Beati i poveri di spirito. Pagheranno meno tasse sulla propria anima.
Imposte, albe, emozioni, bollette, e aspirazioni. Io sto nel mezzo: le rateizzo. Ma anche fatto come sono, che farci se stamattina, arrotolato in macchina, con il maglione sotto al culo e un cuscino improvvisato dietro la cervicale, l’unica cosa che mi manca è lui?
La pianto con gli eccessi. È che tira vento nella Panda da quando non c’è più. Mi restano solo le mie nuove libertà, come quella di non impazzire per le briciole, gli affettati, le patatine frantumate o gli stralci di formaggio sparsi tra i sedili; tutta roba che in teoria lo avvelenava, e in pratica era la sua festa.
Basta pensarci. Incastro la chiave e la metto bene obliqua. Tento giusto un paio di volte, poi la macchina mi asseconda. Fa sempre così. Il motore grida trafitto il solito lamento. Allento il pedale e recupero la frizione.
«Andiamo indietro, okay?»
La marmitta gracchia quattro colpi di smog. Mi fanno sperare che siamo d’accordo, quindi gaso. Sputo fuori tutta l’aria rimasta nello scarico e la marmitta dipinge nel cielo un nuvolone nero. Lo contemplo. Neanche mezzo secondo che travolge un gruppo di bimbetti freschi di materna. Ops. Faccio per scusarmi, ma sono così carini mentre tossiscono che devo per forza continuare. Tiro il freno a mano e tamburello l’acceleratore come un pazzo. Dalle vertebre della macchina allora, prende vita una seconda nube più scura, e parecchio inquietante della precedente. Ha due anse curve che culminano in una punta molto stretta. Ricorda un cuore. In un palpito inghiotte l’adorabile manica di angioletti e li lascia mezzi svenuti. Solo a quel punto le madri saltano fuori da un bar. Hanno le labbra ancora fradice di cappuccino e la brioche tra i denti, ma montano su un’apprensione invidiabile. Sorrido. Allento le guance e gli zigomi, poi punto il telefono e mi sparo un santo selfie.
«Mai visto un depresso tanto felice» dico all’altro me stesso, mentre lo intrappolo nello scatto con una grossa donna, che inonda di spray al peperoncino il lunotto.
Viaggiavamo sempre in quattro, in macchina e nella vita. Per questo non avevo mai immaginato che si potesse stare così scomodi anche in meno.
«La scarsità che naufraga in eccesso».
Cicco dal finestrino e rido. Non c’è massima che mi salverà dal pilota automatico, se ormai ho deciso che la valuta di ogni mio attimo, siete tu e lui, il nostro quarto; soprattutto ora che il mattino sfrigola tra i denti e i passanti scorrono rapidi come caroselli di neve.
Ripesco il telefono dalla bustina di pop-corn dove lo preservo in perfetta sporcizia. Anche se guido, scorro le schermate avanti e indietro a doppia mandata. Guardo le sue foto. Ancora non ho fatto il callo alla malinconia, ancora mi ci devo abituare al fatto che le sue foto finiscono qui, così. Inchiodo. Il cancello è aperto, e se adesso lo inforco, sono sicuro che tutto andrà come deve.
La palazzina è piuttosto spettrale. Le impalcature pendono ai lati, incorniciate da un fragile cappotto di travi e polveri sottili. Nell’arco di mezzo chilometro non c’è nulla, se non ghiaia e montagne di piccole lapidi che corrono abbracciando l’orizzonte da ovest a est. Provo a chiudere la macchina. ma non sembra intenzionata a cooperare: ha paura a rimanere qui fuori da sola, e la capisco. Neanche io ci resterei. Comunque la rassicuro. Non ci metterò molto, giusto il tempo di seppellirlo.
Scivolo sul viale di ghiaia e mi incanto davanti al citofono. C’è un singolo campanello con un solo pulsante. È a forma di zampa felina. Controllo meglio, ma è proprio così. Nessun’altra sporgenza, se non un polpastrello dentro quella che inequivocabilmente è una zampa di gatto. Chiudo gli occhi per rispondere meno del mio gesto, e suono. Due volte.
L’ambiente è lugubre e orde di gattari si trascinano tra le stanze con lamenti strazianti. Osservo soprattutto gli uomini. Lunghe barbe pettinate, capelli ossigenati, visi sbagliati ed eyeliner a doppio strato nelle curve degli occhi. Sembrano caduti fuori da un orrendo papiro egizio.
Li lascio a mummificare nei corridoi e punto dritto verso la mia stanza. Come la riconosco? Dalla foto di Felix che sporge fuori incastonata in un rovo di rose bianche. Che pessimo gusto. Accenno una carezza al ritratto, poi me la rimangio ed entro dentro. Luci soffuse, candele spianate, vago odore di Fortesan. La piccola bara è lì. Ci arrivo molto vicino prima che sei becchini mi richiamino all’ordine.
