Il cacciatore Ernesto Popotin è pronto. Il bazooka l’ha piazzato sul colle che sovrasta il camposanto del paese, circondato da fittissimi cespugli infestanti cresciuti senza ordine sulle tombe. È stato anni ad aspettarla, a studiarne le mosse, i percorsi, le mimetizzazioni nella terra e sotto al sole. Finalmente è arrivato il suo momento. Potrà dire ai compagni di classe e ai professori, quando stasera tornerà dopo la battuta di caccia, che il suo metodo innovativo funziona davvero, mostrerà la testa dell’animale ai parenti, la farà imbalsamare come ricordo di questa memorabile battaglia.
La vede uscire da una tana stretta, nascosta vicino a una lapide in terracotta, senza fiori né fotografie. Sono a dieci metri, l’uno dall’altra.
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Dal padre medico, Ernesto Popotin imparò i rituali della caccia e della pesca, durante le vacanze famigliari che si susseguivano a ritmi regolari ogni estate. Quando il medico perse la vita durante un’escursione in montagna per seguire le orme del lupo, ormai prossimo all’estinzione, Ernesto Popotin decise che avrebbe fatto il cacciatore di professione e vendicato la morte del padre.
Iniziò a studiare presso l’Istituto Tecnico Industriale per la Caccia e il Bracconaggio, insieme a tanti altri ragazzini speranzosi come lui. Imparò all’inizio le tecniche di sopravvivenza, come costruire un fuoco senza accendino, come alzare un riparo in caso di tempesta, come fuggire dalla furia improvvisa dei cinghiali.
In classe portava coltellini e tute mimetiche da guerra, si sporcava il viso con grassi e inchiostri animali, mostrava il petto villoso alle ragazzine estasiate. Mimava le lotte con i grandi predatori d’Africa, disegnando sulla lavagna scene di morte e di combattimenti, fra l’uomo e l’animale.
Superato brillantemente il primo semestre acquistò come accredito per le ricerche successive, la licenza di caccia e gli fu assegnato di conseguenza il porto d’armi. Durante la primavera si organizzò puntigliosamente per la prima ondata venatoria aperta ai nuovi adepti, che avrebbe visto centinaia di ragazzini misurarsi sul numero dei capi abbattuti, sul tempo di cattura e di sgozzamento, sugli appostamenti.
La stagione venatoria riguardava la caccia al cinghiale con reti e coltelli a serramanico, dalle lame lunghe anche cinquanta centimetri. Quello era il primo vero banco di prova, per il giovane Ernesto Popotin, perché superando l’esame con il cinghiale sarebbe stato promosso al secondo livello scolastico.
Gli organizzatori, che erano antichi cacciatori ormai spenti dalle fatiche a cielo aperto, ingobbiti e sordi, avevano liberato un grosso cinghiale addomesticato in una riserva di 2 ettari, al confine con il paese. All’animale erano state somministrate alcune dosi di un anestetico in modo da rallentarne e diminuirne le capacità selvatiche, e permettere al giovane cacciatore di vincere la sua prima battaglia, di renderlo consapevole del rapporto tra uomo e natura, di apprendere meglio i caratteri del dolore e della morte.
Ernesto Popotin uscì dalla capanna a lui assegnata, il luogo di preparazione meditativa dove s’era rilassato ascoltando il suono dei cinghiali quando entrano nei campi correndo e scalciando terra. Sapeva tutto del mammifero selvatico, dei suoi canini che formano due zanne robuste, del pelo scuro e setoloso, delle scarpe che se ne ricavano e della carne da cucinare all’aperto.
All’alba, quando il comitato organizzativo sparò un colpo in aria Ernesto Popotin si tuffò nell’erba alta, strisciando come un serpente. Provò a riconoscere le tracce della sua preda dal terreno, a sentirne l’odore.
Nascosto dietro un cespuglio di rovi, il cinghiale se ne stava placidamente a brucare l’erba, barcollando sulle zampe posteriori per via dell’anestetico. Adesso lo prendo al collo, pensò Ernesto Popotin. Si avventò sull’animale con il coltello in pugno, ma quando la lama trafisse la carne flaccida si rese conto che aveva colpito non il cinghiale addomesticato, ma un suo compagno. L’aveva colpito a una gamba, e l’urlo disumano che si propagò per tutta la riserva di caccia fece tremare gli organizzatori stessi, che sospesero immediatamente la gara.
