L’incrocio

«Lui ne ha sentite tante. Non farci caso se ti sembra distratto».
Comincia così, con Andrea che mi parla dopo una cena al Covo, l’enoteca con cucina a due passi da casa. Stiamo bevendo l’amaro. Andrea mi parla a voce bassa. Fa così quando è serio, si irrigidisce tutto e ti guarda quasi in cagnesco.
«Bella cazzata», dico.
«No!» Ingolla il braulio e sbatte il bicchiere. «Ho provato. C’era».
«Ma dài».
Andrea è un tipo quadrato. Uno che schiaccia le fantasie come si spiaccicano le zanzare d’estate. Eppure, Andrea punta il dito e fa: «Vacci».
Non riesco a capire se ha bevuto troppo o se mi sta prendendo in giro.
«Sì, vabbe’». Faccio oscillare il mio amaro del capo, ne osservo i riflessi ramati. «Dove hai detto che sta?»
Andrea si china verso di me, abbassa ancora di più la voce e comincia a spiegarmi dove posso incontrare il Diavolo.

Mi piace fare lunghi giri in macchina. Quando Bianca lavora fino a tardi in cooperativa o esce con le amiche, prendo l’auto e m’infilo in campagna. In Brianza ci sono tante stradine dove puoi spegnere i fari e guidare sentendo le foglie che accarezzano i vetri, o abbassare il finestrino e annusare l’aria scura.
Una sera, Bianca mi scrive: “Cena saltata. Torno alle 22”. Niente “☺”, o “baci”, o “a dopo”.
Accendo il motore, lascio che si scaldi. La luce dei fari si proietta in un tunnel incorniciato da frasche cadenti.
L’incrocio è sulla strada tra Bernareggio e Vimercate. A sinistra case condominiali, giardini illuminati da lampioni bassi. A destra, la muraglia del cimitero di Bernareggio. Arrivo mentre scatta il rosso, metto in folle. Solo allora mi torna in mente la conversazione con Andrea.
«Ti metti al centro dell’incrocio con le quattro frecce. è importante che le tieni accese».
«E poi?»
Andrea taglia l’aria. «Aspetti».
«Potevi inventarti una storia migliore».
«Vedrai». Andrea fa un sorriso di commiserazione, a me, povero stolto.
Il verde scatta, si moltiplica nelle pozzanghere che bagnano l’asfalto. Mentre imbocco l’incrocio penso all’aria inesorabile con cui Bianca si toglierà le scarpe e mi passerà accanto per andare a rintanarsi in bagno.
Rallento, metto di nuovo in folle. Schiaccio il pulsante delle quattro frecce. L’auto si riempie del suo fremito, tictactictactictactictactictac…
Mentre ci salutiamo, Andrea mi tiene la mano un po’ più del solito. «Fidati», dice. «Ti cambia la vita».
Rilasso le spalle, mi appoggio allo schienale. Si sta bene qui, ma se passa qualcuno e mi vede piantato con i lampeggianti?
Scatta il rosso. Tamburello le dita sul volante.
Tictactictactictactictactictactictac…
Scorro il pollice sul display dello smartphone. Andrea ha parlato delle quattro frecce, ma non ha dato istruzioni sulla musica.
Apro Spotify, una voce febbrile canta ti ho visto danzare sul portico scricchiolante, la bocca spalanca le porte, ecco cosa c’era dentro, ho visto quello che ho visto…
Il tempo della canzone, poi metto in moto e la finisco con ‘sta cazzata.
Mi sfrego le palpebre. Tante lucine bianche si accendono nel buio. Scatta il verde. Apro gli occhi, li punto nello specchietto retrovisore.
Il cuore si ferma.

Mentre faccio manovra per uscire dal parcheggio del Covo, Andrea si pianta accanto a me. Abbassa il finestrino e mi fa cenno di fare lo stesso.
«Dimenticavo», dice. «Non devi mai, mai, mai voltarti indietro».
«Che?»
«Devi guardare nello specchietto. È importante. Hai capito?»

