Una cosa che mi ha colpito da bambina è il racconto della defenestrazione di Praga.
La maestra ce ne aveva parlato un giorno che pioveva a dirotto. Era l’ultima ora e avevamo passato tutta la mattina in aula. Giovannino non ce la faceva più a stare seduto, così si era alzato senza chiedere il permesso ed era andato al cestino a temperare la matita. Ormai era grande quanto un mozzicone di sigaretta e aveva una punta aguzza, come certi aghi con cui mi pungeva il dottore quando la mamma mi portava a fare i controlli.
Fate silenzio, diceva la maestra.
Giovannino tornava al posto, cercava di conficcare nel foglio un paio di linee storte, così la mina si spezzava di nuovo.
Non riuscivo a smettere di guardarlo. Si muoveva talmente tanto che avrei voluto inchiodarlo al banco, ma la maestra mi leggeva i pensieri così abbassavo la testa e cercavo di starmene buona. Giovannino faceva certi rumori con la bocca che pareva un insetto, a me tutti gli insetti fanno schifo, specie le cavallette marroni che entravano qualche volta in classe e ci toccava chiamare il bidello per farle uscire.
Giovannino era peggio delle cavallette, perché era più grosso e non potevo schiacciarlo. Avevo cominciato a dondolarmi e a cantare una canzone per non sentirlo, lui aveva preso la matita e mi aveva infilzato il fianco.
Smettetela subito! Basta, Maria, state buoni! La maestra aveva alzato la voce, ma ormai avevo in bocca il braccio di Giovannino e l’avevo morso più forte che potevo. I nostri compagni ridevano, mi pareva di essere in una grotta perché rimbombava tutto e non capivo niente. Improvvisamente però avevo sentito un dolore fulminarmi la testa: avevo dovuto mollare la presa andandoci dietro per farlo finire. La maestra ci aveva trascinato per un orecchio vicino alla finestra e aveva detto, se non la smettete subito passerà alla storia un’altra defenestrazione!
La classe era ammutolita all’improvviso, perché nessuno sapeva cosa fosse una defenestrazione, ma sembrava qualcosa di solenne e terribile e infatti lo era.
Io e Giovannino avevamo dovuto spostare i nostri banchi a lato della cattedra, intanto la maestra si era avvicinata alla cartina e aveva indicato un puntino rosso con la canna di bambù, leggi Maria Teresa, cosa c’è scritto qui sopra?
Io non ci vedevo bene – mi vergognavo – ma la maestra voleva che facessi le cose che fanno gli altri, perché prima si smette di avere paura meglio si sta.
Mi ero sistemata gli occhiali; Praga, avevo letto.
La maestra ci aveva spiegato qualcosa di difficile, su un posto che si chiama Boemia dove oggi si comprano i bicchieri di cristallo.
Mia mamma teneva i bicchieri buoni in alto, li tirava fuori soltanto con gli ospiti o con la nonna Gianna, per fare la gran signora. Papà invece raccoglieva un raggio di sole col bicchiere più cesellato, vieni a vedere Maria Teresa! mi chiamava. La luce si rompeva e la stanza brillava con tutti i colori dell’arcobaleno.
Nella chiesa di San Gaetano le vetrate erano l’unica cosa allegra che mi piaceva guardare quando andavo a confessarmi. La zia Adele quel giorno era venuta a prendermi a scuola con l’ombrello e le avevo spiegato che a Praga dei signori che protestavano si erano arrabbiati così tanto contro quelli come noi- che dicono il rosario e pregano Gesù- da scaraventarli giù dalla finestra di un palazzo.
La zia mi aveva guardato aggrottando la fronte, capitava sempre quando dicevo stupidaggini o quando sbriciolavo i biscotti sul divano.
Maria Teresa, aveva detto, dopo andiamo a trovare don Giulio ché queste storie che ti frullanono in testa mi sembrano un pochino strane.
Io e Giovannino eravamo sempre stati strani, oppure indietro, oppure poveretti. Solo la maestra usava il nostro nome, la mia mamma mi chiamava piccina anche se ero la maggiore e i miei fratelli ancora non sapevano allacciarsi le scarpe.
Zia Adele non aveva bambini, solo un marito simpatico che coltivava i salami nell’orto. Tutte le volte che toglievo i grani di pepe dalle fette dentro il panino, lo zio mi pregava di non buttarli, perché piantandoli nella striscia di terra vicino ai pomodori, sarebbero cresciute delle piante che avrebbero odorato di carne e in ottobre avremmo raccolto cavolfiori e salumi. La zia Adele mi cucinava il pranzo tutti i giorni tranne il fine settimana, sicché dovevo andarle sempre dietro e ubbidire.
