Questa mattina ho saldato l’ultima cartella di Equitalia, ho riacquistato il diritto di vivere in queste due stanze con le pareti spoglie dei miei quadri venduti, senza tappeti, senza gioielli, più bagno, orribile. Ah che fortuna, dicono, essere a posto con la coscienza e pagare, pagare tutto, pagare in sovrabbondanza: tasse che secondo il commercialista non erano da pagare e invece con la mora le devi pagare, ragazza mia, e subito, e se non puoi vendi l’appartamento e vai a vivere affanculo, non hai parenti? No. Non hai amici? No. E allora vai a vivere da nessuna parte, venditi le borse e le minchiate che hai fatto e paga, paga vecchia ciabatta, altrimenti qui ci vado di mezzo anch’io, commercialista già stimato e ancora in ascesa, astro nascente. Prima onorato di fare la contabilità a me stella morta destinata al museo del cinema, poi stanco e frettoloso, non più interessato all’antiquariato, non più bisognoso di solennità – quando io ero giovane, erano i vecchi a succhiare le gocce di sangue di rapa che intercettavano nello spazio, nelle mie carni, nei miei orari allucinanti, per acchiappare quel poco che rimaneva loro da acchiappare della vita, poi chissà come, qualcosa è cambiato, non esistono più i giovani e non esistono più i vecchi, evidentemente abbiamo, hanno, assunto l’esistenza delle stelle morte, fredde e accecanti, presenti unicamente nel tempo esistenziale stabilito dagli osservatori-giudicanti, spettatori non paganti – paga, paga, paga tutte le tue felicità brevissime, intense, commoventi per quanto banali, finestre sulla volta celeste, pagale con una costellazione di malattie; e non ritrovo più oggetti persi, forse rubati, perché quante volte non ho prestato attenzione a quel che facevo, ero proprietaria di così tanto che non lo ero di niente, tanto meno di me – e cosa vendo? Cose sotto falso nome – e basta e basta, potrò una volta lavare con imperizia un piatto, io che per vezzo non ho mai voluto la lavastoviglie – sarebbe stato come dichiarare cucina una stanza con gli attacchi per l’acqua e il gas – lavare male un piatto come se non fosse mio – non voglio niente! – e io fossi la domestica che le altre hanno, avevano – chi le sente più? – a tempo pieno, perché nella vita sono state più furbe, oculate, si dice, osservatrici a lunga gittata, e io no, cieca e morta, non ho mai voluto nessuno tra i piedi in casa, anche se stavo pochissimo in casa e se non uscivo era perché non ero in grado di scendere dal letto, figurarsi di sostenere le cure svogliate e vendicative di una colf disposta a raccontare tutto ai giornalisti (le bacinelle per non sporcare i tappeti di seta, le lenzuola da nascondere nel buco alluvionabile della lavatrice, non avevo le forze per credere che a un certo punto avrei smesso di essere morta e luminosa – star – e sarei tornata viva e buia e in questa condizione sarei durata a lungo, così a lungo, senza nessuno e vicina a tutti, tornata sulla Terra, dove persisto viva, Cristo, ancora); perché sapevo il gusto masturbatorio che mi avrebbe dato la vergogna, un solletichìo alle parti basse, prerogativa esclusiva degli amanti, proprietà loro. Io non volevo niente, davo tutto e avevo tutto, quel che era giusto era giusto, ero morta, dare a Cesare quel che è eccetera eccetera e non solo a Cesare e non solo di Cesare. No, no, vecchia ragazza mia, il piatto ti scivola e si rompe e tu raccoglierai ogni singolo coccio, perché è tuo, tuo, brutta sozzona, e sei viva con il mal di schiena e la nausea che non ti abbandonano più e paga paga paga, così forse sarai ammessa tra i vivi spenti, tu ex morta luminosa, ora pietra esposta ai quattro venti.
Non mi libero di niente.
