“When the jaintor returned with the two other man, the whale was no longer there. Neither was the small boy. But the seaweed smell and the splashed, brakish water were there still, and in the pool were several brownish streamers of seaweed, floating aimlessy in the chlorinated water, far from home”
Walter Tevis – Far from home
Mentre si accorgeva di sognare il sonno si era sfilacciato e si era dissolto.
Si era svegliato sommerso dallo stesso chiarore lattiginoso che aveva cercato di arginare prima di addormentarsi: il vento aveva aperto la finestra e tirato via il telo che aveva incastrato intorno all’infisso, come tenda di fortuna, per trovare almeno il sollievo della penombra. La sveglia accanto al letto segnava le tre e dieci del mattino: l’allarme doveva essersi inceppato, o forse aveva funzionato, ma era così stanco che non lo aveva sentito.
Già un istante prima che l’immagine compatta della sua stanza di bambino perdesse consistenza, si era chiesto come potesse essere di nuovo in quella casa. Poi, mentre la luce gli apriva gli occhi, aveva creduto di essere ancora sulla nave. Alla fine aveva ricordato che era nella baia, da tre giorni, anche se in fondo non faceva nessuna differenza: sulla terra ferma o in mezzo all’oceano, era comunque lo stesso identico giorno artico, la stessa notte senza notte che si ripeteva ormai da un mese.
Si era alzato e aveva iniziato a vestirsi in fretta. Portava ancora addosso la felpa che aveva usato nell’ultimo turno, ne aveva cercata una pulita rovistando nello scaffale che avevano trasformato in armadio. Marta doveva avere fatto la stessa cosa prima di uscire, perché c’erano vestiti sparpagliati ovunque nella stanza, sprazzi di colore che galleggiavano nel bianco della luce e il bianco delle pareti, dei pochi mobili, delle assi di legno del pavimento e del soffitto: ogni cosa era bianca dentro quella specie di cottage dove li avevano sistemati.
Aveva trovato gli stivali fuori, ancora incrostati di sabbia e di fango. Se li era infilati senza nemmeno abbassarsi, spingendoci i piedi dentro mentre si chiudeva la porta alle spalle, e si precipitava giù per la strada sterrata verso la spiaggia, ricordandosi, mentre procedeva controvento tra le folate secche che gli raschiavano la faccia, che forse aveva sentito Marta andarsene qualche ora prima, e forse l’aveva anche vista: una sagoma sbiadita che ondeggiava inconsistente nella stanza.
Nel sogno invece l’aria era una coperta morbida, e umida: gli si attaccava alla pelle e ogni movimento, anche il più impercettibile, gliela avvolgeva più stretta attorno al corpo, fino a quando non si poteva più scoprire. A lui non aveva mai dato fastidio sudare: aveva sempre amato l’estate in quel buco di paese affossato dalle montagne dove i suoi lo portavano in vacanza, l’aveva amata anche quando l’afa scivolava giù nella valle, di notte, e si addensava nella sua camera lasciandolo a boccheggiare nel letto, né sveglio né addormentato, come un pesce arenato sul bagnasciuga.
Mentre respirava a stento una folata d’aria più secca era entrata dalla finestra aperta; dalla strada era arrivato l’odore dell’asfalto e degli abeti, mescolato a qualcosa di più aspro e più strano.
Si era alzato, inseguendo la brezza aveva raggiunto la finestra, aveva appoggiato i gomiti sul davanzale e aveva guardato giù: il lampione acceso disegnava un cerchio giallo sul muro di confine tra la strada e l’impianto sportivo di fronte alla casa, e la luna un altro, più in alto, appena accennato nella foschia. Poi, mentre riprendeva fiato, l’alito d’aria era diventato vento, un vento di raffiche brevi che lo aveva frustato sulla faccia, e aveva sgombrato il cielo. Allora la luna aveva aperto il suo occhio sul rettangolo d’acqua della piscina, appena oltre il muro, oltre la fila degli alberi, e lui finalmente l’aveva vista.
C’era una balena incastrata nel perimetro della vasca: immobile; enorme; lucida sotto la luce; un guscio di madreperla nera appena punteggiato da schegge di cirripedi e di alghe secche.
Prima che l’immagine iniziasse a dissolversi nel soffitto bianco del cottage, prima che iniziasse a domandarsi come fosse possibile essere di nuovo in quella stanza, l’aveva guardata con attenzione: la balena nella piscina comunale, magnifica e impossibile, la stessa del racconto che suo padre gli leggeva da bambino, nelle notti d’estate, nella casa avvolta dal buio ai piedi delle montagne, per farlo addormentare.
