La prima volta l’avevo baciata alla festa di Gaia. La conoscevo da poco Lisa, da quando seguivamo insieme il corso di Storia dell’Arte. Un’ora pallosissima di slide sui realisti francesi che, voglio dire, a parte L’origine del mondo, nulla da segnalare.
Alla festa, Lisa mi era quasi saltata addosso. All’inizio aveva cercato la mia mano. Che io, a furia di tener le mani a posto, le ragazze dovevano venire a stanarle da dentro le tasche.
Comunque, quella sera ero lì per Gaia, che le sbavavo dietro dall’inizio delle lezioni, che pure lei seguiva i realisti francesi con entusiasmo, mentre io nel buio dell’aula provavo a ridisegnare il suo profilo sul taccuino. E Gaia seduta accanto a me, perché il minimo che potevo fare era tenerle il posto, rideva divertita dei miei scarabocchi e alla fine dell’ora mi passava gli appunti come un’elemosina.
Insomma, ero convinto di essere trasparente. Senonché alla festa, mentre stavo seduto a fumare sulla soglia della finestra che dava sul campiello, Lisa si era fatta stretta stretta per condividere la stessa soglia e infilarmi la mano nella tasca del giacchetto. Perché io, manco me l’ero tolto il giacchetto, sembrava che stavo all’asilo ad aspettare l’ora che tornava la mamma.
Con la mano di Lisa che mi frugava nella tasca, le avevo chiesto se voleva una sigaretta, ma lei no, non era quello che voleva.
Fuori c’era un’aria accartocciata, il buio si era annidato tra le lastre del selciato, tanto erano lucide di china. I muri delle case sudavano sotto la luce del lampione sospeso, mentre il campiello disegnava un quadrato esatto dai contorni sfrangiati, su cui scivolavano le mie incertezze. Gli scuri delle finestre erano chiusi, nessuno sembrava curarsi dei nostri schiamazzi oppure se ne erano andati tutti.
Però io mi sentivo gli occhi addosso, qualcuno che spiava la festa da un sottotetto e che non ci avrebbe perdonato quel casino. Qualcuno che avrebbe chiamato la polizia perché non si poteva dormire, che le casse dello stereo facevano tremare i vetri e i ragazzi della festa erano ubriachi e forse si stavano drogando. O perché c’era un tizio alla finestra che fumava qualcosa di sospetto mentre una ragazza sballata gli sfruculiava sotto i vestiti.
Gli amici di Gaia stavano tutti sdraiati a terra, stravaccati sui cuscini. Urlavano, alzando la voce sopra il volume della musica e si passavano la bottiglia. Erano passati dagli stuzzichini al giro di malvasia e avevano accompagnato la torta con diversi tipi di vodka. Gaia aveva proposto un brindisi agli innamorati e aveva detto Ma come siete carini voi due e io mi ero sentito un po’ verme, ma avevo la testa di Lisa affondata sulla spalla e lei sempre più aggrappata al braccio.
Lisa sapeva di alcol, ma l’immagine che il mio cervello proiettava in quel momento era L’origine del mondo.
Così abbiamo lasciato la festa e siamo scesi nella corte. Ci siamo baciati davanti al pozzo e le mie mani non avevano pace per la gioia di essere uscite dalle tasche e di tastare qualcosa di diverso dagli orli sudici del mio giacchetto. Tremavo, Lisa mi aveva trascinato al centro del campiello, ma io volevo stare sul perimetro, scomparire nel vano di un portone. Dopo pochi secondi di dita intrecciate e lembi di maglione scostati, il volume dello stereo non lo sentivo più e nemmeno il fastidio di avere addosso gli occhi di un pubblico ammutolito. Lisa aveva un modo straziante di toccarmi, le sue dita mi sfregavano la pelle senza graffiare, come per sentire la materia di cui ero fatto, come per smontare un pezzo di me senza farmi male.
Però a un certo punto mi pareva di sollevare l’onda e avevo rallentato, perché è vero che ci sono delle regole in laguna, ci sono canali in cui devi tenere la dritta e altri in cui tenere la sinistra, solo che io non sapevo leggere le briccole e non mi andava di rischiare.
Così le avevo dato appuntamento per il giorno dopo.
All’ora stabilita ci vediamo in un posticino verso le Zattere che mi ha consigliato il mio coinquilino.
Il bar è strapieno di studenti che hanno deciso di anticipare l’happy hour al mercoledì, per cui ci sediamo ai tavolini fuori. L’idea è abbastanza infelice, siamo due reietti che ordinano con disinvoltura una tazza di tè per prevenire il congelamento. Senza mostrare sintomi di sofferenza, Lisa si scalda subito e inizia a raccontare di quando è stata scaricata dal suo ex, ignorando quello che mi passa per la testa. Dalla parete della bottega una bauta mi fissa, due fosse vuote e un becco sporgente, uno spettro opaco in mezzo a maschere fatte di riccioli, volute e patine rosse e dorate.