Oggi, come ogni giovedì pomeriggio, quel comodino che è la mia estetista verrà e io le aprirò la porta e affonderò sul divano, sul divano rovinato dal gatto che è nato vivo e morto morto e lei, accovacciata su uno sgabellino pieghevole, rasperà, taglierà, idraterà, smalterà, strapperà, sistemerà la mia superficie, quel che solo è possibile mostrare, quel che solo si rende evidente. Ho perso anche il gatto, bene. Eppure vivo ancora. Ho pagato tutto, eppure sono inesauribile. Raspa, raspa, raspa!
La mia vanità, la mia salvezza, il vano che separa l’evento tragico dal racconto dell’evento tragico, l’intercapedine che mi salva dalla punizione, non morale – cosa me ne importa – ma fisica; i confini li voglio, gli spigoli no, e guardarmi allo specchio è il mio centro, sono il mio pubblico e il mio pubblico è esigente e allo specchio mi ripeto morta e luminosa e questo è sufficiente. Accetto tutto, ho accettato ogni cosa; quel che non accetto più è il dolore fisico. Sono un animale, o una bambina, il Male è al di là della mia comprensione, continuo a non prendermi sul serio come essere vivo, perciò non posso soffrire in eccesso, è un tipo di vanità intellettuale che per fortuna mi è risparmiato in quanto stupida.
Oh, i fatti sono molto semplici. Li posso elencare prima che arrivi la Carla. Ormai vecchia anche lei, la Carla, però ostinata, continua a piegarsi su questi piedi e su queste mani, la figlia vorrebbe che l’aiutasse, che facesse la nonna, e lei se ne guarda bene e io a volte la chiamo anche il martedì, o il venerdì e la salvo. Di rimando lei mi ascolta, mi chiede di raccontarle di quando ero famosa. Ero. Che le ripeta di quella volta là che mi avevano fotografato con il Principe, no Carla, era un Ambasciatore sudamericano, sposato, e fu uno scandalo, un magnifico scandalo, per questo te lo ricordi come un Principe, e vuole sapere se è vero che X era violento. E Y? Com’era nell’intimità? Ed è vero che mentre giravo quel film là, a un certo punto è arrivata la moglie di Z e ci ha beccati nella roulotte del trucco? Ne avevano parlato i giornali. Ah Carla, maialona.
Le malattie veneree mi hanno trasmesso gli X e gli Y, ecco com’erano nell’intimità: malati. E io innamorata, li ho voluti interi e interamente in me; ho sempre amato gli uomini, la sensualità degli uomini, il loro inscalfibile egoismo in cui finalmente abbandonarmi, dimenticarmi, e interi li volevo, loro un pezzo alla volta mi volevano, come i vivi mangiano le bestie, affettandole – l’Elena famosa, l’Elena desiderata, l’Elena eccentrica, l’Elena del culo entrato nella storia del cinema, l’Elena delle labbra e l’Elena dei capelli, l’Elena della prova d’autore e l’Elena della commedia disimpegnata – mai l’Elena morta che ero e che marcescente intera, interi li succhiava, come solo può desiderare una morta, che non ha fame, ma sete, bruciata come è dalla luce – dai gas – che emana, e intanto in me le piaghe aumentavano, il tumore nasceva e si espandeva, le infiammazioni mi squamavano e il fegato cambiava forma e io mi sviluppavo come un feto, per farmi mio malgrado trovare viva e buia su infiniti letti operatori.
I fatti, oh, così semplici. Attieniti ai fatti!, mi diceva S., o forse era M.? Chi li vuole i fatti? Per farne cosa, poi? Come dividere un fatto da un altro, da me, dalla sua proiezione, dal modo in cui è messo in scena? Chi ci riesce mente, anzi non si cura di nulla.
Io non stavo mai bene e neppure stavo male, una condizione di normalità, di abitudine. Non digerivo, non avevo fame, però mangiavo e infine eruttando, ciondolando dal sonno, dando retta a chi tirava in ballo la psicosomatica, buttandomi su un divano in attesa che passassero gli spasmi, chiedendo all’amante di turno, a un fonico, a un aiuto regista, di leggermi Rabelais – le pagine sul nettaculo – per distrarmi dalle ortiche – poi estirpate – che mi ulceravano le viscere, digerivo. È incredibile come si trovi sempre un uomo disposto a leggere il nettaculo a una donna. Che sollievo per l’uomo e per la donna, dal fare e dal dire, dalla seduzione, poetica eterea che conduce fuori dai sensi, svenimento, divertiti come due adolescenti eccitati dagli elenchi volgari, dalle esagerazioni. E il primo tumoretto? Piccolino, operabile, trattabile, preso in tempo? Non proprio scoperto per caso, anticipato da segni che indicavano l’incontestabile fatto che avevo e non avevo amato. Quante volte S., uomo di scienza, mi aveva spiegato la storia di quel povero gatto, dopo che ci eravamo amati e non amati.
