Da quando sono in questo letto, ho visto molte cose. Non con gli occhi del corpo; quelli restano socchiusi a guardare il soffitto, anche se una mano pietosa mi ha da tempo poggiato la testa sopra un doppio cuscino. Quegli occhi ormai non mi appartengono più, da quando le mie giornate sono accompagnate solo dal mio respiro sempre più debole. No, sono altri occhi quelli che hanno cominciato a viaggiare, che scrutano, che sentono come mai prima. Diceva, la gente, che ero una strega, la maciara, Donna Sulfura, ma io non ci ho mai creduto davvero. Ora però, chissà.
Sento, anzi, vedo che da quando sono nascosta al mondo, inchiodata nella mia camera dal grande male che è la vecchiaia, la gente ha cambiato atteggiamento verso di me. C’è stato un tempo in cui andavo per le strade, i vicoli pieni di ciottoli del mio paese, guardata con rispetto e timore. A me si rivolgevano per amore o invidia, o per un consiglio, per una confessione. Il fornaio a cui non lievitava il pane. Il parroco e i suoi tormenti, a chi altro doveva raccontarli? Sicuro che nessuno sarebbe mai venuto a chiedermi qualcosa. La maestra incapace di farsi ubbidire, a chi altro poteva chiedere un’erba che la rendesse forte? Il marito geloso, la madre preoccupata, la nuora infastidita. E io facevo, senza troppo crederci, quello che volevano. Fossero medicamenti, o parole vuote, o scongiuri. Perché quella era la vita che mi era toccata in sorte.
Ma ora tutto è cambiato. Qui, nella mia camera, capace solo di respirare, ho scoperto che davvero Donna Sulfura sa vedere. Vede nelle case con le porte e finestre chiuse, vede nel buio della sagrestia, sente i bisbigli di chi passa qui davanti.
I primi mesi, venivano a trovarmi. Grati per ciò che avevo fatto o, più spesso, a chiedere ancora. Accendevano una candela sul mio comodino, o lasciavano doni, fiori. Poi ho cominciato a sentire la diffidenza. Le visite si sono diradate. I fiori sono marciti in fondo al letto, il loro odore mi culla giorno dopo giorno.
E ha cominciato a scorrere il veleno. Chissà se ero davvero inferma, lassù, chiusa in quella stanza. Chissà se era poi vero che non riuscivo più a parlare, a muovermi, a intendere. Ora che ero sottratta ai loro sguardi. Poteva essere una malìa, forse il mio spirito vagava per i boschi e non riusciva a rientrarmi in bocca. Chi poteva dire cosa pensavo, cosa vedevo, cosa facevo, nel buio della notte, nel chiuso della stanza. E perché non morivo? Si era mai visto un cristiano in agonia per così tanto tempo? La sarta diceva che non avevo trasmesso la mia stregoneria e aspettavo qualcuno a cui passare il mio spirito. E fu così che nessuno venne più.
L’ho sentita, la diffidenza che si è fatta paura, là fuori, e la paura che si è fatta rabbia. Per ogni inconveniente che capita, ogni piccola tragedia: un figlio che si perde, una vacca morta, un vecchio che si tronca la gamba. Gli occhi rabbiosi della madre, del fattore, del medico condotto, tutti si alzano alla mia finestra. Prima della messa, tra le panche di legno consumate dagli anni, o dal macellaio, mentre si aspetta che il coniglio sia disossato, o nelle veglie intorno al fuoco, le mani fanno gesti, le teste accennano una direzione, le bocche borbottano.
Due giorni fa, alla fine, è toccato al figlio del droghiere. Il morbo gli ha bruciato i polmoni in una settimana. Era rimasto un pomeriggio a giocare sotto la pioggia, colpa del tempo e di un nonno sbadato, ma in realtà colpa mia. Gli hanno fatto un funerale mesto e rabbioso, con il parroco che alludeva e infiammava dal pulpito. Diabolica cospirazione. Orrida sorte. Inusuale morbo. Sento ancora le parole che fischiano tra i suoi denti radi. Due giorni sono passati, di paura e indignazione, perché i compagni giurano che il ragazzetto avesse lanciato un sasso contro il mio portone, tempo addietro. È per questo che si è ammalato ed è morto, non per il freddo, non per la malattia, non per la sbadataggine. Io non ho modo di difendermi, e forse non lo desidero.
Ora, la porta di casa mia è stata spalancata. Sento i passi concitati e timorosi su per le scale. Li vedo vicini alla mia camera. Esitare, eppure ribollire. Possono essere tre, dieci, non mi stupirei se fossero venti.
Per tutti, sono colpevole. Io che ho fatto morire gli animali nella stalla, entrare le volpi nel pollaio, io che ho bruciato i raccolti con il gelo improvviso. Accompagnata dal mio solo respiro, notte e giorno, fissando il soffitto crepato e ingiallito, li ho in effetti odiati, tutti loro, detestati, invidiati. Forse è vero, sono stata io. Se il mio odio è grande quanto le mie sofferenze; di sicuro non lo negherei, se potessi parlare. In fondo mi va bene così. Ora, appena troveranno il coraggio, sfonderanno la mia porta, e faranno ciò che è giusto.