Carne bovina (trita di manzo, macinata grossa e mista) 300 g
Pancetta 150 g
Carote 50 g
Sedano 50 g
Cipolle dorate 50 g
Vino rosso 100 g
Passata di pomodoro 300 g
Brodo vegetale q.b.
Olio extravergine d’oliva 1 cucchiaio
Sale fino q.b.
Pepe nero q.b.
Burro 70 g
Farina 00 70 g
Latte intero 1 l
Sale fino q.b.
Noce moscata q.b.
Aveva tentato il suicidio, ma senza una vera convinzione, era più una richiesta di attenzioni. Aveva aspettato che una di noi rientrasse dal lavoro per ingerire le pillole. Aspettava me, in realtà, perché delle coinquiline non si interessava granché. Talvolta si dimenticava che abitassero il nostro stesso appartamento e allora si spaventava incontrandole per il corridoio o in cucina.
«Chi è quella?» mi chiedeva.
«Titì, è Annette. Vive qui con la sorella da un anno e mezzo» le rispondevo.
Se ne andava pensierosa, disperdendo i suoi dubbi tre passi dopo, come fossero una boccata di sigaretta.
Gli psicofarmaci rubati al padre ci misero molto a fare effetto. Troppo perché ci preoccupassimo. Aveva vomitato oltre la portafinestra, perché non voleva fossimo costrette a pulire il bagno al suo posto. Avevamo dovuto pulire il terrazzo. Pezzi di cibo e capsule non sciolte scivolavano nella cascata d’acqua e detersivo, da un piano all’altro fino in strada, sul tendone aperto di uno Spätkauf.
A maggio le coinquiline erano tornate ad Amburgo per una settimana. Avevo organizzato una cena perché lei ricominciasse a frequentare qualcuno e riprendesse colore. Così mi aveva detto di voler fare, sotto consiglio della psichiatra, che lei chiamava mamma di nascosto, perché una mamma vera non l’aveva mai avuta.
Le avevo detto
«Una psicologa non può essere una mamma, Titì.»
Lei aveva voltato la testa dall’altra parte, cercando di non intercettare alcuno sguardo umano. Odiava che qualcuno mettesse in dubbio le sue convinzioni.
Brig sarebbe venuta alla cena insieme a un paio di ragazzi conosciuti una sera all’Arkaoda. Non sapevo chi fossero, forse erano spacciatori oppure figli di pizzaioli oppure lavoravano da Zalando.
Io, Titì e Brig ci conoscevamo dalla Grundschule italo-tedesca, alfabetizzazione in tedesco. Avevamo anche lavorato insieme come cameriere in una birreria nei pressi di Mariannenplatz. Titì diceva, io e te siamo tedesche, non abbiamo niente di italiano, solo i genitori. Io le rispondevo
«I nostri tratti somatici sono italiani.»
Lei era bionda, le ciocche tinte di azzurro, bassa di statura, le gambe forti, gli zigomi dolci e grossi occhi scuri. Io ero olivastra, i capelli neri-neri, il seno florido che durante la preadolescenza non ho saputo accettare.
«I tratti somatici non determinano una nazionalità.»
«Lo so, Titì. Lo so.»
Avevo chiesto se, nel pomeriggio, le andasse di aiutarmi a cucinare le lasagne. Non sembrava entusiasta, ma aveva accettato. Ci mise molto a uscire dalla sua camera e quando lo fece era in pigiama. Aprendo la porta vidi solo buio, un angolo di letto sfatto. Le lenzuola svenute.
Le avevo chiesto: «Tutto bene?»
«Credo di aver cambiato idea.»
«Quale idea?»
«Non ho più voglia di questa cena.»
Mi guardava come se aspettasse il permesso per tornare in camera sua ad impiccarsi.
Le avevo detto «Dai, vieni che mi aiuti.»
«Cosa dobbiamo fare?»
«Innanzitutto preparare il ragù.»
