Marella

Attraversavamo scheggianti il sottopassaggio e il rumore del treno che sferragliava sopra i corpi sincopati, di corse e pedali, esplodeva nelle orecchie, quasi fosse lì, nelle nostre cavità, nelle pieghe dei canali uditivi, ululante di stridii meccanici dentro la testa. Le due bici, la mia, la sua, sfrecciavano ondulando oscillatorie contro ogni legge di gravità, contro la curva a gomito del sottopasso, presagendo talvolta una caduta che non avveniva. Forse, sarei potuto andare più veloce, passare avanti, fare quello più bravo. Ero tentato, ma mi piaceva sbirciarla sulla Graziella sbilenca in corsa, con i capelli al vento, Marella, con la maglietta con su scritto in vellutino rosso Marella. Disordinata, lentigginosa, occhi blu, si muoveva sempre veloce, scattosa. Parlava come una macchinetta. Era in perenne mobilità dinoccolata. Era la mia amica, eravamo inseparabili.
Era al bagno 39 che eravamo diretti con le bici, ogni giorno d’estate. Ci sentivamo sfrontati e liberi, e il futuro era pieno di promesse, come il mese di luglio, che non è maggio, quando tutto deve ancora delinearsi, e non è agosto, che è una fine. Una volta arrivati, i piedi nudi, le ciabatte in mano, buttavamo le bici sul marciapiede sterrato, correvamo con ginocchia alate lungo la linea mattonata, per fiondarci, conquistata la riva, nelle onde, catapultandoci, in perenne battaglia di braccia, dagli scogli che a Misano Adriatico se la filavano in verticale, sospesi sul mare, come linee di fuga ai lati della spiaggia infinita. Saltavamo, all’ultimo appacificati, mano nella mano, mentre intorno i ragazzi più grandi pescavano i baganelli. La trascorrevamo così, ogni calda stagione, da sempre, io, lei, e pochi altri satelliti amici. Il fulcro era lei. Il fulcro ero io. D’inverno ci riconsegnavano alla città bigia, ognuno la propria, agli antipodi dell’Italietta craxiana.
Avevamo giocato ai genitori, a spingere la carrozzina col bambolotto nero, che lei aveva preteso strillando davanti alla vetrina; Marella non lo voleva un figlio convenzionale, lei aveva un figlio nero senza nome e uno indiano che si chiamava Winnetou. Dal bar dello stabilimento contavamo le barche scommettendo ghiaccioli e ci accapigliavamo le duecento lire per giocare e vincere le biglie alla macchinetta infernale, con il manubrio che era sempre storto, almanaccando una cingomma per uno, tonda come le biglie, tripudio di colori e mal di pancia silenziosi.
E la guardavo già allora, Marella, come la cosa preziosa che era, che sarebbe stata, leccare con gusto bambino il quotidiano ghiacciolo all’amarena, con la lingua che a poco a poco s’imporporava dello stesso colore amaranto. Gli occhi socchiusi, felici, sognanti, con spade di luce tra l’ombra che nettavano il viso di sole. Dodici anni lei, quattordici anni io. A volte incontrava il mio sguardo e regalava, dalle labbra già disegnate e piene, a me intontito di lei, un sorriso, un sorriso che fondendosi con una luminosità dello sguardo era dolce, come non sempre era lei. L’avevo baciata poi l’anno dopo, trovando un coraggio insperato di superare quella soglia, il confine che separa l’affetto dall’eros. Quando ci eravamo staccati, mi aveva detto che ero stato il primo, ma che avrei potuto scegliere un posto migliore, e volgendomi con lo sguardo un’intesa, che lì per lì non avevo compreso, aveva indicato una cacca di cane vicino ai nostri piedi, scoppiando a ridere luminosa, la testa gettata indietro, con la capacità dell’iride di irradiare aquiloni di luce da chissà quale astro interiore. Ma chi l’aveva vista la cacca, pensavo io, mentre avevo ancora voglia di lei, della saliva, del gusto passivo di amarena dell’ultimo ghiacciolo, cercando intanto di nascondere un desiderio assoluto che rigonfiava i pantaloni e cercandole di nuovo le labbra, morbide, piccole, come un cuore, come il mio cuore che si stringeva. Come ogni settembre. D’inverno non scriveva mai e ogni anno era più bella.

