La prima volta che è successo non la smettevi più di passare lo straccio per terra, sembravi diventata sorda ai richiami di tua figlia e ripetevi con ostinazione meccanica il gesto antico, avanti e indietro sulle mattonelle del soggiorno già lucide. Alla fine ti ha strappato lo spazzolone dalle mani e ti ha guardata negli occhi comprendendo che qualcosa non andava, che non eri tu. Era una crisi più profonda del solito, non una di quelle che eri abituata a combattere con le caramelle che portavi sempre nel borsellino, o di quelle che sapevi ormai anticipare con una variazione nel dosaggio delle piccole iniezioni ripetute giorno dopo giorno. Non l’avevi sentita arrivare; nemmeno tu avevi riconosciuto l’attacco repentino della bestia che giorno per giorno ti divorava.
Quel giorno l’hai scampata bella e poi ci abbiamo riso insieme, tutte e tre le generazioni di femmine sotto lo stesso tetto per una visita di un mesetto, come si usava un tempo. Passata la crisi hai ripreso a essere quella a cui mia madre chiedeva consigli, che strano, mia madre sapeva tutto, lei; ogni domanda che le ponevo aveva sempre una risposta, eppure in quei giorni mia madre mi appariva figlia per la prima volta, ed era magnifico, dico davvero. Gli anni che avevamo vissuto lontano da te avevano assunto un abito di normalità ai miei occhi, tu eri stata semplicemente fuori dalle nostre vite; per me eri diventata come un accessorio remoto, di cui mia madre non dovesse sentire alcuna mancanza.
Invece in quel mese in cui tu hai vissuto a casa nostra, tua figlia cucinava con te ed eri tu a guidarla tra le ricette della nostra tradizione, lei aveva di nuovo una madre a cui chiedere se quella ricetta complicata si facesse davvero così, o se avesse dimenticato qualcosa, complice il fatto che nel luogo straniero dove avevamo vissuto in quei quattro anni, gli ingredienti disponibili erano necessariamente un’approssimazione. Osservavo tua figlia in quei giorni e potevo percepire una sorta di sollievo quando tu le davi le risposte che cercava, le compariva una nuova dolcezza sul viso; adesso so che è così quando si torna a casa. Ti davi completamente a lei, esattamente come lei faceva con noi, che strano, io non ero abituata a vedervi insieme, ero troppo piccola l’ultima volta che era successo. Quel mese arrotondò una presenza fatta solo di lettere e mi rivelò una nuova collocazione nel mondo per te, tua figlia e me stessa. Fu un po’ come rimettere i giocattoli a posto, ciascuno sul proprio scaffale.
Due volte al giorno nella tua camera da letto appoggiavi il contenitore d’alluminio sul comò di radica, estraevi la piccola siringa di vetro blu bollita in precedenza, poi infilavi il piccolo ago nella fiala con la scritta Eli-Lilly in un bel corsivo, aspiravi, toglievi l’aria, ti sedevi sul bordo del letto, e infine ti pizzicavi la pelle delle cosce alternando destra e sinistra. Poteva risultare dolorosa, oppure passavi indenne per quell’obbligo. Non mi perdevo mai il rituale dell’iniezione, e quando non ti faceva troppo male ne ero contenta perché avevo tifato in silenzio per te mentre ti aiutavo con il cotone e l’alcool, dopo essere saltata sul tuo letto per guardare da vicino.
Dopo anni di stagioni teatrali e abiti da sera, adesso eri una vedova come tante, avevi degli inguardabili capelli bianchi, una manicure approssimata, gli occhiali bifocali, e le nevriti non ti davano tregua. Eppure le tue storie di Girgenti, e di alcuni suoi abitanti stralunati e originali al limite della farsa, o del tuo vicino di casa che si chiamava Luigi e ti aveva tenuta in braccio da piccola e scriveva di teatro e di vita, erano imbattibili. Lo era pure la tua arte vecchia di secoli in cucina, dove si mischiavano termini derivati da almeno tre lingue ancora riconoscibili così come si amalgamavano ingredienti e aromi. Tra le meraviglie della tua cucina c’erano forme di gesso da riempire o di bambù attorno cui avvolgere i dolci consolidati tra il giallo del grano e del sole e nei giardini ombrosi tra veli di monache e mani nodose, sedimentati tra ciotole sbeccate di ceramica e chiacchiere di donne, mai nei cortili perché non sta bene. Poi c’erano le tue storie sulla guerra e gli schiaffoni che avevi dato alle tue figlie quando piangevano per la fame. Forse anche per questo ci viziavi in cucina: per chiedere perdono di colpe che non avevi.
Tua figlia era entrata chiudendosi la porta della nostra stanza dietro le spalle con quella sua postura un po’ rigida che preannunciava casini.
«Cosa avete fatto credere alla nonna?» Fissava intensamente mia sorella maggiore.
«Dai era uno scherzo! Mica ci avrà creduto, no?» Mia sorella era combattiva, la difesa prometteva bene.
«Sì, era uno scherzo!» Ero intervenuta in aiuto della squadra e tua figlia mi puntò contro due occhi a fessura, tornando subito a concentrarsi su mia sorella.
