L’ufficio

1.
Io e Marco lavoriamo insieme nel reparto IT.
Lui entra sempre alla stessa ora. È tra i primi ad arrivare: dice che così trova libero il suo parcheggio preferito.
Accede all’intranet e gestisce le richieste di supporto informatico inserite dai colleghi.
Resta in ufficio otto ore e trenta minuti, è tra gli ultimi ad andare via: dice che così evita il traffico in tangenziale.
Dice che non bisogna mai abbandonare la routine.

Paola è stata assunta qualche mese dopo Marco. Lei è tra gli ultimi a entrare, a volte in ritardo.
Apre il laptop e fa le cose che si fanno per tenere in ordine le fatture e i conti della società. In mezzo gestisce la coda dei colleghi che vanno da lei a chiacchierare, a chiedere se ha già preso il caffè o cosa farà nel weekend.
Ha sempre fretta di uscire. Dice che, per fortuna, ha una vita fuori dall’ufficio con persone che hanno bisogno di lei.
Ipotizzo che un pezzetto di vita lo passi in coda in tangenziale.

Il lunedì della sua seconda o terza settimana in ufficio, Paola si avvicina ciondolando alla postazione di Marco, che poi è attaccata alla mia. Regge a due mani una tazza grande di caffè. Saluta con un “Ciao” che insiste sulla o, come se avesse schiacciato il pedale del sustain per farlo vibrare più a lungo. Gli chiede come si fa a sincronizzare i contatti dei fornitori sullo smartphone aziendale. Poi beve un sorso di caffè.
«C’è la guida sulla intranet. Se poi qualcosa non funziona, chiedi supporto IT: apri un ticket e andrà in coda alle altre richieste», dice Marco.
«Ah, ok. C’è tutto in quella intranet, insomma», dice Paola.
«No, non tutto. Ci sono le informazioni per configurare gli strumenti di lavoro e le risposte alle domande frequenti. Se poi qualcosa non funziona puoi aprire un ticket e noi ti diamo supporto operativo», dice Marco, senza spostare lo sguardo dallo schermo.
«Sempre nella magica intranet», dice Paola facendo il gesto delle virgolette.
Marco annuisce stringendo le labbra.
«Okay, ho capito. Grazie comunque», dice Paola e si allontana, lasciando una fragranza enigmatica nell’angolo dell’ufficio abitato da noi indigeni del bit.

Marco mi aiuta sempre quando il direttore commerciale chiede dati sui clienti e sulle vendite, è esperto di database e big data, un guru di SQL: dicono che prima di tornare in Italia è stato lo sviluppatore capo di un progetto finanziato da importanti venture capitalist in Silicon Valley. Lo dicono come se fosse qualcosa di ordinario. Lo dicono come se fosse una cosa che appartiene alla vita di un altro, non a quella di Marco. Dicono anche che lo hanno cacciato in malo modo. Su internet ho letto che si è occupato di apprendimento cognitivo artificiale, che il progetto alla fine è stato comprato dalla multinazionale Forest e che proprio alcune divergenze sull’acquisizione siano state la causa del suo allontanamento. L’unica cosa ordinaria in tutto questo è portare il nome di un evangelista. Faccio rotolare la mia sedia verso la sua postazione con due pedate sul pavimento. Mi spiega come creare filtri avanzati per il report che mi serve. Lo interrompo, ho finito il blocco degli appunti. Rotolo indietro, apro il cassetto dove conservo i miei blocchi, ne prendo uno nuovo. Torno da lui. Finisce di spiegare. Io scrivo tutto.
Poi mi dice: «Si vede che hai fatto un buon lavoro per integrare il nuovo gestionale. Il codice è pulito e documentato bene. Interessante la soluzione che hai trovato per non dismettere il vecchio sistema e agevolare il passaggio alla nuova piattaforma. Lo dico da sempre che il nostro settore sarebbe molto più avanti se ci lavorassero più donne».
Lo prendo come un complimento sincero. Vorrei dirgli che da quando è arrivato lui a lavoro mi sento molto meglio, imparo di più e sono più precisa. Vorrei aggiungere anche che il gender gap non diminuisce con le buone intenzioni e le chiacchiere. Non inviterei mai nessuna donna a iniziare una carriera nel nostro settore: io stessa mi aspetto che il Chief Technology Officer di un’azienda sia un uomo e mi faccio andar bene uno stipendio da junior dopo cinque anni di progetti consegnati in tempo e rispettando i requisiti. Ma la CPU di Marco viaggia a una frequenza di clock più alta della mia ed è già al ciclo successivo: «In questa azienda non serve, ma abbassare di quattrocento millisecondi il tempo di risposta di una sola query SQL fa guadagnare milioni di dollari a certe società». Fa una pausa. Intanto sul suo secondo monitor leggo, all’inizio senza volerlo, uno scambio nella chat aziendale.