Due occhi. Ci sono due occhi nel retrovisore. Pupille a fessura e iridi gialle, luminose. Le iridi di un gatto. Ho la schiena gelata. Dal telefono continua a uscire la musica, a volume basso, come se qualcuno l’avesse ridotta a un sottofondo. Non io.
Il sudore m’impuzzolisce le ascelle. Gli occhi gialli non hanno ciglia né palpebre. E c’è un altro odore, oltre a quello della mia paura. Terra e foglie cadute. Riempie l’abitacolo.
Gli occhi gialli mi scrutano. Se solo potessi girarmi. Ho il collo bloccato. Che faccio?
Il colpo di clacson mi frusta la schiena e interrompe la paralisi. Mi giro di scatto. Il sedile posteriore è vuoto. Oltre il lunotto, un’auto sfareggia impaziente.
Alzo la mano a mo’ di scusa. Parto con il rosso. Il gelo alla schiena si tramuta in ruscelli che mi inzuppano la canottiera.
Accelero in direzione di Bernareggio. Faccio in tempo a notare la macchina che ha suonato per farmi sgomberare la strada. Si è fermata al centro dell’incrocio.
Con le quattro frecce.

Sono talmente sottosopra che non bado al fatto che Bianca rincasa senza parlare e fa una doccia lunga un’ora e mezza. Ignora i rigatoni che le ho lasciato in caldo, si fa un’omelette e stappa una birra. Io chatto con Andrea, lei con ignoti. Alle 23.30 va di nuovo in bagno e poi a letto.
Mi corico al suo fianco, continuando a bombardare Andrea di messaggi. Non risponde.
Nel buio costellato di striscioline, fisso la schiena di Bianca. Un tempo era naturale posarci un dito e seguire la linea della spina dorsale, lentamente, per vedere dove mi avrebbe portato. Ora mi limito a fissarla come fosse un reperto archeologico, un’antichità senza scopo.
Immagino di raccontarle tutto. «Cos’hai detto? Niente? Ti è apparso il Diavolo e tu fai scena muta?»
Probabilmente la userebbe come prova per ribadire che sono un inconcludente. Uno che non sa cosa vuole, e manco se lo domanda.
Mi metto supino, un braccio sugli occhi. Mi addormento convinto che sognerò gli occhi gialli, invece no. Faccio un sogno nero e informe. Dietro l’oscurità, però, c’è un odore. Foglie morte.

Vedo Andrea il giorno dopo, a pranzo. Lo tempesto di pugni sul braccio.
«Oh, ma che hai?»
«Che ho? Mi sono cagato sotto!»
Lui infilza un carpaccio e mi guarda come se stessimo parlando del mio 7 e 30.
«Com’è andata?»
Gli racconto di me paralizzato e del colpo di clacson.
«Devi andare più tardi, così non rischi che arrivi qualcuno».
Fisso i suoi occhi grigi, che mi sono sempre sembrati la quintessenza del buonsenso. Intravedo una follia ragionata che mi fa accapponare la pelle.
«Col cazzo. Mai più».
«Sbagli. Non ci hai neanche parlato».
«E che dovevo dire?»
«Quello che vuoi. Cosa si dice a uno che hai appena conosciuto?»
Butto il tovagliolo e mi alzo. Andrea fa per trattenermi, ma la mia espressione lo dissuade. Si risiede mentre pago il conto e schizzo fuori dal bar con la testa che ribolle.
Da lontano, mi grida: «Pensaci!»