Tolgo la bustina di tè e interrogo il riflesso dentro la tazza. Lei dice Andrea, Andrea e io cerco le risposte in quell’attesa.
Mi chiede se c’è una cosa di me, un segreto di cui mi vergogno che potrei raccontare solo a uno sconosciuto. Io le dico una cosa così per ridere, di quando ero bambino e la suora superiora mi aveva dato uno schiaffo perché avevo bestemmiato la Madonna durante la ricreazione.
Era successo nei corridoi e tutti i compagni si erano voltati a guardare e io mi ero nascosto in bagno, per tornare in classe solo alla fine della ricreazione. Quella cosa lì era un segreto, sì, perché mi avrebbero preso in giro, sapendo che continuava a farmi star male. Lei mi chiede se mi capita spesso di stare male per colpa degli altri. Io confesso. Lisa, Lisa, sono una spugna, sono sopravvissuto all’infanzia. Ma mentre pronuncio il suo nome, penso a Gaia.
Lisa sfoglia il mio taccuino. Mi chiede il perché dei corpi, delle figure contorte che disegno con la pancia gonfia e la schiena inarcata all’indietro. Sono uomini incompleti, le spiego, che attendono di diventare altro.
Al ritorno la strada si disfa sotto i nostri piedi e arrivati al ponte mi invento una scusa, di quelle che mandano su il tanfo del fallimento. Dico che ho fatto tardi e devo fare un salto in facoltà.
C’è qualcosa che non funziona, le spiego. Mammamia che roba codarda per iniziare un discorso. La colpa è mia, dico.
Lisa fa una faccia strana, ritira le mani, non sa dove metterle e inizia a frugare dentro lo zaino. Tiro fuori un discorso già sentito e lei tira fuori gli occhiali da sole, anche se il sole è sparito e goccioline di condensa le si appiccicano ai capelli.
Che mi dispiace non essere stato sincero, ma non me la sentivo di ingannarla ancora, perché in realtà ero innamorato di un’altra. Tutto puzza di lista dei consigli dell’amico per scaricare una ragazza.
Allora lei dice ok, mi volta le spalle e la guardo, un busto con le braccia troncate che si allontana lungo il canale. Sotto il ponte passa una barca che rallenta, il conducente suona per iniziare la virata e con tre manovre imbocca la curva a gomito. Espando il torace e respiro la nafta come una lunga e meritata punizione.
Se penso alle quattro cose che ci siamo detti, quattro premesse infilzate lì nel piattino con le fettine di limone, io che ascolto i Depeche e mi ostino a disegnare manichini mutilati, perché ne voglio cavare delle sculture. Lisa che non le piacciono i Depeche e che i disegni li fa solo quando si avvicina la revisione, altrimenti no, nemmeno disegnare le piace. Credo che non potremmo essere più diversi e questo è l’ennesimo cerotto per la sopravvivenza.
Ritorno a lezione, tengo il posto a Gaia, che mi chiede com’è andata. Lascia perdere com’è andata, ti devo parlare, dico. Adesso sullo schermo non scorrono più immagini di donne con fianchi morbidi, seni appuntiti e capelli sciolti. Adesso sfilano dame sulle rive della Senna in guanti e cappellino e nemmeno un lembo di pelle scoperta. Lisa ha il corpo scorticato, la pelle mi è rimasta attaccata ai polpastrelli, li strofino piano per non lasciarla partire.
Sono Manet al Salone dei rifiutati che espone quadri di corpi antichi in pose moderne, ma il pubblico lo deride.
Lisa arriva in ritardo, finge di non vedermi e va in fondo all’aula, due chilometri dietro di me. Pensavo non sarebbe venuta, lei forse pensava lo stesso di me.
Spiego a Gaia che Lisa è stato uno sbaglio – ancora scuse.
Gaia mi propone di preparare l’esame di Progettazione insieme. Dice che ho una buona mano. Anche se proprio non capisce perché le faccio ritratti senza capelli, senza braccia, senza ali. Manca sempre un pezzo di Gaia nella mia arte.
Per prepararci alla sessione d’esame, trascorriamo giorni infiniti a casa sua, con i fogli allargati sul tavolo e sdraiati sul pavimento ad assemblare alberelli di spugna e incidere finestrelle nel cartone sandwich. Mangiamo quando ci va e se ci va, camminiamo scalzi, ascoltiamo le canzoni che piacciono a lei. Gaia è solida, ripulisce ossessivamente le tavole dalle linee di costruzione e dalle sbavature di matita. Dice che quando saremo laureati andremo a vivere in campagna, sistemeremo il vecchio rudere dei nonni e io avrò una stanza per le mie sculture. Sarà bello far crescere i bambini, che potranno giocare all’aperto e che avremmo avuto anche dei cani. Anche se a me i cani non piacciono.
