Arrosto

“Le cose non si aggiustano. Le cose cambiano.”
Aprì il cassetto e tirò fuori le forbici, il coltello per l’arrosto e il cavatappi. Con il cavatappi aprì il Barolo, con le forbici tagliò lo spago per arrosto e legò il pezzo di carne, e infine con il coltello cominciò ad affettare il prosciutto di Parma. Poi prese uno strofinaccio, pulì sommariamente il coltello e lo poggiò sul piano di lavoro. La cucina era attraversata da un raggio di sole che dopo essersi appoggiato sul vetro della finestra si distribuiva in una porzione limitata ma essenziale del tavolo. Poi prese il prosciutto che aveva tagliato (tre fette, dal bordo spesso e irregolare, si doveva decidere a comprarlo, prima o poi, il tagliere elettrico), e lo adagiò sul fondo del tegame, contornandolo di foglioline di salvia. Stava in silenzio, in attesa che Federica dicesse qualcosa. Quando Federica taceva per Stefano significava che gli stava dando ragione, ma che cominciava ad avere paura di avere torto. Quello che Stefano non sapeva o non capiva era che Federica era piacevolmente sorpresa dalla sua osservazione, perché non solo la condivideva, ma era proprio quello che sperava che lui dicesse, e soprattutto era proprio quello che sperava che lui intuisse essere il punto di arrivo della sua pena. Il problema era capire se accettare la prospettiva del cambiamento li avrebbe portati allo stesso risultato, oppure no. Questa era la paura di Federica e quindi la causa del suo silenzio. Ma Stefano non l’intuiva o non lo intuiva fino in fondo, poiché si augurava – in modo consapevole o no non è chiaro – che il solo fatto di averle dimostrato la sua disponibilità ad accettare il suo punto di vista fosse di per sé il salvacondotto che lo avrebbe portato ad aggiustarle le cose, sotto le mentite spoglie di un cambiamento solo apparente.

Cominciò a triturare le acciughe e il prezzemolo nel mortaio. In silenzio, avvinghiato ad un pensiero rilassante e quindi deviante. Pensava al cambio fra la lira e l’euro. Perché l’arrosto in salsa di acciughe l’aveva fatto l’ultima volta dieci anni prima, e ricordava benissimo quanto gli era costata la carne di manzo: ventiquattromila lire. Pigiava nel mortaio inarcando la spalla in modo esagerato. Federica lo guardava e non lo capiva. Che bisogno c’era di fare tutto quello sforzo? Lo disapprovava, va a capire il motivo.
Poi a un tratto Stefano disse, senza pensarci su: il tuo amore è espresso in lire.
Lei sorrise infastidita dallo sforzo che le si presentava necessario per capire bene la metafora. Non voleva chiedere spiegazioni. E non voleva ridicolizzarlo. Preferiva lasciare che la cosa morisse lì, come asciugata dal raggio di sole caldo e netto sul tavolo della cucina. Fuori c’era un vento forte di tramontana e il pioppo frusciava in modo persistente, perdendo foglie a interi mazzi, a cespugli, come per una malattia, non per il normale processo naturale dell’autunno. I vetri chiusi proteggevano da questo virus, più che dal freddo e dal vento. Era la fine di ottobre e fino ad una settimana prima si sarebbe potuti andare sulla spiaggia. L’autunno aveva fretta di riprendersi lo spazio e il tempo perduto.
Stefano stava già pensando a quanto gli sarebbe costato il tagliere elettrico. Non ne aveva idea. Federica si versò un po’ di Barolo. E io niente? Disse lui. Te ne lascio un goccio, non mi va tanto, disse lei.

