A Riccardo, al suo diminutivo da bambino viziato, al suo giovanilismo ridicolo, ai suoi viaggi spirituali in terre lontane, descritti con umiltà esibita; alla sua retorica umanitaristica – smentita da uno smisurato egocentrismo – mi è capitato di augurare la morte. E mi sono persuasa, negli anni, che sia una prova irrefutabile che ci fu amore, che ce ne fu tanto e forte. Di quell’amore che non costruisce niente, perché l’amore non deve costruire e non possiede nessuna insita progettualità, neppure quando, per volontà o per capriccio del destino, si agglutina in un altro essere umano. Il nostro, per fortuna, non si agglutinò mai in nulla. Riccardo è diventato padre a un’età che oggi nessuno considera veneranda. Io niente, ventre secco, e forse anche questa è stata una fortuna: non ho la tempra accogliente della madre, non so offrire il mio corpo a tempo indeterminato, posso concederlo qualche ora a un uomo perché lo abiti e lo scuota, ma devo poter riprendermelo quando lo desidero, anche di punto in bianco, senza spiegazioni. Capitava spesso con Ricky, per una parola detta a sproposito o un gesto brusco – era la nostra specialità – e io mi alzavo e lo lasciavo disteso sul letto con il pene eretto, satiro frustrato e stizzito. Gli spigoli dell’uno combaciavano con le parti in carne viva dell’altro: due esseri nati per ferirsi. Continua a leggere
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racconto
Flora
scritto da
Elena Rui