«E la besciamella?»
«Mentre il ragù è sul fornello.»
Titì si era avvicinata, trascinando i piedi e la coda. Gliel’avevo tirata quando mi era passata accanto diretta al piano cottura e lei mi aveva sgridato, davvero poco convinta.
«Attenta, si stacca.»
Mi divertiva osservarla scondinzolare una coda di volpe cucita sul retro del pigiama.
Le avevo chiesto se volesse ascoltare della musica mentre cucinavamo insieme. Non aveva risposto, aveva passato un dito sul panetto di burro aperto, raccogliendone un poco sotto l’unghia, che aveva portato alle labbra in un gesto che forse voleva essere sensuale, ma che era risultato impietoso. Nei confronti del burro, ovviamente.
Avevo abbandonato l’idea della musica battendo le mani tra loro, una sola volta, dicendo
«Bene! cominciamo.»
Titì mi aveva chiesto di sminuzzare la pancetta.
«Posso prendermene cura io?»
Le avevo messo tra le mani la mezzaluna e lei l’aveva osservata mentre dondolava sulla pancetta. Come ipnotizzata. C’era qualcosa di retorico in quel gesto.
Io mi ero presa cura del trito di carote, sedano e cipolle.
Mentre la pancetta rosolava nel filo d’olio, lei aveva detto che probabilmente avrebbe dovuto trasferirsi al mare. Le avevo chiesto in quale mare, senza dare peso a quel avrebbe dovuto.
«Uno caldo.»
«Tipo in Italia?»
«Non so.» Sapevo che suo padre era italiano e sua madre tedesca, ma non ricordavo precisamente da dove venissero. Aveva risposto che papà era sardo e mamma di Lipsia.
«Sei sardolipsina» avevo sorriso mentre aggiungevo il trito di verdure. Non mi aveva dato attenzione. Titì non guarda mai nessuno. Forse nemmeno ragiona sulle risposte che la gente le dà. Potrei rispondere a una sua domanda sul come sto – come stai? Stai bene, sì? – con prisencolinensinainciusol, e per lei sarebbe uguale. Non le importa davvero cosa provano le persone, le importa solo di se stessa, però quando sta davvero male, cerca aiuto con gesti plateali.
L’estate di tre anni prima eravamo a un party open air dalle parti di Rummelsburg. Ricordo che avevamo portato con noi dei costumi da bagno, ma non avevamo fatto il bagno nel lago. Lei aveva indossato occhiali da sole da quando eravamo uscite di casa a quando avevamo lasciato la festa, a notte fonda. Non c’erano più bus per tornare e allora ci eravamo avviate a piedi verso la S-Bahn più vicina. Non eravamo ubriache e non ci eravamo drogate, ma Titì fingeva di barcollare. Le avevo chiesto a cosa fosse dovuto, se alla stanchezza o a cosa. Lei aveva risposto che forse qualcuno le aveva offerto un cocktail con della ketamina. Le avevo suggerito di togliere gli occhiali, forse non era un’ottima idea indossarli nel buio quasi completo della sterrata che avevamo davanti. Un gruppo di ragazzi spagnoli si era avvicinato, coprendo la distanza che ci separava producendo rutti e risate sguaiate. Quando erano a pochi passi da noi e già cominciavano a farci domande, Titì era caduta a terra, come svenuta. Gli spagnoli si erano bloccati, seppure qualche risatina continuavano a permettersela. Io mi ero chinata e le avevo preso la testa tra le mani, cercando di riportarla indietro, anche se non era mai andata da nessuna parte. ¿Que pasò? Aveva chiesto uno degli spagnoli e lei aveva aperto gli occhi, aveva allungato una mano verso di lui e gli aveva afferrato un polso. Si era fatta portare in braccio fino alla S-Bahn, reggendosi al collo del ragazzo come una scimmia regina, ravvivandosi i capelli quando le andavano davanti agli occhi.