Stefano accese il gas. Il prosciutto giaceva già nel fondo del tegame, insieme alle foglie di salvia. Ci mise sopra una cipolla, un sedano, chiodi di garofano, un po’ di scorza di limone, pepe in grani e infine l’arrosto, già legato e imbavagliato. Strizzato nello spago lasciava strabordare rotolini di carne lucida che Stefano accarezzò con lo sguardo. Quand’era stato che aveva fatto questa ricetta? Che occasione era? Era un’occasione o era una domenica come un’altra? Non se lo ricordava.
Mise il fuoco al minimo, versò il barolo e un goccio d’olio d’oliva, chiuse con il coperchio e sopra ci sistemò una pietra pesante. Non sarebbe dovuto uscirne neppure uno stiracchiato lembo di vapore.
Adesso che l’arrosto era stato seppellito nella sua bara d’acciaio inox Stefano sapeva che avrebbe avuto davanti almeno un paio d’ore di niente. E questo lo mise in ansia. Diede un’altra inutile ammaccata alle acciughe e al prezzemolo, che avrebbe utilizzato solo dopo, a fine cottura, e poi guardò Federica, che se ne stava in piedi, in silenzio, con il bicchiere di barolo, che non gli aveva più passato. Guardava fuori. Aveva smesso di seguire i gesti di Stefano, ma era come se una profonda consapevolezza le suggerisse a quale punto esatto della procedura egli fosse arrivato.
Sicuro che ci volesse il Barolo?
Sicuro.
Ma non hai guardato la ricetta?
Non ne avevo bisogno. Me la ricordavo bene. Me la ricordo.
Non dico il Barolo, dico proprio il vino. Secondo me non ci andava. Quella era un’altra.
Era questa, non poteva essere un’altra.
Questo lo so. È l’unica ricetta che sai fare.
Appunto. Non penserai che non ricordo l’unica ricetta che so fare.
Forse ne sapevi fare due. Questa e quella dove ci voleva il Barolo. Il brasato al barolo.
Questa è il brasato al Barolo. Non so… So fare solo questa.
Non dire stupidaggini. In quella l’arrosto lo mettevi a macerare dal giorno prima.
Non io. Forse tu lo mettevi a macerare…
Ma possibile che non te ne ricordi?
Federica cominciava a divertirsi. Tutta la storia stava diventando un ridicolo, stupido equivoco. Una canzone le affiorò alla mente, aveva voglia di fumare, di correre, una straripante vitalità accompagnava quella futile conversazione sul brasato al barolo. Era come se fosse entrato un bambino in cucina, e con lui altri cinque, sei bambini e avessero cominciato a rincorrersi e a fare baccano, tirandosi la farina, briciole di pane. Continuò: il vino ci sta proprio uno schifo lì con il prosciutto e le acciughe. Almeno fosse stato vino bianco. Il barolo! Stai rovinando la ricetta. E il pranzo a tutti.
Vuoi star zitta, per favore?
A-ha! Rise. Gli puntò il dito contro, sorridendo in modo vendicativo, per aver colto la citazione. Guardò il frigorifero. La loro fotografia di Parigi, attaccata con un magnete a forma di Basilica di San Pietro stava scolorendo. Le vecchie foto sono imbattibili, considerò. Il buon umore non la abbandonava.
Tua madre penserà che l’ho fatto io l’arrosto, e io dovrò star lì a spiegare che no, che l’hai fatto tu, e che la colpa è solo tua. Non solo: io ti avevo anche avvertito. E tuo padre? Non capirà niente. Tanto lui non capisce i sapori.
Hai deciso di rovinarmi la domenica?
Noi stavamo discutendo, prima, mi pare. La domenica era lì lì per rovinarsi e di brutto anche prima che io ti facessi notare lo sbaglio. E non solo la domenica, mi pare (forse anche qualcos’altro. Forse noi due, forse tutto quanto – pensò). Ma tu sei concentrato solo sulla tua ricetta, e la fai pure sbagliata.
Non vuoi avere un minimo di comprensione?
No.
Stefano si mise a pulire i coltelli, il tavolo dove aveva affettato il prosciutto e mise il mortaio vicino alla macchina del gas.
Guardò fuori, e guardò Federica. Che c’è?
Niente, disse lei.
Meglio così, e uscì dalla cucina. Andò in bagno e vi rimase per circa un’ora.

Fece una doccia molto lunga. Si fece avvolgere dal piacere che dava il vapore e la posa sgraziata dei suoi piedi bagnati sul pavimento, le gambe piene di peli neri allineati lungo la pelle bianca: si sentiva al sicuro dentro le sue brutte caratteristiche fisiche. Sentiva di far parte di qualcosa, e se anche questo qualcosa era sé stesso – cioè come dire, il grado zero dell’essere parte di qualcosa – era sufficiente a godersi quella lunga pausa fra un prima e un dopo. Federica cosa starà facendo? Cosa starà pensando?