Bastino questi nell’elenco dei fatti, insieme di giorni: se belli, se brutti, restano tutti addosso indistintamente, come i funghi sulla pelle e i batteri nell’intestino, contribuendo al raggiungimento della consapevolezza di essere – Cristo – in vita e avviati allo spegnimento. Per ogni ricovero, almeno un pigiama di seta, una vestaglia e il telefono spento per non essere raggiunta dagli avvocati, di volta in volta più numerosi, i miei e quelli degli altri, dagli amanti, tutti ex amanti, quelli contro di me e quelli – peggiori – con me, a imporre soluzioni, a impartire ordini di coraggio e lucidità, modo efficacissimo per affettarmi un’altra volta – l’Elena bisognosa – e poi finalmente, Dio pietoso, neomamma, il viso dell’anestesista, su di me.
Tra un quarto d’ora arriva la Carla. Che più tardi possa imbambolarmi davanti allo specchio senza inorridire, dando ragione a chi mi ha desiderata – nulla è più doloroso che scoprire di non avere avuto meriti nella fortuna, nell’amore (sinonimi) – che possa ruotare un polso e vedere una mano curata, che possa lavare la pentola della minestra – dietetica – sorretta dai miei piedi lisci nell’unico paio di sandali Chanel che non ho venduto – consumatissimi, non ne avrei ricavato molto. Sono riuscita ad arginare la povertà grazie alla ricchezza. I visoni, che prima facevano fare bella figura a chiunque, soprattutto alle più brutte, ora fanno fare brutta figura a tutte, specialmente alle più belle, e allora li indosso in casa e contribuisco al risparmio energetico, vivendo al buio e senza riscaldamento, che tanto non potrei e non vorrei pagare, in quanto necessario. Ho evitato la spogliazione completa – prima un organo, poi varie porzioni di tessuti, poi i capelli, poi un altro organo, infine e per sempre la bellezza della nudità – siamo costituiti di superfluo, questo siamo – grazie alla sensualità, che è un tenersi insieme, un ricordarsi di tutto, raccontandolo. La Carla ride, di me, dei miei uomini, della mia caduta, e non è mai cattiva, non gode della mia rovina, dell’aver dissipato, perso ogni cosa, lei – dice sempre – ama la vita in tutte le sue forme, basta che siano interessanti – polvere di stelle. Non sopporta le signore religiose – e sono sempre di più, è dilagata un’epidemia – sono pettegole, pettegole perfino di Gesù e della Madonna, glieli raccontano e spiegano, ma non le dicono se davvero sono esistiti, perché non lo sanno, e dovrebbero invece essere esistiti veramente, per essere secondo lei interessanti. Io invece sono pettegola solo di me stessa e voglio farla divertire, le racconto dei miei viaggi. Oggi quasi quasi le racconterò di Tahiti: per lei la quarta parete non si è mai sfondata, né mai dovrà. E non sopporta le signore che le raccontano le loro vite noiose come se fossero importanti, uniche. Dice che per quello ha già la vicina, ha già lei la sera in cucina, le cognate, e niente è mai tragico per davvero. Vuole vita esistente e interessante: dice che le due cose sono difficilissime da trovare insieme. Vuole la catarsi, la Carla.
È arrivata, le apro.