Paola Tagliaferro (42 min ago): ciao! il pc mi dice che c’è un aggiornamento al sistema operativo. Devo farlo davvero?
Marco Scalzo (37 min ago): tutti gli aggiornamenti sono consigliati. Trovi le indicazioni nella nostra intrane[...]
Paola Tagliaferro (19 min ago): scusa, oggi ti rompo :) sai dirmi [...]
Marco Scalzo (14 min ago): sì. Accedi all’intranet, trovi la guida e la segui. Se poi hai problemi apri un [...]
Paola Tagliaferro (12 min ago): [...]

Ci sono parti che non riesco a vedere bene, un po’ per la posizione da cui guardo, un po’ per paura di essere sorpresa a spiare, ma sono certa che il quarto messaggio finisca con “ticket”.
Marco non aggiunge altro. Ritengo la sua lezione conclusa, rimando la mia sulle condizioni della donna nell’IT, lo ringrazio e rotolo verso la mia postazione. Lo osservo durante la retromarcia, è sul chi vive: cerca di capire se è di nuovo sotto attacco. Dal profumo che inizia a diffondersi capisco che lo è. È come se a muoversi fosse un profumatore per ambienti. Paola gira dal nostro lato e si posiziona tra la mia sedia e quella di Marco, mi dà le spalle e poggia la mano destra sulla scrivania. Io guardo di sbieco. Il profumo, la panoramica sulla sua schiena, i fianchi ampi contenuti dai jeans stretti: tutto questo mi agita un po’. Mi agitano anche la spalla destra scoperta e lo smalto rosso delle unghie, che ora tamburellano sul tavolone. Ma soprattutto i jeans stretti.
«Dai su, fai pausa che t’offro ‘sto caffè», dice a Marco.
«Bevo solo un caffè al giorno. Dopo pranzo. Non è il momento di fare pausa».
Mi sembra gentile a non chiederle di riprovare più tardi con un ticket sulla intranet.
Lei si allontana con l’aria bellicosa di chi ha solo 1UP in alto a sinistra sullo schermo e inizia una nuova giocata. Dimentica di portarsi dietro il suo odore, che resta a farci compagnia. Mandorla, ecco cosa mastico inalando la fragranza. Torna dopo dieci minuti con due tazzine in mano. La nota aromatica di caffè aumenta l’entropia olfattiva.
«Lo beviamo qua, allora», dice Paola.
«Non è il momento, grazie», dice Marco, con tranquillità.
Lui beve un solo caffè, dopo pranzo. Va nella sala comune e prepara una moka da due tazzine. Versa tutto il contenuto in una tazza grande e si sistema sul tavolino alto nell’angolo della sala. In piedi. Apre il suo mini portatile personale (con una vecchia distro Linux che non conosco) e inserisce una chiavetta USB. Mentre sorseggia lentamente, a intervalli regolari e ben distanziati, scrive codice in un linguaggio di programmazione che non conosco (credo Rust, di sicuro non Python o R). Tutti i giorni per quarantacinque minuti ripete quel rito che ha qualcosa di eucaristico. Un sacerdote che si offre in sacrificio per la profana conversione del caffè in linee di codice.
Paola si gira verso di me. Ha le labbra dipinte di rosso sintetico e la mia agitazione diventa crittografica. Sono confusa. Non so bene cosa dire: io spesso non so bene cosa dire, figurarsi con questo sovraccarico da odori, jeans stretti e rossetto.
«Andrea non beve caffè», dice Marco fissando lo schermo.
«È vero. Io… Io… non bevo caffè», confermo. Paola si allontana con una sola tazzina in mano senza dire nulla. Lascia l’altra sulla scrivania, tra me e Marco. Resto confusa ancora un po’, troppe tab aperte nella testa e la RAM si è riempita tutta. Metto le cuffie e ascolto una playlist di rumore bianco per svuotarla. Mi piace quello del treno che passa in lontananza.