La sera io e Bianca litighiamo, tanto per cambiare. Causa della lite è l’opportunità o meno che lei mandi un messaggio a un’amica in rotta col fidanzato. Non vuole intromettersi, però si sente una vigliacca a non esprimere il suo parere – essendo cosa nota e universalmente riconosciuta che il ragazzo di Marika è un cretino. Le dico che, se è così nota, certo anche Marika ne è al corrente. Lei ribatte che non la sto aiutando a decidere. Abbandono la conversazione e sparecchio, cosa che la fa arrabbiare ancora di più perché è la mia resa tipica.
La serata finisce con lei che mi comunica l’intenzione di andare dai genitori nel weekend. La accompagno? Ho da lavorare. Benissimo. Non sa ancora se dormirà da loro, probabile di sì.

Le tre. Il semaforo pulsa di una smorta luce gialla. Ascolto il mantra delle quattro frecce risuonare come una litania, una invocazione.
Osservo le mura del cimitero, le pozzanghere brillanti, e subentra una strana tranquillità. Anche le cose più terribili finiscono per diventare familiari. Penso a Bianca nella sua cameretta a Bergamo che dorme (se dorme) coricata sotto i poster di band che non ascolta più.
Torno allo specchietto. Gli occhi sono lì. Un odore di muschio impregna l’abitacolo. Mi tornano in mente le parole di Andrea. Cosa si dice a uno che si è appena conosciuto?
«Mi chiamo Davide. Ho trentatré anni. Faccio il correttore di bozze».
Sembra un colloquio di lavoro… anche se le pupille strette e nere hanno un fremito sentendo l’età.
«Non so perché sono qui. Me l’ha detto Andrea. Conosce Andrea?»
Gli occhi saettano per un attimo a destra, verso il finestrino. Si sta annoiando?
I lampeggianti scandiscono le pause come il metronomo di un musicista pazzo.
«Io non credo», dico.
Le pupille si allargano, sento la fronte bruciare. Se lo specchietto non facesse da tramite – penso all’improvviso – non potrei sostenere il suo sguardo.
«Non credo in Dio», dico. Quindi neanche al Diavolo.
La risata ricorda il crepitare della ghiaia quando cammini su un selciato.
«E chi se ne frega».
Le prime parole. Vengono dalla mia zona cieca. Non un fruscio, non uno strusciare di piedi sul tappetino. Solo questa voce pietrosa.
«Crederci o meno non c’entra niente». Un lampo negli occhi gialli. Divertimento?
«Non capisco».
«Tu, il Papa, l’Esselunga, esistete a prescindere che qualcuno ci creda. Vero?»
«Sì».
«Non parliamo di fede. Parliamo di regole. Tu hai seguito la procedura, ed eccoci qua».
«Ok» dico, anche se niente è ok.
«Allora?»
Mi sembra di avere una palla di polvere in bocca. Deglutisco. «Allora che?»
«Cosa vuoi».
Non è una domanda. Suona come una constatazione, simile al «Dica» svogliato di un impiegato della posta.
Sento il cuore sintonizzarsi con il ticchettio delle quattro frecce. Gli occhi gialli mi scrutano. Senza emozione, come se mi studiassero da un vetrino.
Cosa vuoi? È la frase che Bianca ha ripetuto più spesso negli ultimi mesi. Cosa vuoi da me, da te stesso, dal lavoro, dalla vita?
«Non so».
Le pupille non si muovono. Sembrano fiamme di candela congelate.
«Non sprecare altre notti».
All’improvviso lo specchietto è sgombro, posso girarmi e guardare la strada sparire dietro una curva.
Che cosa voglio?
Abbasso i finestrini e resto lì ancora un po’, aspettando che l’odore di muschio svanisca.