La passata, insieme alla trita, deve cuocere almeno due ore a fuoco lento.
«Se mai stata in Sardegna? Non ricordo se te l’ho mai chiesto.»
«Secondo te?»
«Non è scontato. Io al paese di mia madre non ci sono mai andata.»
«Sono stata in Sardegna molte volte quando ero bambina. Non ci torniamo da anni. Non c’è più nessuno. Potrei esserci io.»
Aveva portato il pollice alla bocca e si era morsa l’unghia. Ne era uscita un’onomatopea ruvida, fastidiosa.
Aveva detto: «La besciamella puoi farla da sola, se ti va. Io ti do le indicazioni se non ti ricordi qualche passaggio.»
So che le piace farla, anche se non ho mai capito il perché.
Dopo aver scaldato il latte, le avevo passato il pentolino.
«L’hai fatto bollire?» mi aveva chiesto.
«No.»
«Bene. Non deve bollire.»
Anche il burro, in un altro tegame, era pronto. Aveva aggiunto la farina, lentamente, ma tutta in una volta sola. Con uno sbattiuova aveva amalgamato, stringeva la mascella mentre faceva vibrare l’utensile, cercando di far esplodere i grumi di farina che si formavano. Avevo versato poi il latte caldo, mentre Titì continuava a mescolare, aggiunto il sale e poi la noce moscata, che aveva grattato con foga. Sarebbe stato banale se si fosse raschiata un polpastrello. Non era accaduto.
Dopo aver coperto la ciotola con della pellicola, aveva detto
«La besciamella è pronta» e si era allontanata, sedendosi sul tavolo aveva sbloccato il cellulare. Le gambe dondolavano. I piedi nudi.
Guardando lo schermo aveva riso spalancando la bocca e gettando la testa all’indietro. Nello stesso momento qualcuno aveva citofonato. Lei, tornando cupa, aveva guardato verso il corridoio.
«Dev’essere arrivata Brig» avevo detto.
«Ma non ce l’ha una vita?» ed era saltata sul pavimento, correndo poi a chiudersi nella sua camera, ancora buia, le lenzuola accasciate.
«Che odorino!»
Brig abbracciava una confezione di Urquell. Avevo indicato il frigorifero. L’aveva aperto e sfilando le birre dalla confezione, le aveva impilate nel cassetto più alto.
«Dov’è Cenerentola?» aveva chiesto sorridendo e avvicinandosi alla teglia che avevo già imburrato.
«Ha preparato lei la besciamella. Poi si è chiusa in camera sua.»
Brig si era allontanata. Avevo sentito le nocche bussare senza ricevere risposta.
Era tornata.
«È ancora nella fase voglio morire?»
«È nella sua fase» le avevo detto mentre spargevo, sul fondo della teglia, il primo strato di besciamella e ragù.
Mentre accumulavo strati di ragù e besciamella a strati di sfoglie di pasta già pronte, Brig mi raccontava quello che aveva fatto il giorno prima, com’era stato incontrare per la prima volta il manager che fino a quel momento non aveva ancora conosciuto, non dal vivo. Le gambe che le tremavano. Dal suo racconto immaginavo la scena di lei davanti a un gigante, i denti perfetti e il doppiopetto, che le parlava attraverso la finestra dell’ufficio al quarto piano perché era troppo alto e grosso per poter entrare nell’edificio.
«Come ha i capelli?» le avevo chiesto interrompendola.
«I capelli?»
«Sì, come sono i capelli del manager.»
«Castani.»
«Sì, ma come sono pettinati? Sono corti?»
«Sono dei capelli normali.»
«Pettinati?»
«Un manager non può non essere pettinato.»
«E puliti?»
«Non lo so. Sì, sembravano puliti.»
«Ok.»
Senza capire l’associazione mentale, avevo ricordato quando Titì aveva cercato di convincermi che il maestro di matematica alla Grundschule portasse il toupet.