Era riuscito a contarle mentre passava tra le rimesse dei pescatori, e aveva scavalcato l’ultimo tratto di dune prima della spiaggia. Erano aumentate: erano almeno quindici. Forse di più, almeno venti, di varie dimensioni: degli enormi sacchi blu cobalto afflosciati sulla riva, brillavano iridescenti sotto il chiarore del sole che tentava ogni sera di accennare un tramonto, e invece non riusciva a fare altro che rimanere sospeso sopra l’orizzonte, schiacciando il mondo nella luce irreale che gli faceva bruciare gli occhi.
Una manciata di volontari si erano aggiunti al gruppo dei ricercatori: forse Árni alla fine era riuscito a convincere qualcuno dei pescatori del posto a dare una mano. Le attrezzature del Centro di Ricerca erano arrivate: stavano accatastate ai piedi di una duna dove Mathias gesticolava, impartendo istruzioni al resto del gruppo. Alcuni turisti, più in alto, scattavano selfie e fotografie; la troupe di un’emittente locale aveva parcheggiato un furgone alla fine della strada, e si preparava per un servizio del notiziario del mattino.
Marta era lontana, con l’acqua alle ginocchia cercava di rimanere in equilibrio nella marea: lo aveva visto arrivare e agitava le braccia, gridava qualcosa che lui avrebbe sentito, se le raffiche di vento non avessero frantumato ogni frase in suoni intermittenti. Le parole si ricomponevano man mano che si avvicinava: gli stava gridando di muoversi, di muoversi cazzo, che il suo turno di riposo era finito da quasi un’ora; che se ne erano spiaggiate altre sette; che doveva trovare Árni e aiutarlo con una delle più piccole; che dovevano fare in fretta, sbrigarsi; che tra meno di due ore sarebbe calata la marea.
Voleva raggiungerla, raccontarle che aveva fatto di nuovo quel sogno, e che forse era solo colpa di tutta quella luce che lo stordiva, e che rievocava fantasmi. Ma le aveva risposto con un cenno della testa, e era passato avanti, cercando Árni tra i massi neri disseminati sulla spiaggia. Lo aveva trovato che farneticava in islandese: riempiva un secchio d’acqua a ogni riflusso d’onda, poi lo rovesciava sul dorso di uno degli animali più piccoli. Margret gli stava a fianco, immobile, con la faccia sfinita di una che non sa più che fare. Con una specie di riflesso automatico aveva iniziato a tradurre per lui le frasi sconnesse appena lo aveva visto arrivare: un mese intero sulla nave, sbattuti su un gommone, fradici, stanchi, a inseguire le baleniere, e eccoli lì, stupidi animali, venuti a crepare da soli, sulla spiaggia, davanti a un gruppo di giornalisti e di turisti che scattavano fotografie.
Aveva fatto un giro intorno all’animale, era per metà nello strato basso d’acqua, ma la coda sprofondava inerte sul bagnasciuga. Aveva preso anche lui uno dei secchi accatastati poco più avanti, sulla sabbia asciutta, e aveva iniziato a riempirlo e poi a svuotarlo, con movimenti costanti: prendeva un po’ di mare, poi lo faceva scivolare verso la coda e sui tratti di pelle che già mostravano i primi segni di disidratazione.
Il faretto della telecamera si era acceso a pochi metri da loro e il giornalista aveva preso a parlare alle sue spalle, chiedendo qualcosa a Margret, che si era avvicinata, e aveva iniziato a rispondere: il vento gli gettava granelli di sabbia negli occhi e la sua voce cadenzata e stanca nelle orecchie. Mentre ripeteva il movimento, riempire e svuotare, aveva avuto l’impressione di sprofondare, o forse di sparire. Si era concentrato sulla sagoma nera di fronte a lui, sul suo contorno definito, seguendo le striature tremolanti che la luce gialla e artificiale disegnava sul dorso umido dell’animale.
La luce a incandescenza tremava e sfavillava, e poi trovava una sua stabilità. La lampada era vecchia, una di quelle piantane col paralume di tela: suo padre diceva che l’avevano trovata lì quando avevano comprato la casa, insieme a altri mobili antichi, e non avevano voluto darla via.
