci si trovava allo scantinato di via Balbo, e la giornata la passavamo a parlar male dei vecchi. Bastava che uno bussasse una certa musica contro la porta per capire che era dei nostri: ma finché erano facce giovani, facevamo entrare con abbastanza libertà. La maggior parte di noi lavorava, naturalmente, per le quattro generazioni di anziani: per questo il momento migliore per ritrovarci era la sera, quando ormai li avevamo già messi tutti a letto. Noi non volevamo davvero nasconderci, ma se qualcuno avesse saputo che c’era un gruppo di giovani, a Torino, che tutte le sere si radunava per bere e parlar male di questi vecchi a capo del mondo, ci sarebbe stato del fastidio. Non che avessero granché da temere. Noi non eravamo d’accordo con tante cose del Nuovo Sistema, certo, ma poi veniva sempre fuori che tutti avevamo almeno un quadrisavolo o una nonna-tris a cui voler bene. L’idea di far loro del male ci dispiaceva. E poi la violenza non era nel nostro credo, stava scritto anche nel manifesto. È per questo che finivamo per non combinare mai nulla. Questo fino al giorno che arrivò quel Pino.
Lui diceva: «Il mondo va avanti un funerale alla volta». Ed era pieno di rabbia. Ci parlava di scontro, di azione e ribellione. Noi rispondevamo: «Sì, Pino», perché anche se eravamo frustrati (e lo eravamo davvero), preferivamo non pensarci troppo. Finché, dopo gli eventi del 25 marzo, non fummo costretti a farlo.
Era accaduto, infatti, al 25 di quel marzo, che i telegiornali si riempissero di informazioni e annunci sulla Nuova Riforma. L’aspettavamo da tempo, la Nuova Riforma; più o meno dall’avvento dell’NS, da quando la vita s’era allungata cioè ai 160 anni; e speravamo che ci fosse almeno qualche punto dedicato a noi. Non fu così.
Lo guardammo tutti insieme dallo scantinato, il TG di quella sera. I vecchi alti e quelli di mezzo vantavano i traguardi raggiunti dalla Nuova Riforma, traguardi che però riguardavano solo loro stessi. Che rabbia! Saremmo stati degli infanti almeno fino ai trent’anni, ora, e senza fondi, per di più! Vecchia Riforma, vorrete dire! Urlavamo allo schermo, scoppiando a ridere solo per non piangere, o forse per sentirci più vicini ancora. Fu una fortuna, allora, che Pino fosse già nelle nostre vite, perché solo lui poteva avere il coraggio di dire: «Qui bisogna fare qualcosa».
Rispondemmo con il silenzio, che per noi voleva dire «Sì, Pino», e questa volta, fra tanta paura, lo intendevamo davvero. Abbassò il volume delle notizie, e noi ci preparammo ad ascoltarlo (capimmo subito che doveva dirci qualcosa di importante, credo che lo capimmo un po’ dal tono ma anche dalla postura, che era solida e imponente, l’esatto opposto della nostra).
Per prima cosa ci disse, «Gente, noi non siamo soli». Per seconda invece, disse, «Ho fatto un giro per l’Italia», «Ma che dici, Pino», e raccontò di come negli scorsi mesi aveva scoperto (e unito!) tante piccole comunità come la nostra. E disse che ora – ora che aveva imparato a conoscerci e che ci vedeva, finalmente, bollire di rabbia – «eravamo pronti pure noi».
«Pronti per cosa, Pino?»
«Ma come per cosa», disse lui, e quant’era bello mamma mia, forte e bello, e noi lo guardavamo dal basso come adolescenti innamorati. Ancor di più quando disse:
«È ora di una rivolta, gente».
L’idea ci eccitava e ci spaventava insieme, ma sapevamo che era proprio quella paura il prezzo da pagare per entrare nella storia. Soprattutto, eravamo contenti: eravamo stanchi, di tutti questi vecchi. Ma poi qualcuno dei nostri saltò fuori a chiedere:
«Pino, tu perché stai facendo tutto questo?»
Lui scosse la testa, come per scacciare via un brutto ricordo, e disse solo «Sentite, gente, vi va o no? Abbiamo indetto una riunione giusto questo giovedì. A Milano».
«Abbiamo chi?» chiedemmo noi, parecchio turbati.