Solo perché pago io, mica posso fare il cazzo che voglio. La cerimonia ha le sue regole. Li fulmino, se non con gli occhi, almeno col pensiero, e mi perdo in un dettaglio: hanno tutti le stesse cravatte bicrome, con un grosso doppio nodo stretto sul pomo. Un bel cappio per chi è condannato a tumulare bestie per conto di deficienti. Comunque, mi siedo.
«Oggi salutiamo Felix», scandiscono con le mani specchiate davanti al bottone dei pantaloni. Non è chiaro se per raccoglimento, o per paura che in preda all’euforia del lutto, qualcuno decida di prenderli a calci. Ci sto ancora pensando, quando ti siedi vicina. Non ti avevo vista arrivare, e di certo non ti avevo ancora cercata, ma non speravo altro.
«Scusami, non mi decidevo a entrare» accenni sottovoce.
Ci teniamo per mano, versando le prime due lacrime: una per l’acconto della cerimonia e l’altra per Felix. Ne abbiamo anche una terza in canna, quando spunta il prelato È un vecchiaccio vivace e brandisce con uno certo stile, uno scialle d’ermellino: lo snoda e riavvolge attorno al collo. Rispetto al canonico foulard che da secoli va alla grande nelle chiese – viola e indaco a costoni dorati- noto che manca del tutto l’intarsio delle croci. Lo rimpiazzano una decina di cani e gattini ricamati a mano, intervallati da fiorellini sgargianti. Sono atroci, ma profondamente artigianali e il santone li esibisce soddisfatto nel tragitto verso il leggio. Bravo. Prende posizione, scalda la voce e si prepara. Ci guarda. Tossisce tre o quattro colpi di catarro bello robusto. Sistema lo scialle. Leviga il naso con le mani. Contempla qualcosa in alto nel soffitto. Assapora ogni particella della nostra attesa, e poi…poi miagola.
«Miao, miao».
La platea è atterrita. Tu hai una vertigine di nausea. Io, mi frugo i timpani per controllare di non aver dimenticato le cuffiette con un pezzo dell’ultimo Springsteen in play. No, non è così. Ci scambiamo un cenno. Potremmo ancora fuggire. Potremmo. Però lo sentiamo che il dramma delle cose è appena iniziato, che una volta inciampati in una tragedia di questa portata, anche rialzarsi e fuggire sarebbe soltanto un brutto tentativo di stringare i conti con la realtà. Annuiamo.
Il prelato ora ci sta davanti e fissa proprio noi. Beve la nostra rassegnazione.
«Felix non era solo un gatto», comincia ammiccando, «era un fratello, un amico, un micio a tutto tondo…ah, quanto gli piaceva viaggiare, e anche ingozzarsi in macchina. Briciole, patatine, affettati, formaggi…Il dolce, il caro Felix, un gatto on the road, un felino che valeva per due».
Stringo i pugni, i denti e i reni. Sono allo stremo: sto per pisciarmi addosso dal ridere e dalla rabbia.
«Frrr, Frrr, ora fratelli e sorelle, propongo qualche attimo di fusa per Felix».
Sopravviviamo a stento ad una lunga omelia di 45 minuti, e seguiamo il piccolo feretro verso il forno crematorio. In tutto il tragitto evitiamo di guardarci, ma sopra le nostre teste c’è una grande insegna che ci avvisa: stiamo per entrare nel Miao-diso, il paradiso dei gatti.
«La splendida e disumanizzante umanizzazione degli animali» ti dico. Non sei in vena, ma ci tenevo a commentare il tutto. Imbraccio il mio telefono unticcio e mi preparo a scattare una foto all’insegna, per perenne memoria, quando da una porticina a lato del forno sbucano sei piccole suore armate di sonaglietti e altri stupidi giochi da gatto.
Sta per iniziare il gran finale.
Seduto sulla bara l’officiante muove ritmicamente le mani. Mima un abile fornaio, e non lesina sui versi gutturali straziati, i miagoli striduli, le espressioni da stitico terminale. Le suore applaudono e dimenano i sonagli. Abbozzano un timido balletto di quattro passi, che gli invitati seguono subito con un entusiasmo imperdonabile. Sembra di essere finiti nel girone dell’inferno riservato ai villaggi turistici.
«Per Felix» grida il prelato che, da qualche parte, ha trovato un microfono con amplificatore. Indossa delle vibrisse finte, perlate di azzurro ed è pronto, ma prima che possa cantare sgusciamo fuori dall’uscita d’emergenza.
Ci rifugiamo nella Panda. Per una volta, il motore non fa storie e le ruote scivolano subito in preda all’asfalto. È fatta. Tutto finito, anche la cerimonia.
Attraversiamo la città, circondati da un piacevole alone di trauma.
«Il nostro quarto» dici, «grasso e molesto che valeva per due. Felix».
Lo accarezziamo sfregando insieme le mani sopra al suo posto preferito, lì al centro, tra me e te.
«Ci è costato tanto» piangi ridendo.
«Ci è costato tutto» ti correggo, mentre rincaro le risate.
E però che farci, se vale sempre la pena del tempo insieme.