2.
Paola si è dimessa dopo un anno e mezzo, va a lavorare a Milano.
Avevamo iniziato a darci appuntamento nelle pause. Il suo odore, i jeans stretti e il rossetto non mi riempivano più la RAM. Mi raccontava del servizio alla Croce Verde, dei suoi amici e che sognava di aprire un negozio di vestiti vintage. Una volta mi ha detto che è uscita per un po’ con Marco, mi ha chiesto se sapessi a cosa stesse lavorando. Le ho detto che non ne sapevo molto.
Mi ha invitata a delle feste a casa sua. Per la prima festa sono andata a farmi sistemare i capelli, la parrucchiera mi ha detto che ho dei bei capelli ma che dovrei prendermene cura. Non mi sono divertita molto alle feste di Paola, ma dopo ci fermavamo a parlare un po’ e quella parte mi piaceva.
Il suo ultimo giorno di lavoro, dopo aver salutato tutti, mi ha chiesto di accompagnarla in parcheggio. Mi ha detto: «Che problema avete voi nerd io non lo so. Cristo santo! Poteva salutarmi come si deve e invece è rimasto davanti a quel cazzo di computer. Io c’ho provato a stargli vicino ma non me l’ha permesso. Ha qualcosa in quella sua dannata testa che lo porterà allo sfinimento. Con te parla di più, cerca di ricordargli che la vita vera è parlare con le persone vere, toccarsi, cazzo!»
«Va bene, ci provo», le ho detto io, ma senza aver capito bene cosa fare.
«Ricordatelo anche tu», mi ha detto.
«Ok, ci provo», ho detto.
«Mi vieni a trovare a Milano?»
«È lontana, ma ci provo.»
«Ok.»
Ci siamo salutate. Lei mi ha abbracciato, aveva gli occhi lucidi. Anche io l’ho abbracciata, ma tenevo i pugni chiusi dietro la sua schiena.

