Andrea Bonomi

Andrea Bonomi nasce alla Spezia sul finire degli anni ottanta e si diploma con enorme fatica al Liceo classico. Si esibisce con le sue poesie in alcuni festival (Boss, Buk, Babel) per poi aprire le date liguri dei reading di Emidio Clementi (La ragione delle mani, Notturno americano). Collabora con gli istituti di pena della Spezia e Lucca lavorando coi detenuti alla realizzazione di uno spettacolo teatrale (Quando il dolore crea valore) e un mediometraggio (Senza porte nè finestre). Nel 2017, presso il Teatro Altrove di Genova, si laurea campione regionale di Poetry Slam L.I.P.S. e partecipa alle finali nazionali di Monza Brianza. Prende parte a Parallelamente 2018, rassegna off del Festival della Mente di Sarzana, con una lettura tratta da Edelweiss, romanzo dello scrittore Marco Ursano. È uno dei Mitilanti.

Dio delle molotov

scritto da Andrea Bonomi

Non temo niente
non spero niente
ma sono uno schiavo
i muri parlano
le parole sono coltelli in bocca
le ferite sono feritoie
le fiamme cercano spazio sull’asfalto
si fanno largo
sembrano lanterne.

Ci sentiamo colpevoli
per le cose sbagliate
per aver lottato fino all’ultimo
neanche una volta
per tornare alla pena dei nostri doveri
a chinare di nuovo il capo.

È il bisogno di vivere
a spingerci fuori.

Questo è un lamento che si canta in coro
ma si balla da soli
appartiene a tutti
ma parla a ognuno.

Dio delle molotov
tigre di vetro
fucile alla gola
pericolo di morte
i giorni dell’ira sono lontani
hanno tolto i muri ai pittori.

Dio delle molotov
sognatore a Parigi
ubriaco a Bologna
senza un soldo lontano
la rivoluzione è l’inizio della vita
e nel vivere
molto spesso s’esaurisce.

Dio delle molotov
testa di cane
figura complessa
uomo che non cede
la città brucia da sola
avvolta in coperte di fortuna.

Quel che rende Dio un Dio
è credere nell’immortalità delle azioni
e nella mortalità dell’uomo
saper riconoscere la poesia negli altri
mettere in discussione la perfezione
eseguire vendette e miracoli.

Occorre contribuire
sporcarsi le mani
diventare fantasma al rumore sinistro delle sirene
le cose rimangono impresse
e come capita l’occasione regoliamo i conti.

Parla, parla, avanti parla
chi è stato?
Non so
non ricordo
non rispondo.

Non ha colore
la voce che ti chiama.

Dio delle molotov
fuoco negli occhi
soldato di strada
espulso dal cielo
le bottiglie volano come palle di neve
profumo di benzina
e poi la fuga.

Dio delle molotov
notte di sole
luce improvvisa
tensione alle stelle
non si lancia una bomba
portando guanti di seta.

Per i fratelli caduti
l’incendio è nella testa
pensarci sempre
non parlarne mai
ci scusiamo per il disturbo
ma questa è una rivolta.
Amen.

Ascolta Dio delle molotov letta dall’autore

Il muro dei colombi

scritto da Andrea Bonomi

L’autobus blu senza numero che ci portava al paese
era così composto: un motore rumoroso,
qualche passeggero che guardava il culo a mia madre,
le prime scritte con il bianchetto
del tipo Craxi ladrone, Piero Pelù ci sei solo tu,
Federico annaffiami le ovaie.
Mia madre mi portava spesso a fare visita
a una coppia di anziani nati
sul finire dell’Ottocento.
Erano i miei trisavoli. Trisnonni
come si dice oggi.
I nonni di mio nonno materno.
Nessuno ha visto i suoi trisavoli.
Io li ho visti. Stavano seduti in una cucina
con la stufa a legna e un televisore. Pranzavo
con un piatto di pasta al pesto.
Lei si chiamava Gemma, lui Cristoforo.
Il dialogo tra noi
era una splendida sinfonia dialettale.
Il sole entrava sempre da una finestra.
Cristoforo era uno dei ragazzi del ’99.
Festeggiò i suoi diciott’anni sul campo di battaglia, a Caporetto.
Quell’uomo, che aveva combattuto contro un impero,
mi portava nelle sue piane
a togliere i lumaconi dal basilico
altrimenti di pesto non ne avrei più mangiato.
Si sa, la pelle del bimbo entra subito in contatto
con le pelle vecchia di un uomo,
di un nonno. Una specie di luccicanza.
Forse perché in parte uguali.
Forse perché il primo ha tanto da imparare
il secondo ha poco tempo per insegnare.
A un tratto, quell’uomo, non lo vidi più.
Rimasero la pasta al pesto e la Gemma
ma la sua poltrona restava vuota.
A forza di domandare che fine avesse fatto, la Gemma mi portò
da quella finestra dove entrava sempre il sole.
Mi disse: “Guarda il muro di sassi, li vedi i colombi?
Adesso Cristò è andato a stare lì con loro.
Tutte le sere, quando chiudo le persiane,
gli mando un bacio. Fai ciao con la mano”.
Cercavo il colombo che gli somigliasse di più
ma facevo molta fatica.
Per la prima volta in vita mia
ero di fronte a una persona che ci aveva lasciati
e l’idea che una volta morto
sarei diventato anch’io un animale
non mi dispiaceva affatto.
Era stupendo, accettabile.
Così andai a scuola e lo raccontai a tutti.
E dovevo essere stato molto convincente
sui bambini
perché una maestra chiamò mia madre
e le rimproverò che la mia immaginazione
era da tenere a bada.

Torno in quel paese
tanto caro a Mario Tobino e Franco Fanigliulo
una volta all’anno, per la festa del vino.
Due anni fa
sono tornato a vedere il muro di sassi
dove vivevano i colombi.
Degli uccelli nemmeno l’ombra di una piuma,
il muro era coperto dai manifesti elettorali.
Così ho preso una sbronza terrificante,
sono andato a casa
e mi sono messo a piangere.
Quella notte di Settembre ho capito
che per il resto della mia vita
sarebbero successe cose come queste.
Che la realtà non accetta la fantasia,
che le persone normali sono nemiche dell’immaginazione
e che la felicità sia molto difficile da trovare.

Ascolta Il muro dei colombi letta dall’autore