Accorsero tutti a vedere cosa era accaduto, lasciando fuggire per sempre il cinghiale tossico dalla prateria venatoria.
Ernesto Popotin fu ovviamente sospeso dai laboratori pratici dell’istituto.
Tentò di rimediare all’errore commesso dedicandosi agli studi teorici e alle simulazioni virtuali con il computer.
Iniziò a mangiare carne di selvaggina pensando di calarsi meglio nella parte del vero cacciatore. O meglio, gli insegnanti della scuola venatoria gli facevano credere che si trattasse di carne selvatica. Invece un paio di operai andavano una volta a settimana nei pressi del mattatoio comunale, dove c’era un reparto di finte carni selvatiche, di finti cervi, finti antilopi, finte giraffe, gestito dagli immigrati del paese. Ordinavano quel tipo di carne finta, che probabilmente era stata elaborata nei laboratori chimici, e la portavano nella mensa dell’Accademia della Caccia.
Dopo un anno sabbatico Ernesto Popotin era pronto per una nuova prova d’esame, che l’avrebbe riammesso di nuovo ai corsi del primo anno: la caccia all’avvoltoio.
L’arma, un fucile ad aria compressa, che aveva scelto nell’armeria della scuola, una mattina di novembre, consigliato da un decrepito bracconiere senza un occhio e senza una gamba.
Gli avvoltoi un tempo volavano spesso in paese, festeggiando i decessi dei vecchi cacciatori che cadevano nei campi e che non desideravano né tumulazioni né incenerimenti delle ossa.
Volavano di giorno, e d’inverno, quando i camini fumavano legna bruciata mista a carne sintetica.
Il fucile ad aria compressa di Ernesto Popotin era un attrezzo terribile, pesante e complicato, che impallinava, disintegrandoli, volatili anche a migliaia di metri. Occorreva una forza fuori dal comune, per guidarlo, e una vista eccellente per mirarlo sulla preda.
Ma erano doti che lui possedeva, riconosciute anche dai professori che rientravano dal safari della domenica in riva ai laghi artificiali.
Quell’anno non c’erano stati molti cacciatori deceduti per errori umani, cioè fucilati dagli stessi amici bracconieri, o per incidenti di varia natura. Così era sceso anche il numero degli uccelli che volavano sulle carcasse umane. Da qualche mese tuttavia, il preside dell’Istituto della Caccia e del Bracconaggio, che era stato un valoroso cacciatore di quaglie, pluripremiato dagli amministratori nazionali con decine di medaglie alla carriera e trofei di caccia, stava studiando un metodo sperimentale per far tornare gli avvoltoi in paese. Riunitosi in una commissione speciale, aveva letto il documento davanti ai giornalisti e ai videoamatori, agli artisti e agli scrittori d’avventure.
Il comunicato s’intitolava: il dissotterramento umano mirato alla crescita di avvoltoi nella comunità montana.
Gli addetti ai lavori erano addirittura rimasti entusiasti di un simile procedimento. Anche il sindacato dei bracconieri aveva dato parere positivo, così si decise a un programma di esumazione di cadaveri dal cimitero nell’arco dei successivi sei mesi.
Ernesto Popotin sapeva che in quel periodo avrebbe dovuto dare l’esame per la riammissione ai corsi, così aveva seguito tutto il programma scientifico per filo e per segno.
Però qualcosa non funzionò come previsto. I cadaveri dissotterrati venivano lasciati marcire nelle fosse senza criterio, in attesa che gli avvoltoi riapparissero in cielo e finalmente si potesse dare il via alla stagione venatoria, con i trofei annuali, gli esami, i laboratori sul campo.
L’ultima mattina del programma di ripopolamento, comparve un solo esemplare del rapace da colpire, che volava stancamente sul camposanto sconquassato dalle ruspe e dalle ossa umane.
Tutti si allertarono. I cacciatori presero posto sulla collina con i fucili nuovi di zecca e i binocoli, il preside che aveva inventato il ripopolamento seguì tutta la vicenda collegato a un computer portatile allestito in zona, gli organizzatori dell’accademia decisero di inserire anche l’esame per Ernesto Popotin.
Lui fu il primo a vedere l’avvoltoio, con il mirino del fucile ad aria compressa. Lo riconobbe per il becco lungo e ricurvo all’estremità, lo riconobbe per le unghie poco uncinate. Lo riconobbe perché era l’unico uccello che volava sopra il paese addormentato.