E anche se Pino non rispose noi sapevamo di non avere alternative, da soli non eravamo mica organizzati, era questo il succo, e non potemmo far altro che andare a questa benedetta riunione.
La Riunione di Milano cominciò anche bene, si può dire, perché stavamo tutti in cerchio con le birre e chiacchieravamo, mentre qualcuno suonava alla chitarra una canzone indie molto nostalgica. Poi, quando sentimmo dall’altra parte della stanza voci che si alzavano, la tensione cominciò a farsi sentire. E chi poteva esserci, in mezzo, se non quel Pino?
«Ma non capisci», diceva. «Non esiste battaglia in campo aperto».
«E perché no?», urlò qualcuno di noi.
«Perché quella roba non esiste più», disse un’altra voce delle nostre.
Allora tutti intorno si zittirono, la chitarra smise di suonare e tutti, ma proprio tutti, dicemmo, anche se sfalsati:
«Un attentato».
Pino annuiva. E ci sembrò così vero, e così solenne, che non potemmo fare a meno di sentire l’orgoglio crescerci in petto, mescolato a una sana dose di stress.
«Anche una roba piccola. Ma dobbiamo fargli sapere che ci siamo. E che non accettiamo quello che stanno facendo. Non più!»
Ci fu un assenso generale a cui seguì, in modo molto naturale, un’adunata in cerchio, per discutere quale genere di attentato potessimo seriamente organizzare. La nostra sola certezza era che nel mirino
dovevamo tenere i vecchi di mezzo, quelli tra i cinquanta e gli ottant’anni, e cioè, bene o male, i nostri genitori, quelli che stavano in politica, e che per noi erano gli anziani del peggior tipo.
«Ma prima di tutto», disse qualcuno «Dobbiamo avere chiaro cosa vogliamo cambiare. Un obiettivo!»
«Un obiettivo finale», completò un’altra.
Cosa davvero non ci andava di questi vecchi a capo del mondo? Lo segnammo per punti su un foglio A5, che sarebbe rimasto a lungo appeso nello scantinato di Milano. Prima di tutto, il sistema pensionistico, perché le risorse statali finivano per andare tutte a loro e zero a noi. Secondo, il fatto che dovessimo lavorare solo al servizio degli anziani – altro lavoro praticamente non ce n’era – e che ci fosse precluso ogni tipo di carica politica, ogni tipo di fiducia e possibilità concreta prima dei cinquant’anni. Cinquanta! Terzo, anzi quarto, anche se più personale, ce l’avevamo a morte coi loro slogan. Perché scrivevano sempre “Il futuro è in mano ai giovani”, oppure “I giovani sono il futuro”, e non era più vero, o almeno noi sapevamo che aveva smesso di essere vero da un po’. E questo ci faceva sempre molto arrabbiare.
Fu proprio quella rabbia a renderci chiaro l’avvenire. Decretammo così che il modo migliore per prenderli era un attentato, sì, ma di natura tecnologica. L’idea veniva proprio da Pino. Utilizzando le nostre abilità tecnologiche avanzate, saremmo riusciti a infiltrarci nei sistemi di sicurezza degli anziani. Restava solo da definire chi. Solo alcuni di noi, infatti, avevano una dimestichezza tale con sistemi di questo tipo da poter organizzare un simile attacco. Perciò, quando entrammo in azione, molti di noi non poterono far altro che guardare, fare il tifo, continuare a bere.
Era tutto pronto: gli schermi, le tastiere collegate agli schermi, le maschere dei nostri hacker. Noi eravamo andati a comprarci dei giubbotti antiproiettile e dei caschetti arancioni, ma solo così, per sentirci di partecipare (la versione ufficiale era che dovevamo essere pronti in caso di scontro fisico). E poi Pino aveva approvato. Ci aveva pure dato dei vecchi pantaloni di quando ancora esistevano i militari! Avremmo dovuto capire che c’era qualcosa sotto. Avremmo potuto arrivarci.
Perché infatti, una volta che entrammo nei loro sistemi (eravamo bravi, e ci riuscimmo senza troppe seccature), andò tutto in tilt. Credo che nessuno di noi capì bene le dinamiche; era tutto così confuso; fatto sta che partirono allarmi, che saltarono cavi spine e noi cominciammo a urlare. In mezzo a quel panico, ci venne naturale ascoltare gli ordini di Pino, che spinse noi vestiti da guerra fuori dallo scantinato.