La casa editrice mi propone di correggere un manuale di auto-aiuto, “Conquistando la felicità”. L’ha scritto un ex ragioniere che ha superato il lutto per la moglie facendo meditazione subacquea con i lamantini.
Sono in bolletta e lo prendo al volo. Bianca è nervosa, gira per casa come una tigre in gabbia. Metto in sacca penne e manoscritto e mi trasferisco in biblioteca.
Rientro sabato pomeriggio. Bianca non c’è. Accendo il telefono, che spengo sempre mentre lavoro, e trovo un suo vocale. 4 minuti e 43.
Mi faccio una doccia, bevo tre quarti di un cartone di succo d’ace, aggiungendoci del ghiaccio anche se è già freddo.
Prendo il cellulare, lo sistemo sul tavolo e faccio partire il vocale. La stanza si oscura a poco a poco mentre Bianca mi spiega con voce incolore, senza tentennamenti né groppi alla gola, perché le cose non sono più le stesse e perché non torneranno come prima e perché tutto è finito.

Il pub “La Locomotiva” è pieno dello strepito di gente meno sola di me. Trovo uno sgabello orfano, mi siedo in mezzo al frastuono delle comitive. Il frastuono aiuta. La birra si scalda mentre la sorbisco compostamente. Non riesco a ubriacarmi, Bianca non si stupirebbe.
«Cerchi sempre di avere il controllo perché hai paura. Non si può vivere così».
All’una e un quarto m’infilo in uno sterrato. Lo schermo del telefono è l’unico bagliore. Faccio un vocale dicendole cosa penso di lei e della vigliaccheria di lasciarmi su whatsapp. Poi penso a come suonerà la mia voce, che a ogni parola s’incrina sempre più, e a come le basterà alzare un sopracciglio per distruggere dalle fondamenta l’edificio del mio furore.
Cancello il vocale.
Una foglia di platano volteggia nel buio posandosi sul parabrezza. La osservo con le mascelle contratte, continuando a ruminare frasi che nessuno sentirà. Stringo gli occhi e guardo il mio riflesso nel retrovisore.

A gennaio, sul profilo Facebook di Bianca compare una foto. Si è fidanzata con un collega della cooperativa. Il selfie di loro due al ristorante – una graziosa terrazza con vista sul lago d’Iseo – mi strappa al letargo. Seguono altre foto. Serate in locali a Milano che non abbiamo mai frequentato.
È iniziata quando stavamo insieme. Un punteruolo mi incide questa certezza nello stomaco.
Nelle settimane successive batto i luoghi della nostra storia. Pub, cinema, librerie, i sentieri intorno a Montevecchia dove ci inoltravamo nelle domeniche di sole. Sono convinto che li incontrerò. Non succede. Bianca ha una vita differente (è sempre più spesso a Milano, stando a Facebook). Sono stato rimosso, editato senza neanche il privilegio di una riga rossa.
Un mese dopo la rivedo. Sto tornando a casa, i tergicristalli gemono spazzando il nevischio che da giorni si riversa sulla Brianza sputato da un cielo livido. Il riscaldamento ansima e nell’abitacolo infuria 21st Century Schizoid Man. Sulla provinciale, una Renault blu mi passa accanto nella direzione opposta. Intravedo Bianca svaccata al posto del passeggero, le gambe allungate e i piedi sul cruscotto. Non riesco a vedere lui. L’auto fila via. È troppo rischioso fare inversione e seguirli. A dire la verità, l’idea non mi sfiora nemmeno.
Però mi viene voglia di…