Mi aveva detto che poteva darmene la prova e una mattina gli si era avvicinata mentre leggeva da un quaderno e gli aveva infilato le dita tra i capelli. Lui era rimasto molto sorpreso e aveva compiuto un gesto innaturale: quasi era caduto dalla sedia, rovinando sulla cattedra. L’aveva ammonita di tornare al posto e di comportarsi bene. Si era avvicinata al mio banco e aveva detto:
«Non è un parrucchino.»
Nel tardo pomeriggio avevo infilato in forno la teglia di lasagne. In cucina faceva caldo. Le finestre erano spalancate. Dall’Hinterhof era arrivato il rumore di bottiglie vuote che venivano gettate nel contenitore apposito. Poi qualcuno aveva tolto la catena a una bicicletta legata da qualche parte e poi solo l’urlo di qualche cornacchia.
Titì era uscita dalla sua stanza, aveva raccolto i capelli in due code ai lati della nuca e si era truccata. Al buio.
Indossava una canottiera di CoreTex Kreuzberg con impresso sul petto il muso di una pantera ringhiante. Brig le si era gettata al collo, abbracciandola. Lei aveva lasciato le mani penzoloni lungo i fianchi e si era lasciata cingere.
«I miei amici dovrebbero arrivare a momenti.»
«Quali amici?» aveva chiesto Titì.
«Sono simpatici.»
Titì mi aveva guardato e poi imbronciata si era seduta al tavolo che io e Brig avevamo già preparato per la cena. Aveva infilato una mano nella ciotola di patatine confezionate e le aveva portate alla bocca.
«Queste mi piacciono» aveva detto.
«Ve l’ho mai raccontato che ho sofferto di anoressia?»
Brig mi aveva guardato come un attimo prima ero stata guardata da Titì.
«Ti conosciamo da quando hai sei anni. Non mi sei mai sembrata una che ha sofferto di anoressia.»
«Mangiavo di tutto, mi abbuffavo e poi correvo in bagno a vomitare.»
«Credo che quella si chiami bulimia.»
«Potrei ingozzarmi delle tue lasagne e poi correre a vomitarle.»
«Non sono le mie lasagne. Sono le nostre lasagne.»
«Di mio non ho niente.»
Brig aveva sbuffato ed era andata alla finestra, si era seduta sul davanzale accendendosi una sigaretta. Soffiando fuori il fumo si era messa a urlare, aveva sventolato la mano richiamando l’attenzione di qualcuno.
«Hey! Cosa ci fate nell’Hinterhof?» aveva urlato. «Dovete prendere la tromba delle scale e salire all’ultimo.»
Poi si era voltata verso di me e aveva detto «Dicono che hanno citofonato, ma non gli ha aperto nessuno.»
Uno dei due ragazzi era turco.
«Assomigli a quel calciatore» gli avevo detto.
Lui si era voltato verso l’amico e avevano sorriso, complici. Mi aveva porto una confezione di börek avvolti nella carta stagnola. Aveva detto che li aveva cucinati sua madre la sera prima.
Avevo ringraziato chinando capo e schiena e premendo i palmi contro i fianchi.
«Ma che fai? Non è mica cinese» aveva detto Titì. Le ginocchia al petto. La sigaretta tra le labbra. Stava fumando a tavola.
«Giapponese, al massimo. È un modo come un altro per ringraziare.»
«In effetti è stato strano come gesto – si era intromessa Brig ammiccando ai due ospiti.
Titì aveva scrollato la cenere in un bicchiere pulito. Il suo.
«La lasagna è sicuramente pronta» avevo detto girandomi verso il forno «Ora dobbiamo lasciarla raffreddare qualche minuto e poi posso servirla.»
Avevamo stappato le birre, facendo tintinnare le bottiglie al centro del tavolo avevamo detto Prost. Ci eravamo guardati negli occhi e, ovviamente, Titì aveva guardato nessuno.