Un cerchio giallo, un po’ scontornato ai bordi, si apriva sulla poltrona, e un piccolo pezzo di buio evaporava. Il resto della stanza era sparito, solo un ricordo nell’oscurità che inghiottiva tutto, anche lui, che annaspava nel caldo e nell’attesa di quel rito notturno. La voce si espandeva senza tono, passava tra le parole con la cadenza di una litania. Ma a lui piaceva così, una cantilena che si spargeva tra le mura spesse della casa. Ogni cosa sarebbe ricomparsa al mattino, insieme a sua madre che entrava a dirgli che la colazione era pronta: la finestra che incorniciava la strada e l’impianto sportivo, e su un lato il bosco che si arrampicava sul crinale; le pareti di pietra bianca e il rosso mattone del pavimento; i suoi giocattoli sparsi ovunque e la collezione di foglie in ordine sulla scrivania.
Per ora ognuna di queste cose era racchiusa nel cerchio della lampada, nella voce di suo padre che saturava l’aria, e nella storia che si ripeteva ogni notte: la balena che appare nella piscina comunale; il bambino che la trova; il custode che scappa via da quello che non riesce a capire; il folletto che la riconsegna al mare. La storia era sempre la stessa. Suo padre gli domandava ogni volta se volesse ascoltarne un’altra, ma lui scuoteva la testa e chiedeva di nuovo quella. Alcune notti era il bambino che osserva; a volte era la balena spaesata nel rettangolo della piscina; altre il custode pieno di meraviglia e di terrore; altre ancora il folletto che esaudisce ogni desiderio. La storia era sempre la stessa, ma a lui sembrava ogni volta diversa.
Una notte si era svegliato di soprassalto, un temporale estivo era iniziato con tuono in lontananza. Aveva inseguito nel buio l’odore dell’asfalto bagnato, e prima di chiudere la finestra aveva guardato giù, verso la piscina, e gli era sembrato di vedere un bagliore nel buio, una forma accennata nell’acqua nera. Era uscito scalzo nel corridoio, aveva raggiunto la lama di luce che arrivava dal salone sul fondo. Una musica bassa veniva dalla porta socchiusa. Non era entrato, e si era fermato a guardare: suo padre leggeva un libro sprofondato nel divano; sua madre dormiva, rannicchiata su un lato, con i capelli sparsi sulle sue ginocchia e la faccia distesa in un’espressione da bambina.
Li aveva osservati per un po’ restando in silenzio. Poi doveva essersi appoggiato alla maniglia della porta, che si era aperta. Sua madre si era svegliata, suo padre aveva smesso di leggere. Gli avevano chiesto se avesse avuto un incubo, lui aveva raccontato che forse aveva visto qualcosa nella piscina. Allora lo avevano riaccompagnato nella sua stanza, e avevano controllato insieme, affacciati alla finestra sotto la pioggia, perlustrando il buio, senza trovare né balene né folletti.
Era successo di nuovo l’anno prima che vendessero la casa, ma sua madre era rimasta in città quella volta, e con suo padre c’era già Carla. Suo padre aveva insistito perché fosse lei, quell’estate, a leggergli la storia prima di dormire: aveva acceso tutte le luci, la vecchia piantana e il lampadario, forse pensando che avesse paura del buio; aveva sistemato accanto alla poltrona un ventilatore che sollevava raffiche d’aria e sovrapponeva un rumore scattoso alle parole. Leggeva a voce troppo alta, dando un’intonazione al bambino e una diversa al custode. Rideva, quando la storia le pareva divertente, con quella risata stridula che arrivava a volte anche dalla camera di suo padre. Aveva fatto finta di addormentarsi, e quando se ne era andata, spegnendo tutte le luci, era rimasto sveglio nel buio. Si era alzato, si era affacciato alla finestra, e di nuovo gli era sembrato di vedere qualcosa nel rettangolo della piscina. Era uscito dalla stanza, e voleva chiamare suo padre, ma dalla porta socchiusa del salone arrivava una musica che non aveva mai sentito prima, e la voce di Carla che parlava e rideva.
Aveva sentito qualcuno che gli poggiava una mano sulla spalla e si era girato di scatto. Marta aveva gli occhi arrossati, sgranati come quando lo baciava, senza preavviso, nel mezzo di una conversazione accesa. Mathias e gli altri avevano finito di preparare le attrezzature, volevano il suo consulto per una delle più grosse, per decidere se tentare con le imbragature e la barca.