…rieccomi. Motore spento, quattro frecce. Robert Fripp canta di essere un figlio della luna.
«Bentornato».
Il tono è secco, ma negli occhi gialli c’è… tenerezza? O forse sono io che ormai vedo appigli dove non esistono.
«Ho deciso».
«Bene».
«Io…»
«Sì».
«Voglio…»
«Avanti». Una nota d’impazienza, un fremito delle pupille.
«Voglio che lei paghi».
Gli occhi gialli ardono. L’odore di sottobosco è più forte che mai. Una mano sbuca da dietro il sedile e mi afferra la spalla. Il cuore s’ingolfa, tomp, stenta, riparte gracchiando come un motore in avaria.
Le dita sulla mia spalla hanno quattro falangi ciascuna, finiscono con unghie aguzze e sporche di terra.
Vorrei staccarmi ma la cintura me lo impedisce. La mano, anche se preme leggermente, mi inchioda al sedile. Un’altra mano, alla mia destra, impugna qualcosa.
Una penna d’oca. La posa sulla mia guancia e ci scava un minuscolo solco. Grido, una gocciolina tinge di rosso la punta, gli occhi gialli splendono.
Non so come ci sia finito, ma c’è un foglio sulle mie gambe. Carta antica, tipo pergamena, arricciata agli angoli. C’è scritto qualcosa di incomprensibile. Lui mi porge la penna d’oca. La goccia di sangue cade dalla punta e macchia il foglio con un plic.
«Firma», dice.
Le dita si flettono sulla spalla sinistra. Sento le unghie infilarsi tra le fibre del maglione. Intingo la punta nella goccia di sangue che si allarga in un laghetto scuro, e scrivo il mio nome.
La mano che mi ha passato la penna d’oca prende il foglio, lo scuote appena per far asciugare il sangue, si ritira. Le dita che mi stringevano la spalla battono cordialmente prima di congedarsi.
«Bisogna seguire la tradizione. Regole, sempre regole».
Quando torno a guardare nello specchietto, gli occhi sono come li ho sempre visti: gialli, felini, seducenti.
«Siamo d’accordo».
Come rispondendo a un comando, la macchina si accende. Sono di nuovo solo mentre il motore si scalda e Robert Fripp canta la sua nenia spaziale.

Quella notte, la temperatura scende a -13°. È la più forte ondata di maltempo dal 1995, diranno il mattino dopo al telegiornale. Il nevischio si trasforma in bufera che abbatte gli alberi e fa crollare la recinzione di un campo da calcio. Le strade in mezzo ai campi si lastricano di ghiaccio. Per una di queste stradine, verso le 2.30 della notte tra il 12 e il 13 febbraio, un’auto sbanda e si ribalta in un fosso. Verrà trovata cinque ore più tardi. Il veicolo del soccorso stradale si inerpica in mezzo alla bufera, annaspa sulla carreggiata in grado a stento di contenere un’utilitaria. La Renault blu scintilla per il ghiaccio che ha coperto i finestrini. Estraggono due corpi. Bianca è senza scarpe. Immagino stesse dormendo con i piedi sul cruscotto. Lui si è fracassato il petto contro il volante. Non è partito l’airbag, forse a causa del gelo. La neve si stende sulla Brianza come un drappo funebre. Lutto diffuso. Scorro i post di amici e parenti sui social e mi accorgo di sentire solo una vaga occlusione. L’abbozzo di un dolore. Non partecipo ai funerali, che si tengono mentre infuria la nevicata. Qualche giorno dopo vado al cimitero di Vimercate. Resto in piedi davanti a lei che ride su uno sfondo blu. L’hanno ritagliata da una nostra foto. Policoro, agosto 2011. La osservo finché braccia e gambe perdono di sensibilità, poi me ne torno a casa, mentre la neve piega l’ombrello.