La Carla dopo la seconda passata di smalto sui piedi mi ha detto: Ho una sorpresa per te e ha cacciato una mano in tasca. Ne ha tirato fuori un uovo, un uovo che lei aveva tenuto nascosto e protetto per tutto il tempo in cui eravamo a Tahiti, mentre le raccontavo che nel resort era scoppiata una rissa tra argentini e brasiliani e T., che era con me, mi aveva di nuovo lasciato da sola per cercare il paese che definiva autentico e trovava solo nelle sue fantasie da colonizzatore colto, come se una rissa, io ubriaca a bordo piscina e nel capanno dei campi da tennis con l’istruttore non fossimo autentici. Un buona sincronicità: l’istruttore eiaculava, lei passava la lima e la pietra pomice. Ma Carla, le ho detto, lo sai che non posso mangiare le uova, il mio fegato è moribondo, tutto è moribondo qui dentro. Lei ha risposto che si poteva anche non mangiare, l’uovo; siccome l’aveva rubato, me lo regalava. Ah, delinquente! Ruba la Carla, lo so, me l’ha detto, nelle case delle altre, da me non c’è più niente da rubare, niente che le piaccia, le piaccio io e quello che racconto, mi deruba così. Nelle case delle altre prende piccole cose che trova lì per lì, un soprammobilino, un tappo, una pinza per capelli. Le è rimasto questo piacere dagli anni del collegio, che non era un collegio. Non era un’orfana, ma viveva tra le orfane. Si rubavano le cose, le une alle altre, avevano cominciato con lei, che aveva una famiglia, una cosa grande che le altre non avevano, e lei aveva risposto facendo altrettanto, per dimostrare che era uguale a loro, che voleva essere come loro. Seguivano orribili punizioni da parte delle derubate o delle suore, e non si poteva dire chi fosse più felice in quel fatto ininterrotto che era la vita del collegio, se chi dava le punizioni o chi le prendeva. La Carla ruba come si preme un tasto, per vedere se serve a qualcosa, perché non è possibile che una cosa stia lì e basta, come una bambina che nessuno vuole.
L’uovo della Papessa, come chiama la derubata, le è piaciuto così tanto che l’ha preso. Portato dalla campagna da un cugino per la Papessa, tirato a lucido per timore dei batteri, abbandonato a poca distanza da altre undici uova, altrettanto disinfettate, sul marmo nero della cucina. Così bianco e ovale, coricato, in fuga, gli era apparso mentre prendeva un bicchiere d’acqua per la signora immobilizzata dallo smalto fresco sulle unghie e, sollevandosi in punta di piedi, l’aveva fatto scivolare in tasca, con la complicità dello stesso uovo, sostiene.
Questa bellezza di uovo non meritava di stare là, ha detto. E noi, sentiamo, cosa possiamo offrire di più a questa bellezza di uovo? Il fatto di non meritarla, ha risposto la Carla, intelligente.
Guardiamo l’uovo che lei tiene sul piedistallo delle sue dita. È così bello che vorrei afferrarlo e stringerlo e romperlo, mangiarlo con i polpastrelli. Le dico di cuocerlo, subito, non resisto. Le dico di cuocerlo e di mangiarlo. Lo friggo? Ma sei pazza? Così si rovina, muore. Aspetta, ti do una ricetta. La ricetta dell’oeuf d’amour. Capisci il francese? No. Non importa, questo tipo di francese si capisce. Me l’aveva scritta B., il pittore, perché continuassi a prepararlo sempre dopo l’amore, come lo faceva lui a me, dopo aver io posato e lui dipinto, anche quando non sarebbe stato con lui, l’amore, e l’amore con lui non è mai stato, era di più. In francese, per scrivermi un segreto. E il segreto era che con lui non brillavo come brillano le stelle morte, ma come il pulcino immobile nell’uovo, sorpreso in controluce, illuminato da dentro, al di qua della vita, prima che rompa il guscio e si avvii alla morte, la vita madre di se stessa, eterna. Eccola, la uso come segnalibro, come promemoria, l’uovo-stella, il ricordo che non può né vivere né morire. Leggi:
Recette de l’œuf d’amour. Pour 2 personnes:
2 œufs extra-frais
Fais bouillir une casserole d’eau. Mets délicatement les œufs dans la casserole et compte 3 minutes de cuisson.
Ne m’oublie pas.
Ma è l’uovo alla coque!
Sì, quando l’uovo è da solo. Avanti, cuoci questo, intanto io penso all’altro.