Il ragazzo turco aveva detto »Salute!»
Il suo amico aveva riso, io e Brig anche. Titì gli aveva fatto il verso, sottovoce, guardando il piatto e le briciole di patatine.
Avevo preso la teglia e l’avevo portata a tavola, posizionandola su un sottopentola di metallo.
«L’abbiamo preparata io e Titì.»
Il ragazzo turco aveva applaudito.
Titì aveva detto
«Voi avete mai mangiato gli insetti?»
Il ragazzo turco, con ancora le mani nel gesto dell’applauso, aveva cambiato espressione. Era qualcosa tra lo stupore e il non saper cosa rispondere.
«Titì! Che schifo!» aveva detto Brig.
«Titì, sto per impiattare la…»
«Al Thai Park c’è uno che vende gli insetti. Te li mette in un cartoccio come fossero patatine. Come queste patatine qui. L’amico del ragazzo turco aveva guardato la ciotola semivuota.»
«Li friggono. Cavallette, grilli, formiche, scorpioni. Anche i vermi. Io li ho mangiati i vermi fritti.» Per favore, Titì. Guardavo la lasagna, ancora nella teglia, la crosta come una catena montuosa fotografata da un satellite, le bolle di calore che non avevano fatto in tempo a esplodere e si erano cristallizzate nell’ambra del sugo e della besciamella, del formaggio grattugiato e dei ciuffetti di burro. «Scommetto che tu non l’hai mai mangiato un insetto fritto» aveva detto puntandomi la forchetta contro.
«Il Thai Park è un posto da turisti» avevo risposto secca, lasciando cadere il mestolo sulla tavola. «Al Thai Park non ci vanno i berlinesi.»
Brig e i due ragazzi mi guardavano come fossi un alieno oppure un’attrice. Titì sorrideva con la testa inclinata in un lato. Il trucco sbavato senza aver sudato o pianto. Avevo pensato a cosa dire, forse soltanto cosa aggiungere, perché mi sembrava di non avere detto tutto, oppure avere detto quello che volevo dire nel modo sbagliato. Forse al Thai Park ci vanno anche i berlinesi, magari quelli di una certa età, per chissà quale motivo. Forse non dovevo lasciare cadere il mestolo, il rumore era stato assordante. Oppure avrei dovuto lasciare cadere qualcos’altro, qualcosa di immateriale eppure così evidente.
Avevo detto
«Lo sapete che le lasagne possono essere conservate in frigo, riposte in un contenitore ermetico o coperte con della pellicola trasparente per un massimo di due giorni?»
Durante la notte stavo guardando un film. Tenevo il volume al minimo per non disturbare Titì chiusa in camera sua. Avevo lavato i piatti e pulito il piano cottura senza che nessuno mi avesse aiutato. Titì era scappata in camera sua appena terminata la cena. Noi altri eravamo rimasti a discutere di cose che non ci importavano, fino a quando era venuta l’ora di salutare e Brig se n’era andata insieme ai due ragazzi. Sullo schermo un uomo trasandato e con i baffi veniva interrogato. Era seduto e giocava con una lattina, l’aveva spaccata e ci stava costruendo un cigno origami. Più che seguire quello che stava dicendo, mi domandavo se prima o poi si fosse tagliato con la lamiera.
Titì aveva aperto la porta della sua stanza e d’istinto avevo guardato l’orologio. Vidi l’ora che era.
Si era seduta sul divano accanto a me, a piedi nudi tirati come sempre fino alle natiche, le ginocchia al petto per proteggersi da chissà cosa, chissà chi. Aveva riso a una battuta del film, che io non avevo seguito. Era restata ancora un po’, poi si era alzata e diretta verso la cucina. Si era fermata alle mie spalle, con delicatezza mi aveva infilato una mano tra i capelli, passando le dita tra le ciocche sulla nuca. Avevo socchiuso gli occhi.