Sparò all’improvviso, istintivamente. Il colpo venne udito dai bambini della scuola obbligatoria, dagli abitanti e dai commercianti, che uscirono di corsa per vedere l’ultima discesa dell’avvoltoio solitario.
Ma videro soltanto un uomo che cadde stecchito a terra, come un sacco pieno di sabbia. Era il preside raggiunto in pieno viso dal proiettile di Ernesto Popotin.
Il giovane cacciatore non solo fu espulso dall’Istituto, ma venne cacciato anche dai suoi stessi paesani, che avevano tanto creduto nelle sue capacità, nelle sue potenzialità.
Ernesto Popotin trascorse un lunghissimo periodo di depressione, ritiratosi in un casale diroccato sotto i ponti dell’autostrada. Ogni mattina usciva dal rudere di cemento per raggiungere un improbabile spazio naturale e studiare sul campo i passi degli animali selvatici. Percorreva centinaia di chilometri a piedi lungo l’autostrada, o nei sentieri limitrofi, senza mai incontrare potenziali prede da cacciare. Gli automobilisti lo illuminavano per dispetto con le luci abbaglianti, lo schivavano all’ultimo, lo insultavano lanciandogli oggetti di poco valore, monetine, giocattoli di rame, libri vecchi. Le ragazze che incontrava sulla strada gli proponevano offerte speciali per incastrarlo, due trombate al posto di una, unioni strabilianti senza profilattici, stantuffate con creme rinfrescanti.
I vigili urbani lo fermavano a ogni occasione per chiedergli la licenza di caccia, il porto d’armi, i documenti e gli esami sostenuti.
Lui andava avanti a testa bassa, ostinato, muto, come solo i cacciatori autentici sanno fare. Non si fermava davanti a nessun ostacolo. E proprio una mattina d’estate, quando il sole già bruciava sulla pelle secca e screpolata, la vide per la prima volta, nei pressi del cimitero. Una lucertola di modeste dimensioni, ma viva e vegeta tanto da fargli tornare il desiderio di riprendere l’arma e vendicare il padre.
Scartò immediatamente l’ipotesi del fucile ad aria compressa, perché era molto tempo che non lo utilizzava, anzi era dal giorno dell’avvoltoio che l’aveva appeso al muro. Quindi andava manutenzionato da un intenditore onesto, e in paese non ci aveva più messo piede. Preferì collegarsi a internet, da una postazione illegale e ordinare un bazooka maneggevole della seconda guerra mondiale.
Studiò il rettile per settimane, ne conobbe i percorsi sotterranei, la tana preferita, le abitudini.
L’ultima domenica di agosto ci fu un temporale, forte, interminabile, una pioggia insistente giallognola, che allagò tutte le strade e trascinò fango e detriti nei letti dei fiumi in secca da intere settimane. Ernesto Popotin decise che il giorno dopo avrebbe dato la caccia alla lucertola.
Dall’alba si mise in agguato, sul colle del camposanto, a poche decine di metri dalla tana del rettile. Si cosparse di foglie secche e fiori appassiti, per mimetizzarsi, posizionò il bazooka in direzione del covo, aspettò.
Quando la lucertola uscì dalla buca il cacciatore Ernesto Popotin non si lasciò scappare l’occasione.
Un camionista che passava proprio in quel momento, portando un carico di frutta proveniente dai paesi dell’est, racconta di aver visto una luce più accecante del sole rischiarare tutto il cimitero, di aver sentito un poderoso boato, tanto da farlo sobbalzare sul sedile e farlo accostare sulla piazzola d’emergenza credendo a un guasto meccanico al tir.
Il camionista, una volta sceso dal mezzo, ha visto saltare in aria una testa di un ragazzo, l’ha vista rotolare sulle tombe come un pallone, per poi schiantarsi sulla lapide del preside impallinato da un promettente cacciatore.
Una coppia di splendidi avvoltoi volò diversi giorni dopo sul cimitero del paese, sorvolando la riserva di caccia dove un cinghiale disintossicato stava sventrando le carcasse di qualche bracconiere.
Una lucertola di modeste dimensioni decise di scavarsi un’altra tana, più lontano possibile dall’autostrada e dal paese di Ernesto Popotin.