Non eravamo i soli a correre per strada: Milano era il delirio, l’apocalisse dell’umano, con i vecchi che correvano per le strade senza riuscirci, perché erano impediti da tutti quei loro carrellini. Donne e uomini comparivano e sparivano da una parte all’altra della strada, chiusi sui loro zaini per proteggerli, chini sulle fasce in cui stringevano i propri figli piccoli (era rarissimo per noi, a quei
tempi, vedere dei bambini, creature rare da tenere al sicuro). I fili dell’alta tensione crollavano in nubi di fumo nero e in mezzo a un frastuono di lampi, che era elettricità spezzata, frantumata a terra in scintille di luce. E noi così, con la bocca spalancata, che guardavamo il cielo e la terra in preda a una scarica indescrivibile! Che fascino sublime, che sensazione di potenza improvvisa provammo, finché Pino non sbucò alle nostre spalle e disse:
«Attaccate, cazzo, attaccate!»
Quella frase ci penetrò talmente a fondo che non potemmo far altro che iniziare a correre pure noi, a pestare tutti i vecchi che incontravamo, specialmente quelli di mezzo, e vaffanculo al manifesto, vaffanculo alla non violenza, se non che poi arrivò in massa la polizia dei vecchi a tentare di fermarci
e ci riuscirono davvero, per un attimo: con le manganellate, con i calci in pancia e noi che ci contorcevamo sull’asfalto sporco, mentre Pino, santo Pino! Lui, zitto zitto, si arrampicava a mani nude lungo i piloni dell’aria, la stessa aria buona che serviva a far respirare i vecchi per le strade di città. Quando i vecchi se ne accorsero, lui era già bello in alto, pronto a far saltare tutto: e gli spararono. Al primo colpo resistette, e si spinse, a fatica e con i gomiti, sull’ultimo tratto di scala: e gli rispararono, e lui cadde sulla grata quella più alta.
Allora noi ci alzammo dall’asfalto, e iniziammo a picchiare questi vecchi di mezzo con ancora più rabbia; e quanta rabbia che avevamo. Non sapevamo da dove sbucassimo, ma all’improvviso anche noi eravamo tantissimi, tutti incazzati neri; i nostri corpi ribelli non tenevano più, e tirammo fuori tutto, tutto quello che non eravamo mai riusciti a fare.
Sotto i colpi dei nostri corpi giovani e forti, quei vecchiacci cominciarono a soffrire: loro avevano anche le armi, sì, ma noi avevamo grosse braccia e spalle larghe. Avevamo la gioventù, ce lo diceva sempre anche Pino anche se forse noi allora mica lo capivamo. E poi alcuni di noi erano pure un po’ bevuti da prima. L’adrenalina era, insomma, a mille. Qualcuno di loro, uno che avevamo visto in tele
credo fosse un politico, aveva proprio la faccia – tentò di fermarci; ci disse, gridava:
«Cosa cazzo volete?»
Alcuni di noi, senza farsi notare, stavano risalendo le scale di Pino, forse per recuperarlo e portare a termine il lavoro che aveva iniziato. Ci venne in mente, in un colpo di vero genio, che dovevamo distrarre i vecchi: era il momento, sì, e perciò salimmo sopra un tram fermo e mezzo distrutto. Da lì, in piedi sopra la folla, richiamammo l’attenzione di tutti, ma veramente proprio tutti quelli che c’erano per strada, e cercammo di parlare come faceva lui. Con un occhio, controllavamo a che punto erano i nostri con i condotti dell’ossigeno.
«Che cosa vogliamo?»
Avremmo voluto urlare, a quel punto, finalmente, e gridare che ci avevano preso tutto, che eravamo incazzati e incazzati da morire ora che avevano anche sparato a Pino; ma qualcuno, da non so bene dove, alzò verso di noi qualche strana arma; e ci spararono.
Ricordo che caddi dal tetto di quel tram color arancio; che mi spararono nel petto e
caddi…
…sulla strada grigia sotto di noi.
Senza aver mai potuto parlare, sulla merda fresca forse di qualche vecchio vecchissimo che se l’era fatta sotto in mezzo a tutta l’ansia di quel caos.
Non che avrei mai ben saputo cosa dire, dopo. Ma tanto cosa cambia? Non abbiamo mai potuto parlare.
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racconto
Nuova merda profonda
scritto da
Noemi Eva Maria Filoni