Quel giorno pioveva così tanto che credevo saremmo rimaste in casa a ricamare invece abbiamo preso l’ombrello e siamo andate in chiesa a confessarci. Il buio, il marmo e l’incenso ingigantivano la pioggia che crollava sopra di noi, con un frastuono spaventoso. Don Giulio aveva percorso la navata come un ombra, era alto poco più di un bambino e aveva una voce sottile, che mi ricordava i cigolii della porta in cantina. Era entrato in confessionale e mia zia l’aveva seguito. Io ero rimasta seduta davanti a San Giuseppe, perché aveva un viso buono e c’era la luce dei lumini a darmi coraggio. Mi sembrava che mi guardasse negli occhi e che mi conoscesse come mio padre.
San Giuseppe, gli avevo detto. Oggi avrei voluto ammazzare Giovannino. San Giuseppe di solito taceva, ma mi pareva che a sentire i miei pensieri il temporale si fosse fatto più scontroso. Le fiammelle delle candele traballavano ad ogni tuono, il vento fischiava infilandosi attraverso le fessure.
San Giuseppe, io però a Giovannino voglio tanto bene.
Il portone aveva cominciato a sbattere, l’acqua era entrata lucidando pavimento. Zia Adele e don Giulio erano usciti dal confessionale per controllare cosa stesse succedendo. Ero corsa verso di loro, avevo abbracciato la zia; c’è una tromba d’aria, aveva detto don Giulio, ripararatevi sotto l’altare.
Era stato allora che era esplosa la vetrata sopra al santo, tutti i lumini sul candelabro si erano spenti in un colpo solo, coriandoli affilatissimi erano schizzati dentro le acquesantiere, sulle panche scure, sotto gli inginocchiatoi. Con loro avevo visto cadere e schiantarsi tre uomini in velluto verde.
Sono loro, sono loro! Avevo gridato! Sono venuti a prendermi, li ha mandati la maestra!
Ero svenuta dopo pochi istanti, tra le braccia di don Giulio.
Si era abbattuto sul nostro paese un uragano feroce, che aveva anticipato l’estate di qualche settimana. Aveva scoperchiato le case vicino al torrente, divelto i cartelli, piegato i semafori. Un enorme ramo si era staccato dal platano in canonica, aveva sfondato la vetrata della chiesa ed era caduto nel punto in cui le bare prendono la benedizione.
Nessuno era stato ferito, stavamo bene.
Quando mi ero svegliata zia Adele mi aveva baciato le guance e si era fatta il segno della croce. Dalla finestra si vedevano le nuvole grigie farsi, difarsi e poi sparire, la pioggia era quasi impalpabile, il temporale stava smettendo. Mi ero sistemata gli occhiali ed ero andata a controllare che a terra non ci fosse nessuno.
Maria Teresa, mi aveva chiamata San Giuseppe. Avevo fatto finta di non sentirlo, mi vergognavo della bugia che avevo detto ed ero offesa per la punizione che avevo ricevuto. Ero uscita sul sagrato a testa bassa, faceva freddo, la piazza era coperta di chicchi bianchi e aghi di pino.
Il giorno dopo, a scuola, Giovannino andava su e giù dalla sedia.
Fate un applauso a Maria Teresa, aveva esclamato allegra la signora maestra, siamo contenti che tu stia bene.
Giovannino mi aveva abbracciato stringendomi il collo, non riuscivo a staccarlo.
Avrei voluto ammazzarlo di nuovo, ma mi ero ricordata dell’uragano, della defenestrazione e di San Giuseppe. Così avevo alzato la mano, signora maestra, avevo detto, vorrei cambiare compagno di banco.
Il pomeriggio, in giardino, avevo raccolto un mazzo di fiori. C’è n’erano pochi, perché la tempesta aveva distrutto le corolle e sparpagliato i petali in terra, erano resistite le calle sotto il portico e le rose in terrazzo.
Avevo preso la bicicletta ed ero andata in chiesa con la zia e i fiori sotto il braccio. Avevo messo il mazzo in un barattolo di vetro, San Giuseppe ci guardava, illuminato dall’azzurro che entrava dal finestrone circondato dai ponteggi.
Ti ringrazio, l’avevo pregato, adesso ho una nuova amica, fa che non sia come Giovannino.
Avevo aspettato la zia, stava allungando una busta a Don Giulio perché dicesse una messa visto che ci eravamo salvati.
Era di buon umore- la zia Adele- tornando a casa si era slegata i capelli. Quando lo zio ci aveva viste era andato a preparare la merenda, per fortuna le piante di salame erano resistite alla grandine.
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in racconto