Ondina

Nell’agosto del ’37 Danzica era ancora una città libera che nutriva i ricordi di Franz Górski.
Lui non aveva ancora compiuto trent’anni.
Davanti all’ampia finestra del suo studio, una mansarda presa in affitto per dare lezioni di pianoforte, lo vedevano fumare fin dalla strada: ogni pomeriggio alle quattro in punto si accendeva una sigaretta nella stanza rinfrescata dalle correnti del Baltico.
Heinrich Mazur, l’allievo delle quattro e venti, difficilmente arrivava in ritardo.

Franz Górski era stato un adolescente problematico emarginato dai compagni, tutti vigorosi eredi dell’alto-borghesia polacca nei loro completi inglesi a righine: praticavano il pugilato, corteggiavano le ragazze, negli spogliatoi facevano sfoggio di deltoidi massicci dopo la lezione di ginnastica.
Lui invece trascorreva i pomeriggi in camera come un topo in soffitta, battendo le dita sui tasti di un vecchio Bechstein, mentre al di là del muro la bella gioventù di Danzica usciva a divertirsi.
Della sua educazione musicale si occupò in seguito il signor Konstantyn, pingue e baffuto, l’equivalente umano di un bassotuba.
Il signor Konstantyn era un appassionato nazionalista. Si rifiutava di parlare qualunque lingua che non fosse il casciubico e insegnava quasi soltanto musica polacca: fu grazie a lui che il giovane Franz scoprì il violino titanico di Lipiński, si innamorò dei Notturni e delle Mazurke, riconobbe in Stanisław Moniuszko il padre dell’opera, e quindi il suo stesso padre.
La bellezza eterna della musica, che gli sembrò superiore alla letteratura poiché a differenza di quest’ultima sapeva impregnare l’aria, gli si spalancò davanti tutta in una volta.
Fu come se lo avessero buttato in acqua.

Franz non ci mise molto ad accorgersi che, dietro alla retorica e all’indubbio gusto musicale, il signor Konstantyn nascondeva abbastanza scheletri da riempire un intero guardaroba.
Mangiava troppo. Fumava troppo. Soprattutto, beveva troppo. Ciò che guadagnava nel pomeriggio lo buttava via entro la mezzanotte del giorno stesso, nelle peggiori taverne, dove intossicandosi di Krupnik veniva additato dalle cameriere e diventava sempre più giallo.
Franz non gli aveva mai chiesto se avesse dei figli o una moglie che si prendesse cura di lui, ma provava compassione per quel piccolo uomo rotondo così tremendamente solo.
In un certo senso prese a considerarlo il suo fratello spirituale: si convinse che i musicisti condividessero un destino di irrisione, dal quale potevano essere salvati solo grazie a illustri compatrioti come Chopin e Lipiński e Moniuszko e alla loro musica meravigliosa.
Questa certezza lo accompagnò per anni, finché Franz divenne a sua volta insegnante di pianoforte.

La terza ballata di Chopin è ispirata alla favola di un giovane innamorato, destinato a rincorrere la sua Ondina fra i flutti del mare senza raggiungerla mai.
Heinrich Mazur, che tanto aveva insistito per impararla, non somigliava a Franz, non faceva parte della confraternita dei musicisti umiliati dalla sorte, ma neppure del circolo dei vestiti a righine. Al pianoforte somigliava invece a quell’Ondina: una creatura taciturna, ammaliante, quasi sovrannaturale.
Per un’ora e mezza alla settimana Franz era certo che il suo studio, all’ultimo piano di un palazzo anonimo, diventasse il cuore di Danzica, il cui palpitare veniva avvertito da tutti i cittadini della Polonia.
Heinrich era l’Ondina che gli sarebbe sfuggita sempre. Poteva contemplarla, sì, ma essendo un uomo comune, un uomo banale, incapace di combattere le correnti, era destinato ad annegare in un abisso di desideri impossibili come il suo antico insegnante di pianoforte era annegato nel Krupnik.

L’orologio segnava le sei meno un quarto.
A malincuore, l’uomo più vecchio chiuse lo spartito al più giovane e lo accompagnò alla porta. Prima di chiuderla pensò per l’ennesima volta che, se fosse stato coraggioso e deciso e con più capelli, lo avrebbe baciato sulle labbra.

Quando Franz Górski cominciò a sputare sangue sulla neve polacca era stato deportato nel campo di concentramento di Stutthof da sedici mesi esatti.
Vedendo il rosso che gli colava dalla bocca macchiare il suolo candido, Franz ricordò il volto di Heinrich Mazur, altrettanto bianco, dalle guance altrettanto rosse, e provò dolore.
Quella freddissima notte in infermeria il ricordo della Ballata n. 3 di Chopin lo tenne sveglio per ore, sovrastando ogni suo altro pensiero come lo scroscio di un fiume piena: la musica di Heinrich Mazur straripava dalle sue mani, si riversava fuori dalla finestra, tra i passanti incolpevoli, e la stanza si riempiva di volume, che saliva al soffitto come aria calda.
Finché Franz non riusciva più a distinguere la musica dall’uomo, perché il suo amore si avvolgeva stretto attorno a entrambi, ed era potente, ed era inscindibile.