Con le gambe intorpidite si era addentrato nell’acqua alta, e aveva raggiunto gli altri che si affannavano, da lontano sembravano formiche elettrizzate attorno al carapace di un insetto gigante. Respirava ancora bene, un raschio d’aria entrava e usciva dallo sfiatatoio a intervalli regolari. Si era arenata distesa sulla pancia nella parte più alta della marea, e era così grossa che se fosse scivolata di lato non sarebbero riusciti a girarla, e sarebbe annegata. Aveva iniziato l’ispezione, in cerca di lacerazioni o ferite: le pinne galleggiavano appena nell’acqua e sembravano intatte. Aveva tirato fuori una piccola torcia e si era avvicinato alla bocca.
Poi si era fermato, di colpo: la megattera aveva spalancato il suo grosso occhio miope e lo aveva guardato. Era un biologo marino, e sapeva benissimo che non era possibile, o quantomeno che era improbabile: però lo aveva guardato, come se si fosse svegliata anche lei, all’improvviso, pensando di essere altrove sulla scia di un sogno appena evaporato.
Allora si era ascoltato gridare, gridare a Mathias e agli altri di portare le imbracature, di preparare la barca, di far venire un’altra squadra, di fare in fretta, di scavare fino a spezzarsi le braccia nella sabbia e nell’acqua, di spingere e di imbrigliare quello scoglio vivente, di tirare e tirare ancora fino a farlo scivolare oltre la secca.
Sarebbero venuti la mattina dopo a portare via le carcasse. Ne avrebbero portata qualcuna al Centro per l’autopsia: Mathias era fiducioso sul fatto che almeno stavolta avrebbero capito perché, ma lui sapeva già che, come sempre, non avrebbero trovato niente.
Erano riusciti a riportarne a largo solo sei. La prima si era lasciata trascinare, stordita dal rumore della barca. Poi, quando le avevano tolto l’imbracatura, con un colpo di coda era ritornata indietro, e si era arenata di nuovo sulla spiaggia. Una soltanto aveva ripreso spontaneamente il largo. Altre quattro, rimesse in mare, l’avevano seguita.
Era la sua balena. Era davvero ridicolo pensarlo, lo sapeva benissimo, ridicolo e quasi folle. Ma quella era la sua balena. Era rimasto sulla barca a guardarla, l’aveva guardata fino a quando, abbastanza vicina al limite piatto dell’orizzonte, si era immersa, sollevando la coda con un movimento lento e potente, e era sparita, una linea verticale e nera contro il cielo che passava dal bianco all’azzurro. Allora era rimasto un po’ con lo sguardo sull’orizzonte vuoto, poi si era girato verso Árni che teneva il timone, e gli aveva detto che era andata, che era andata e che potevano riaccendere il motore, e tornare a riva.
Era rientrato al cottage nel pomeriggio, o forse era già sera: ormai non ne aveva più certezza. Si era tolto i vestiti fradici e insabbiati e si era infilato sotto la doccia. Marta era rientrata poco più tardi e lo aveva trovato disteso sul letto, con la faccia schiacciata contro il cuscino: aveva rinunciato a sistemare di nuovo il telo sulla finestra, galleggiava alla deriva nella luce bianca.
Gli si era sdraiata accanto premendogli il viso su una spalla, forse cercando anche lei di riposare un po’ lo sguardo, poi aveva iniziato a parlare a voce bassa, di come avevano organizzato le attività per il giorno successivo: ripeteva che avevano fatto il possibile, che tutti avevano fatto il possibile, lui soprattutto, che mancava poco alla fine del progetto, che presto sarebbero rientrati. Lui doveva averle risposto qualcosa, ma non era già più esattamente lì.
Con gli occhi chiusi ridisegnava i contorni della casa. Forse, in quel momento, il sole era già sparito dietro le montagne, e qualcuno respirava l’odore degli abeti che impastava l’aria notturna; forse aveva tenuto la vecchia piantana, e la lampadina a incandescenza ora disegnava un cerchio giallo ai piedi del suo letto. Forse la voce di suo padre aveva ripetuto così tante volte quella storia da avere impregnato le pareti, un’eco solidificata negli interstizi tra le pietre, e qualcuno ora la ascoltava risuonare impercettibile tra le mura. Forse la sagoma di sua madre addormentata era rimasta impressa nel vecchio divano di velluto, un negativo, e qualcuno ora, in una camera oscura o in un ritaglio dell’immaginazione, lo stava sviluppando, come una fotografia.
Marta continuava a parlare, ma lui non ascoltava più. Mentre scivolava nel sonno aveva pensato, per un ultimo istante, al sogno, e poi alla balena. L’aveva vista ancora, mentre si inabissava, e spariva in verticale nel ventre buio e denso dell’oceano, mentre lui rimaneva lì, incastrato su quella superficie accecante, in quel tempo rarefatto, lontano da casa.