Quando uscì dal bagno mancava ancora circa un’ora al termine della cottura. Era quasi mezzogiorno. Il sole era stato intanto oscurato da una curva di nuvole grigie, fredde, smaltate, che si erano portate appresso una coda di freddo supplementare.
Entrò in cucina e si apprestò ad apparecchiare la tavola. Federica non era in casa, doveva essere scesa per comprare il giornale.
Andò in salotto e si buttò sul divano. Guardò l’orologio, a lungo. Poi guardò fuori, e solo allora si accorse che Federica aveva già apparecchiato.
Cos’era successo negli ultimi cinque o sei mesi? Non ne aveva idea. Saranno stati due anni, o anche di più, che non ragionava più su di loro, “io, te e noi due”, come le diceva quando erano giovani. Io, te e noi due. Un investimento sicuro, una caparra elargita da uno sconosciuto benefattore, un assegno in bianco. C’era bisogno di farsi delle domande? La vita aveva un senso comunque, ed ogni vincolo naturale era la prova della giustezza del fine: il rapporto con i suoi genitori, con i fratelli e con Federica. Il sole ogni giorno tramontava sulla chiarezza cristallina di un progetto quotidiano che richiedeva solo di essere replicato all’infinito, senza la pesantezza retorica di averne coscienza.
Ritornò in cucina. Era passata un’altra ora. Com’era possibile? Cosa aveva fatto in questi sessanta minuti? Indossava ancora l’accappatoio.
Levò la pietra dal coperchio e guardò dentro. L’odore del vino inaspriva forse troppo l’aroma della carne stracotta. Forse aveva ragione lei. Niente vino in questa ricetta.
Con una forchetta scosse l’involucro di carne che ora si andava sfilacciando e poi lo tirò su. Lo depositò su un piatto ovale, raccolse con un cucchiaio la pasta cremosa che si era depositata sul fondo e la fece colare dentro un passino, trasformandola in una vellutata di un colore ambrato e, con il battuto di acciughe e prezzemolo la mise in un pentolino, a riscaldare. Poi tagliò l’arrosto, e depositò le fette nello stesso tegame.
Bussarono alla porta. Erano i suoi genitori. Li salutò e tornò in cucina.
Mise le fette di arrosto immerse nella salsa nel piatto e portò in tavola. Poi tornò indietro a prendere l’insalata. Suo padre aveva già acceso la televisione. Attraversò il salone per andare a vestirsi.
Quando tornò nel salone Federica era lì, seduta.
Ci andava il vino?
Credo di no, disse lui. E le sorrise.
Che t’avevo detto? Lei alzò le spalle, e guardò fissa il piatto.
Non c’è niente che tu voglia ancora condividere con me? Le chiese lui. I suoi genitori, ormai sordi, non sentirono.
Come dici scusa?
Chiedevo se siamo ancora io, te e noi due.
Lei lo guardò incredula. Si trovava all’improvviso davanti ad una porta sbarrata. Sapeva già cosa vi avrebbe trovato dietro, se avesse potuto aprirla: vi avrebbe trovato una stanza in disordine. Tutto il loro passato. Ma soltanto lui aveva la chiave di questa stanza. E andava bene così. Anzi, male. Cosa aspettava a buttarla?
No, era meglio senza il vino. Ma anche così non è male, disse lei.
Lui si sentì incoraggiato e le fu grato.
Lei si concentrò sui sapori, sui colori che sbiadivano dietro il vetro della finestra, sul vento. Non avrebbe saputo dire molto sul suo futuro, se qualcuno glielo avesse chiesto, ma di una cosa era sicura: che Stefano ne sapeva meno di lei, e questo era il lato paradossale della faccenda. Lei aveva qualche carta in mano, ma il dolore della scelta la paralizzava. Lui sembrava scivolare per inerzia verso un niente disinvolto. Aveva accettato un pigro automatismo e lo aveva riempito di garanzie a vita. Lei aveva la voglia e la forza per giocarsi qualcosa, per un’ultima scommessa. Come farglielo capire?
Stefano ripulì il piatto con una mollica di pane. I suoi genitori parlavano di qualcosa, ma lui non li stava a sentire. Guardava Federica, preoccupato che da un momento all’altro si alzasse e se ne andasse via per sempre. Avrebbe voluto trovare le parole per trattenerla. Avrebbe voluto non aver messo il vino nell’arrosto. Avrebbe desiderato tanto che fosse già domani.
Federica si alzò da tavola con i piatti sporchi. Purché purché, pensava, come fosse un fastidioso ronzio. Purché… Cercava di dettare le sue condizioni, ma era troppo presa dalla visione incoraggiante della propria determinazione, che la animava a persistere, a dominarsi. Si sentiva fragile e forte.
Stefano la seguì in cucina. La vide davanti al lavandino, riavviarsi i capelli con la mano libera dalle stoviglie. Era strano guardarla così. Non lo aveva mai fatto. Aveva avuto paura di perderla quando le aveva parlato delle cose che cambiano. Le cose non cambiano. Le cose non cambiano. Che senso ha?
Lei sentiva il suo sguardo sulla schiena, se ne sentiva partecipe e colma. Non era una brutta sensazione.
Federica si sentiva pagina bianca, una sinfonia eseguita per la prima volta, di cui nessuno conosce le note successive a quelle che sta ascoltando in quel preciso attimo.
Lo sapeva, lui, di avere davanti la creazione di Dio nel suo manifestarsi alla luce?
L’insalata? Gli domandò.
Già in tavola.
Andiamo di là. Disse lei.
Lui fece per sfiorarle la schiena, per farla passare, ma trattenne la mano e il gesto rimase congelato. Lei attraversò la porta come sfiorasse l’aria, come fosse aria, come fosse vento intrufolato da uno spiffero della finestra, come fosse una foglia sfuggita alla propria traiettoria, aveva una sua consistenza diversa e preziosa, ruvida e delicata. Non c’era già più.