La casa editrice mi propone una sostituzione per maternità. Al primo aperitivo con i colleghi conosco Caterina, l’ufficio stampa. Ha i capelli rossi, le piace il cinema e ride alle mie battute. A marzo si trasferisce da me. È più bella di Bianca, più vorace nel sesso, più dolce nell’intimità.
Per un po’, al mattino, la prima cosa che faccio è guardarmi allo specchio. Passo un dito sul taglietto dal quale lui ha preso una goccia di sangue. A poco a poco il segno sbiadisce. La casa editrice parla di assumermi entro fine anno. Caterina mi presenta ai suoi. Tutto va bene.
Un lunedì ricevo un messaggio di Andrea: “Tieniti libero sabato”.
Non è da lui essere così perentorio. In genere sono io a proporgli di uscire. Scrivo: “Ok, io e la Cate ci siamo”.
Mentre mi sto lavando i denti arriva la risposta. “Solo tu. È importante”. Rispondo “?”
Andrea non scrive più e mi dimentico del messaggio fino a sabato: “Passo da te alle 18”.
Fisso il cellulare. Caterina sta dicendo qualcosa sulla presentazione di un libro. Dico che vedo Andrea per una birra, la raggiungo dopo.
Quando Andrea passa a prendermi, il cielo si sta tingendo di porpora e le ombre macchiano i cortili e le stradine di Vimercate.
«Dove andiamo?» gli chiedo.
«C’è un raduno».
«Dove?»
«In un posto. Ci vanno tutti».
«Tutti, chi?»
«Tutti».
Invece di protestare, mi abbandono sul sedile e guardo la campagna scivolare oltre il finestrino. Andrea si infila in un campo, poi nel bosco. Accosta e scendiamo. Il cellulare non prende. Lo ficco in tasca e gli vado dietro, borbottando.
«Be’?»
Mi rimprovera con gli occhi. Sii serio, dice. Lo seguo lungo un sentiero sconnesso, tra tronchi e cespugli spinosi. Normalmente apprezzerei la camminata, ma si è fatto buio e d’un tratto il bosco è pieno di fruscii, scalpiccii, sospiri. Non riesco a contarli ma sono numerosi – uomini e donne che passeggiano intorno a noi.
Andrea apre il cappotto e lo lascia cadere a terra. Poi si toglie la felpa. Vedo gli altri sbottonarsi giacche, camicie, pantaloni. Il bosco inizia a baluginare di macchie bianchicce. Corpi nudi. Prima che abbia il tempo di razionalizzare la cosa, Andrea si volta di nuovo, mi guarda. Con un movimento involontario apro la lampo della giacca a vento. Tolgo scarpe e calzini. Le dita dei piedi tremano a contatto con la terra. Immagino Bianca scuotere la testa davanti alla mia solita resa.
Mi ritrovo in mutande, rabbrividendo, poi tolgo anche quelle. Andrea si mette a quattro zampe. Non ho bisogno di guardarmi intorno per sapere che gli altri stanno facendo lo stesso. Li imito. Gattoniamo per il bosco, bestie pallide e furtive, lasciandoci dietro vestiti e oggetti personali come tante bave di lumaca.
Al centro di una radura, accerchiato dagli alberi, c’è un capanno che emana una luce giallastra. Sopra la radura, il cielo è inchiostro puro. Le stelle sembrano scomparse.
La luce proviene dai suoi occhi. È seduto di fronte al capanno, nudo, villoso, cornuto. Ci chiama con la sua voce pietrosa, per nome e cognome. Si volta e ciascuno di noi gli bacia l’ano. Quando viene il mio turno penso che vomiterò, invece poso le labbra sull’orifizio e non sento nessun odore o sapore sgradevole, salvo quello di sottobosco che ormai mi è famigliare.
Quando tutti gli abbiamo reso omaggio, lui pesta il suolo con un rumore di zoccoli e a un tratto mi sento leggero. Ci solleviamo scuotendo appena braccia e gambe. Odio l’altezza, eppure sto bene, mi lascio cullare mentre il capanno e la radura e gli alberi si allontanano e noi ci libriamo nel cielo.

Caterina dorme. Dalla posa traspare la sua incazzatura. Normale, ho recuperato il telefono dopo tre ore e a quel punto mi aveva dato per disperso. Pazienza. Dirò che Andrea è in crisi, mi ha tenuto fino alle due a parlare. Se uno è “in crisi”, non serve altro.
Mi corico accanto a lei. Prima di abbandonarmi al sonno, tranquillo come non ricordo di essere mai stato negli ultimi trentaquattro anni, penso a domani, quando le mostrerò la macchia sul cuscino e con finto stupore dirò:
«Cavolo, si è riaperto il taglio».