Ogni volta che scendo da casa di Gaia, mi sento addosso le mani di Lisa e allora le cerco nelle tasche. Quando mi succede, vado in sala studio e prendo una postazione di fronte alla sua. Lisa di solito si avvicina con una scusa. Lo sai che vado dallo strizzacervelli?
Allo strizzacervelli ha raccontato dei miei disegni. Secondo Lisa le mie figure con tutte quelle costole pronunciate, hanno delle cicatrici profonde e degli arti invisibili che poi da qualche parte devono proseguire. Che uno si domanda che gamba manca, che piede manca. Dev’essere molto importante, se non c’è.
Lisa mi fa un effetto strano, come di un frutto esotico. Ne assaggi un pezzetto e cerchi di capire se è aspro o dolce e provi a indovinare di cosa sa. E alla fine decidi che non hai mai assaggiato un frutto che non somiglia a nessun altro e forse ti piace la novità.
Mi piacciono i gusti incerti, il più delle volte troppa chiarezza mi mette a disagio. Gaia ha calcolato che entro la sessione estiva deve aver dato almeno tre esami, per rimettersi in pari. Per riuscirci studia un’ora ogni mattina prima di andare a lezione.
Il giorno prima dell’esame di Progettazione ci ritroviamo immersi in un caos dentro cui Gaia annaspa. Le dico di non preoccuparsi, che lavoreremo tutta la notte e arriveremo in facoltà con le tavole pronte e il plastico completo.
Le dico che non servirà il pigiama, non ci sarà il tempo di dormire. Invece poco prima dell’alba, dopo aver sciacquato la colla dalle mani e in attesa che il plastico si asciughi, finiamo a letto. Gaia punta la sveglia, è inquieta e io mi sento abbandonato.
In facoltà il professore è in ritardo e i candidati sono tutti nervosi. Esco a fumare, le dico e mi infilo il giacchetto. La porta di sicurezza è spalancata verso il cortile di ingresso, siamo in tanti a fumare, tutti appiccicati al muro dove batte il sole.
Se il professore arriva lo vediamo, deve entrare da qui. Una ragazza indica all’amica la porta di accesso alla succursale. L’amica si mette a saltare sul posto per l’agitazione o per scaldarsi. Al posto del professore vedo arrivare Lisa con la cartellina da disegno.
Dice che no, non si è iscritta all’esame, è passata a vedere cosa chiede il prof. Le offro una sigaretta, questa volta la prende. Mi dimentico dell’esame e non vedo il professore entrare. Lisa dice Andrea, Andrea. Io le chiedo se è felice. Lei mi parla del viaggio che vuole fare l’estate prossima, vuole andare a nord, senza meta, non ha prenotato né i posti per dormire, né i biglietti dei treni. Vuole viaggiare zaino in spalla e sacco a pelo. È bello poter andare ovunque senza averlo previsto, sapere che un viaggio può proseguire fino a quando ne hai voglia.
Le mostro il ritratto che ho fatto di lei. Perché ho un ombelico così grande, chiede. Non si accorge di quello che manca, le gambe, le braccia, i capelli.
Gaia esce dall’aula e inizia a gridare, che cazzo fai. Un solco profondo le si forma tra le sopracciglia, le parole le escono gracchiate dalla gola. Lisa stringe al petto il mio taccuino sopra il maglione che aveva alla festa.
Sbrigati, il professore ha già iniziato, dopo tocca a noi. Gaia si avvicina, strappa il taccuino dalle mani di Lisa e mi dà uno schiaffo. Hai una bella faccia tosta a mostrarle i miei ritratti, dice. Lisa fa un passo indietro. Divento viola, tutti mi guardano, qualcuno ride e io sono incapace di reagire.
Gaia scompare nell’aula, io tengo la mano sulla guancia, più per l’imbarazzo che per il dolore. Lisa ha esaurito le parole. Ho combinato un grosso casino e scappo. Tra tutte le decisioni che potevo prendere, scelgo la peggiore. Lisa mi segue, allungo il passo e tento di distaccarla. Non sono certo di voler stare da solo, non sono certo di volere indietro il taccuino.
Vado verso le Zattere, faccio quasi metà fondamenta senza rendermene conto, procedo a testa bassa, il sole mi acceca e ho tutte le ferite esposte.
Quando l’onda sollevata dalle barche si placa appiattendosi verso la banchina, mi calmo anch’io e mi ricordo del bar. Chiedo indicazioni a due turisti, scambiandoli per gente del posto e ci impiego un po’ a ritrovare il locale. Mi siedo al tavolino fuori ma anche il sole oggi sta dalla parte sbagliata. Giro la sedia di spalle e la bauta alla parete smette di fissarmi. Ordino due tazze di tè e il cameriere chiede se sto aspettando qualcuno.
Sì, dico, lei sta tornando.
•
racconto
Chiedere cerotti ai turisti
scritto da
Barbara Antonelli