Ripensavo a tutto quello, a tutta la vita scivolata via, ai gelati, alle briosche calde dell’alba, al bagno 39, alle sue labbra di violaciocca, alla maglietta con su scritto Marella in vellutino rosso, mentre scendevo le scale del monolocale che era stato il suo. Erano passati vent’anni. Fuori diluviava, e Bologna era pioggia serrata che scosciava dai tetti e dai campanili per cadere nei tombini della morte anche lei. Pioveva, ma non come quella volta in cui il temporale ci aveva sorpresi sulla spiaggia. Scuro, improvviso, il cielo poco prima solo butterato di cimbri s’era fatto liquida pece. E siluri di acquatiche spine si erano scagliati violenti pugnalando la sabbia, che dorata diveniva ad un tratto crosta bagnata. Marella aveva alzato la faccia al cielo inclemente e amato la pioggia. L’avevo guardata, adorata, col viso in su a ricevere le gocce, e chiamata, «Marella non fare la scema, vieni sotto la pensilina, i fulmini». Solo dopo mi aveva raggiunto, quando, bastandosi al mondo, s’era ritenuta soddisfatta delle staffilate sul volto. Tremava. Eravamo piccoli davanti a una forza che sembrava aver a che fare con Dio, e nel fischio acuto, sibilato del vento, nello sferzare fortissimo della pioggia, lungo la riva avevamo visto volare rotolando, in fila o in coppia, uno dietro l’altro, vorticando velocissimi, correre di lena verso un appuntamento improrogabile che solo loro sapevano, tutti quei gonfiabili che i genitori avevano abbandonato fuggendo sotto gli ombrelloni in pericolo. In mezzo all’apocalisse roteavano ciambelloni, unicorni, fenicotteri, coccodrilli, wurstel, cigni, hamburger con ketchup, avvolgendosi su loro stessi, felici ed ebbri, in onirico assetto. Alla fine della fila lei aveva detto d’aver visto anche quel solitario Hare Krishna, che spesso avevamo notato meditare solo, unico appartenente del lido alla categoria, sopra gli scogli sfuggenti verso un punto di fuga che non fuggiva, ahimè, da nessuna parte, e diceva d’averlo guardato accodarsi al disastro di gomma e di forme e colori e suonare il tamburello ripetendo ancora quel mantra hare kṛṣṇa hare kṛṣṇa. Poi, Marella, nell’umano silenzio che lasciava spazio solo al delirio del cielo, aveva aggiunto sotto voce, per non disturbare il divino, che le era sembrata anche una parabola umana, quell’accavallarsi di corpi, seppure non vivi, quella ignara fragilità che ruzzolava in mezzo alla furia del tempo, surreale e giocosa, verso una fatalità che nel caso specifico sarebbe stato l’accumularsi verso il promontorio di Gabicce, tutti insieme, forme e colori, verso un felliniano destino, ossia le rocce che lì li avrebbe bloccati, come esseri non finiti, sognanti. Qualcuno, libero, nell’aria, avrebbe potuto sfuggire, prendere la via sconosciuta del mare in tempesta, frustrato dalle onde ingrassate.
«Entra» aveva infine detto guardandomi, nient’altro, indicando la cabina. Le sue labbra sapevano ancora di amarena ma sapevano anche bene cosa fare e dove farlo e c’eravamo amati in piedi, di corsa, con una fretta che sembrava desiderio e forse lo era, che non fingeva amore, ma forse lo era. La pelle sapeva di sale, e i capelli di lei del sudore microscopico che stanziava sotto la nuca.
Era stata felice? L’avevo già notati la magrezza e gli occhi di ferro, la pupilla che sembrava risucchiare lo spazio che era stato dell’iride?

I buchi, io l’avevo visti? Avevano chiesto dopo gli amici.
Erano arrivati tutti e la giornata appariva ancora più bigia, ci sembrava dovesse spuntare anche lei da un momento all’altro, come faceva di solito, all’ultimo, sempre in ritardo, trafelata, ammanettata nel nostro ricordo, per sempre, alla maglietta Marella in vellutino rosso, al manubrio della bici, al caldo del pomeriggio, al rumore delle cicale quando ci incontravamo sotto le palazzine durante la siesta dei genitori. Ma stavolta sapevamo tutti che non sarebbe venuta, che la Graziella era abbandonata nella cantina della casa chiusa aspettando una lei che non era più, che mai più sarebbe stata.
Il prete aveva intimato il gesto della croce. Lo odiava lei. Se sapesse. Ma magra era ora dentro quel legno, accanto a un altare in cui non aveva mai creduto, che non l’aveva consolata, sollevata dalla sua esistenza friabile, dall’inconsistenza degli altri. Nuvole nere stazionavano sopra le teste dei convenevoli, delle condoglianze obbligatorie. Lei che diceva solo la verità, che non sapeva il male, che era tutta tendini, pensiero, slancio. Lei, l’avevamo abbandonata anche noi nella fragilità che l’avvolgeva come un burnus.
In macchina, dopo, da solo, riascoltavo le canzoni con la testa, quelle del walkman condiviso, litigato, grigio come la Graziella da uomo, come le sue ciabatte da mare, come la luna quella notte dell’eclisse, quando le avevo detto ti amo e lei aveva riso, per poi allontanarsi nel buio, da me, dal mio corpo in attesa di lei, dinoccolata come il gatto che era, dicendo «Ti sto facendo un favore». Di schiena, passo dopo passo, ogni passo un deraglio di mitra. Forse sapevo che non l’avrei più rivista. Nella mia testa ha ancora dodici anni, succhia senza malizia un ghiacciolo all’amarena, canta Self control, mi sorride dolce, attraverso le labbra viola.