«Di chi è stata la brillante idea di dirle che ti droghi, eh? Si dà il caso che ci abbia creduto eccome! È terrorizzata e ci ho messo un’ora a convincerla che siete due cretine!»
Lei non usava mai parolacce, figurarsi poi se rivolte a noi; per me era impossibile non ridacchiare per lo scherzo riuscito. Avevo guardato mia sorella, ma lei non sembrava più divertita, aveva assunto di colpo un’espressione seria, da grande, come succedeva spesso quando iniziavamo una qualche follia insieme, ma lei sapeva sempre quando fermarsi, quando diventare la sorella maggiore, esasperandomi, chissà quante volte mi ha salvato la vita senza che me ne accorgessi. Poi, rivolta a tua figlia, aveva aggiunto «Allora secondo te si è sentita male per questo…» ma il punto di domanda alla fine non c’era, restava solo una linea retta che congiungeva una causa con un effetto. Quel giorno sono diventata un mostro, ecco, e avevo solo undici anni, non era giusto, solo questo volevo dire, era uno scherzo.
«Non lo so, non lo so.» Tua figlia aveva posato la mano sulla maniglia per riaprire la porta, esitando. «Andate immediatamente a chiederle scusa, appena si sentirà meglio».
Quella volta lì non sono diventata davvero un mostro, sono diventata una tua fan per sempre. Negli anni ci abbiamo riso su, di come ci eri cascata, del fatto che mia sorella non si è mai accesa una sigaretta in vita sua, e di come ero stata candida nel fartelo credere, di come il potere dell’amore ci può tradire o ci può salvare. Più tardi, è stato quel giorno che tu mi hai detto: «Quando verrai a trovarmi prendi dalla mia libreria un libro che si intitola “Il buio oltre la siepe”, scommetto che ti piacerà».
In un attimo ho compiuto diciotto anni e tua figlia mi ha chiesto di passare qualche giorno da te subito prima di Natale. Era l’anno della maturità, ma l’impegno vero iniziava dopo le feste, quindi arrivai con la corriera nella frazione dove abitavi, in un appartamento al primo piano. Mentre salivo le scale mi ha pervaso un odore fortissimo e dolciastro, come di zucchero filato. Sei comparsa sulla porta con gli occhiali calati e il grembiule spiegazzato, il collo un po’ più avanti rispetto alla linea delle spalle di come lo ricordavo l’ultima volta che ti avevo vista, mesi prima.
«Vieni subito in cucina che sennò si brucia tutto!» E sei sparita nel tinello da cui proveniva l’odore di zucchero cotto. Io mi sono presa tutto il tempo necessario per entrare a casa tua, per abituarmi alla vista della tua mano deformata sulla porta d’ingresso, ai tuoi capelli giallastri sul mio viso mentre mi baciavi in fretta, e, togliendomi il cappotto e la sciarpa, mi sono guardata attorno per avere la conferma che niente fosse cambiato, come sentivo di avere il diritto di attendermi; sono andata a lavarmi le mani; ho toccato i dorsi dei libri nella libreria in corridoio; dal soggiorno mi arrivava la luce dell’albero addobbato; sono tornata lentamente nella tua cucina illuminata a giorno; mi sono seduta di fronte a te a guardarti lavorare, prima di decidermi a darti una mano.
«È importante che sia tutto pronto per i prossimi giorni, quando arriveranno i tuoi» mi hai sorriso al di sopra dei bifocali e poi mi hai guardato senza vedermi, attonita, mentre continuavi a macinare le mandorle nel tritacarne di ghisa fissato al tavolo con il cartoncino nel morsetto, ferma sulle gambe un po’ divaricate.
«Nonna?»
Ti ho fatta sedere a forza e ti ho dato un cucchiaino pieno di zucchero. Ero sicura che tu non avessi toccato niente che non dovessi, nessun veleno tra quelli di cui ti eri circondata, perché non lo facevi mai. Tritare le mandorle a mano era una fatica eccessiva per te, ma necessaria per fare la pasta reale con cui avresti poi farcito i datteri e le prugne.
Dopo un po’ hai sollevato la testa e hai detto «Sono stanca.»
«Ti accompagno io, vieni a riposarti, hai lavorato troppo e ti sei scordata l’iniezione o non hai mangiato?»
Non hai risposto e ti sei sdraiata nel letto vuoto in una posa che ti fatto apparire piccola piccola.
Mi sono seduta nella penombra che arrivava veloce nella tua stanza; mi sono guardata attorno: le campane di vetro con gli altarini illuminati erano sempre lì, sulle loro mensole dorate, le statue antiche vestite di tutto punto: le avrei volute fracassare per la loro inutilità. Sono tornata in cucina, ho riacceso il fuoco sotto al croccante che avevi lasciato indietro, ho unto il tagliere di marmo e quando l’ammasso di zucchero fuso e mandorle bianche ha raggiunto il colore giusto ce l’ho versato sopra, caldo, dolcissimo e scomposto; poi con il mezzo limone l’ho pareggiato e l’ho reso presentabile, come mi avevi insegnato tu, in attesa che si freddasse.