Soriano

Prima o poi ti capita. Anche se guardi nei posti dove mai penseresti di vederlo, alla fine il pezzo, l’editoriale, il racconto sul calcio te lo trovi sempre. E io provo una grande invidia per coloro che sono capaci di scriverne. Il campione che viene dalla povertà, il genio che si distrugge con droga e donne, il terzino che fa la sua dignitosa carriera in una grande squadra e poi si dedica alla famiglia, sono tutte cose delle quali non riuscirei a parlare con passione e a illuminare nella maniera giusta.
Dovrei premettere che nella mia vita il calcio non ha mai occupato una posizione di rilievo. Dovrei premettere che non ha mai occupato una posizione e basta.
Il calcio, come tanti altri sport ma forse un po’ di più, è una cosa che o hai la giusta scintilla o è meglio che non ti ci accosti proprio. Quel tipo di attaccamento, quelle cose che solo qualcuno appassionato può comprendere, conferisce l’autorità necessaria a raccontarne, altrimenti qualunque cosa potrai dire o scrivere saranno parole l’una di fianco all’altra.
È come se qualcuno che ha paura di volare discutesse di paracadutismo.
A me, ad esempio, potrebbero chiedere di dire la mia sulla cistifellea. In uno slancio di imma-ginazione, potrei vedermi a leggere qualcosa a riguardo, ad informarmi sulle sue funzioni e a scrivere qualcosa su qualche medico che ad essa ha dedicato la sua vita. Potrei perfino appassionarmi all’argomento, arrivare a studiare seriamente gastroenterologia e dopo qualche anno essere in una sala operatoria ad eseguire complicati interventi. E questo sarebbe un quadro legger-mente più realistico rispetto a me che scrivo con coinvolgimento di pallone.
C’è da dire che non c’è mai stato odio né avversione di nessun tipo da parte mia, io ci ho provato, a farmelo piacere. Facevo gli album delle figurine e ci giocavo con i compagni di classe, vincendone anche una discreta quantità; accompagnavo mio padre alle partite e guardavo con lui Novantesimo Minuto, ma l’unica cosa che mi balenava in mente era la somiglianza della mia maestra anziana con Paolo Valenti. Non ce la facevo ad accendere la scintilla. Era come con la pasta e patate: me l’hanno proposta in qualunque modo, col pepe, col formaggio, al forno ma niente. È successo solo che un giorno, fra me e la pasta e patate, ho tracciato una linea e lì è finita.
Mio padre, al contrario mio, quella scintilla ce l’avrebbe anche avuta e forse me l’avrebbe anche potuta passare, ma non era proprio destino.
Una volta, avrò avuto sette anni, mio padre andò con degli amici ad assistere ad una trasmissione di calcio in una tv locale. Io e mia madre, quella sera, guardammo quella trasmissione per qualche minuto e lo vedemmo seduto in prima fila che ancora indossava il suo cappotto marrone. Una delle raccomandazioni a mio padre da parte di mia mamma – persona incredibilmente discreta e chiara origine genetica della mia poca propensione al mettermi in mostra – fu “cerca di non parlare in diretta”. Come per frenare preventivamente qualche eccesso di esuberanza da parte di lui.
Eravamo lì, dunque, io ero seduto per terra davanti al tavolino del tinello, quando il conduttore intavolò una discussione (non ricordo l’argomento preciso) che in breve deve aver scatenato gli animi, soprattutto quello di mio padre. Mentre qualcuno degli ospiti parlava, lo vidi arraffare il microfono del suo vicino di sedia, che fino a pochi secondi prima aveva parlato, e iniziare a interrompere il discorso dell’altro con “…E allora ci sarebbe da dire anche un’altra cosa…”.
Non so come continuò perché in quell’istante sentii mia mamma dietro di me che con voce ansiosa ripeteva “Uh Maronn’… Uh Maronn’!” come se stesse assistendo al dipanarsi di una tragedia. Si avvicinò con il telecomando in mano per alzare il volume e accidentalmente cambiò canale.
Per inciso: quasi trent’anni e la situazione dei cambi di canale accidentali è la stessa, non solo per mia madre. Qualcosina sulla progettazione dei telecomandi la investirei.
Quando tornammo a guardare la trasmissione, mio padre aveva già terminato di parlare. Non ho mai saputo cosa avesse detto quella sera, se era stato qualcosa di inutile o qualcosa di grandioso, e non potevo neanche chiederglielo quando tornò poiché avrebbe capito che non l’avevamo visto.
Quell’intervento rimarrà uno dei maggiori interrogativi senza risposta della mia vita.
Mio padre, manco a dirlo, è un tifoso ai limiti della venerazione di squadra-storica-di-Serie-A ed io, fino a poco tempo fa, avevo un coinquilino altrettanto tifoso di altra-squadra-notoriamente-avversaria. Quando c’era qualche defaillance di quest’ultima o qualche match importante fra le due, mio padre mi dava in consegna una frase sibillina e volutamente cattiva da riferire, del tipo “senza l’amico vostro non ce la fate, eh?” oppure “digli che li aspettiamo a braccia aperte a Manchester”. Ogni volta gli dicevo che non essendo tifoso o appassionato, queste affermazioni non avrebbero avuto né la forza che meritavano né l’autorità di cui parlavo prima. Sarebbero state parole vuote per il mio coinquilino, che si sarebbero dissolte davanti a lui e delle quali avrebbe preso atto con indifferenza, venendo da uno che non guardava praticamente mai una partita.
Per tutte queste cose, a volte, mi viene quasi da chiedere scusa a mio padre.
A casa mia, su uno scaffale, c’è Fùtbol, una raccolta di racconti di Osvaldo Soriano. Interrogati in merito i miei familiari, nessuno ha mai saputo come ci fosse finito. Di Soriano ho amato Triste, Solitario y Final, ma questi racconti non mi hanno mai fatto vibrare dentro. Quando leggevo cose del tipo “avevamo pareggiato con la Spagna due a due, con un gol che avevo fatto io all’ultimo minuto, uno di quei gol che ti vengono di fortuna”, io soffrivo. Soffrivo perché non riuscivo appieno a immaginare la scena con gli occhi di chi segnava, non riuscivo a sentire il cuoio che sbatteva forte sulla scarpa e la traiettoria del pallone. Io che ero e sono una pippa anche a tirare un Super Santos, ho sempre invidiato come un matto quelli che giocavano a calcetto e che tiravano il pallone producendo quel botto con i piedi che a me faceva male solo a sentirlo. E quei racconti non li ho mai vissuti come avrebbero meritato, mettendoci più tempo del solito a leggerli.
Per tutto questo, a volte, mi verrebbe quasi da chiedere scusa anche a Osvaldo Soriano.
Ogni volta che la mia diversità in qualcosa si fa sentire, che sia riferita a mio padre o ad uno scrittore sudamericano; ogni volta che mi rendo conto che la mia strada è semplicemente differente da quella di alcune persone che ammiro, mi viene in mente William Holden in Viale Del Tramonto, quando, alla ragazza che gli dice che lo credeva una persona rispettabile, risponde “Non tutti possono essere rispettabili”.