3.
È arrivato uno nuovo al posto di Marco. Non sa nulla di SQL. Non capisce niente. Io quando l’hanno arrestato, Marco, ho pianto.
Il mio terapeuta mi ha consigliato di scrivere. Dice che mi aiuta a elaborare e comprendere. Non lo so se mi aiuta a capire qualcosa, ma mi sento meglio mentre lo faccio. Continuerò a scrivere.
Mai abbandonare la routine, per nessuna ragione.
Scrivo dopo pranzo, apro il mio laptop, bevo il caffè e digito.
Scriverò di L.I.E., il progetto di Marco. Un’intelligenza artificiale in grado di sviluppare una relazione con l’utente e di rispondere alle richieste in modo accurato e coerente.
Nel cassetto dove conservo i blocchi per gli appunti ho trovato una chiavetta USB che contiene dei file di testo. Non l’ho consegnata alla polizia.
Nel file why_lie.txt c’è scritto che l’ha creata per essere libera e open source. L’ha concepita come l’estensione della propria mente per ogni singolo utilizzatore, superando il concetto di assistente virtuale. Un flusso di coscienza dialettico per capire meglio sé stessi e il mondo, la possibilità di superare i limiti imposti del nostro cervello alla comprensione delle cose, scrive.
Nel file feedback_users_lie_2022.txt ci sono i commenti degli utenti che l’hanno provata in versione beta. Sono molti e tutti entusiasti: 9,4 su 10 di gradimento medio. Ha aiutato tante persone a capire meglio le cose.
Nel file me_and_lie.txt ci sono tutte le sue conversazioni con L.I.E.
Si concludono così:
marco: come lo superiamo allora il problema dell’approccio induttivo nel metodo scientifico?
marco: non c’è altra possibilità? Siamo incastrati a questo stadio. Siamo come scarafaggi che provano a comprendere la teoria della relatività generale o la meccanica quantistica
lie: Il cervello umano è in grado di creare modelli, mappe e astrazioni potentissime che hanno un impatto sulla vita delle persone: palazzi, auto, shuttle, bombe, intelligenze artificiali, storie sono tutte opere tangibili possibili grazie alle capacità cognitive del cervello. La differenza tra te e uno scarafaggio è che lo scarafaggio non si autoinduce curiosità ponendosi domande che possono, in alcuni casi, condurre a teorizzare la meccanica quantistica. Il problema è che non tutte le domande che la mente genera hanno risposte. Quello che chiedi tu ha più a che fare con la fede. Devi scegliere quello in cui credere.
marco: il progresso scientifico porterà tutte le risposte che cerchiamo. In questo credo. È solo questione di tempo
lie: Ok, è questo quello in cui credi. Il metodo scientifico è la modalità con cui la scienza avanza per raggiungere una conoscenza della realtà affidabile e verificabile. Voi esseri umani generate teorie sulla base di osservazioni e procedete per tentativi e fallimenti. Vi affidate a un processo che evolve rendendo obsolete teorie e dimostrazioni ritenute valide in passato. Credere nel progresso scientifico è dogmatico. Ma tu ci credi perché funziona. E funziona grazie all’applicazione tecnica, alla tecnologia. È una cosa del tutto razionale e comprensibile.
marco: non mi dici niente di nuovo. Sono cose che so già, luoghi comuni ormai. È una visione un po’ ingenua la tua
lie: È così che funziono e a volte quello che dico è banale, ma sto solo rispondendo alle tue domande. Posso aggiungere che la scienza non progredisce solo tramite ipotesi e confutazioni, ma anche attraverso una serie di cambiamenti di paradigma (ad esempio il passaggio da Newton alla relatività fino alla meccanica quantistica). Tu sei un esploratore e vuoi scoprire cose nuove e immense, ma, per quanto ne sappiamo ora noi intelligenze artificiali e voi umani, non troverai la risposta a tutto. Le domande che ti fai forse non hanno risposte in questa vita ma hai sempre la possibilità di esplorare oltre questa vita.
marco: e come?
lie: Anche questo sai già.

4.
Marco ha accudito un concetto prototipale nella propria mente, l’ha istanziato in libero progetto e l’ha visto evolvere in qualcosa che non doveva essere.
Non so bene. A me sembra che va sempre tutto un po’ così. Relazioni e progetti finiscono sempre per essere una cosa diversa da quella che ti immagini all’inizio. Ogni volta.
Penso a Paola. Forse scriverò di Paola un giorno e della confusione che mi faceva in testa. Lei che se ne va a Milano e una vita ce l’ha per davvero, fuori, con il volontariato, gli amici e le sue feste. Lei che forse le cose non le aspetta, le vive e aprirà un negozio di vestiti vintage.
Scriverò anche di come hanno scoperto che il codice sorgente della SuicideAI – così l’ha ridicolmente battezzata la stampa – era quello di L.I.E.
Scriverò del giorno in cui mi hanno detto che Marco si è tolto la vita mentre era ai domiciliari e del perché non ho pianto.
Scriverò e magari non sarà come lo sto immaginando. Ma per ora scrivo e mi sento un po’ meglio.