Mi ero preparato una vita a morire. Zio Adelmo, il fratello di papà, rimase schiacciato in miniera in Argentina che avevo sei anni. Mamma tirò su la cornetta, alzò la voce, sussurrò no, urlò No, urlò Dio e scoppiò a piangere. Papà le prese il telefono dalle mani, disse Pronto e si fece grigio. Grazie, grazie, ciao. Chiesi cosa fosse successo. Lui non rispose e non rispose neanche mamma. Protestai. È morto zio Adelmo, disse e gli presero a scendere le lacrime. Mamma scattò con una rabbia mai vista: lo voleva uccidere perché mi aveva detto quelle parole; poi, conciato com’era, lo lasciò stare e riprese a piangere. Allora capii che dovevo piangere anch’io. E lo feci tanto forte che le lacrime finirono giù nelle gengive, bruciandole.
A tavola chiesi che vuol dire che è morto e mamma rispose che non c’è più. Il giorno stesso, o forse il giorno dopo, zio Nino, l’altro fratello di mio padre, mi disse di non preoccuparmi per zio Adelmo, perché tutti dovevamo morire. Immagino che continuò parlando del paradiso e di quelle cose là, ma io non ci sentivo più: avevo appena imparato che un giorno sarei morto. Sarebbe bastato un colpo di telefono, in qualsiasi momento.
Da allora la morte mi accompagnò premurosa. Stava negli angoli della bocca di mia madre, che si increspavano; nelle sue mani tagliate dalla varechina, spellate dai prodotti che non fanno male; nella puzza di scoreggia la mattina in salone, quando mio padre si alzava per andare a lavoro, nelle orbite vuote della maestra Fulvia, che si metteva a fissare la finestra con gli occhi truccati male e un fiore tra i capelli; nelle mani di Ludovico, che dopo la meningite si muovevano tra gli spasmi; c’era un po’ di morte tutte le sere: due morti, dieci morti, più di cento morti, milioni di morti. Quelli della tv ci godevano a ripeterlo. La guerra, i terroristi, il cancro, gli infarti, le polmoniti, anche la normale influenza ti poteva far fuori, tanto che cominciai a chiedermi come mai in famiglia, a parte zio Adelmo, fossimo tutti vivi.
A tredici anni scoprii che anche le automobili possono ucciderti. Era la notte di Natale e stavamo tornando da Torre. Mi ricordo che zia Teresa, la sorella di mamma, aveva insistito per farci rimanere a dormire, aveva già fatto i letti e tutto, ma papà, con un occhio aperto e l’altro chiuso, si era impuntato che dovevamo tornare a casa perché il giorno dopo eravamo a pranzo dai nonni e se dormivamo lì, con tutto il vino che s’era scolato, non saremmo mai arrivati per tempo. Con l’autostrada nuova, disse, ci mettiamo un attimo. Mentre parlava gli dava giù di genziana e a tutti noi sembrava una gran stupidata che si mettesse a guidare in quello stato. Però nessuno ebbe il coraggio di fermarlo. Alla fine l’autostrada non la prendemmo, perché a lui non andava di sborsare le duemila lire il giorno di Natale e, siccome c’era il ghiaccio sulla Tiburtina, al primo curvone la Ottoecinquanta sbandò e impattò contro il guardrail: un trampolino d’oro per un gran ribaltone. Ci schiantammo contro la roccia. Lo so perché me lo hanno raccontato: io mi ricordo solo il salto, le immagini che ho si fermano a mezz’aria. I miei sbatterono un po’ dappertutto − a papà dovettero rimettere la spalla a posto e mamma indossò il busto per due mesi; io sbattei in un punto solo, ma bene: trauma cranico aggravato, tre settimane di coma. C’è mancato un pelo, mi dissero; alla fine però ero contento, perché a scuola mi accolsero come un eroe, con uno striscione di benvenuto, le pizzette e le gassose, come se chissà che avessi fatto.
L’incidente lo racconto sempre perché fa scena, ma quando dico che con la morte ci ho abitato tutta la vita non intendo questo, cioè se te ne vai con una pistolettata, con un botto o con una telefonata, la vita te la sei vissuta e se a un certo punto finisce ci puoi pure stare. Io invece era proprio mentre ero vivo che mi sentivo morire.
In quel periodo c’era un gran parlare dell’uomo che era arrivato sulla Luna ed erano tutti gasatissimi, si sentivano tanti piccoli Superman. In classe metà dei miei compagni si era votata all’astrofisica, così, su due piedi: dicevano che avevano già deciso cosa fare da grandi, anche se poi sarebbero finiti in ufficio e a badare ai figli. A me quel video della Terra vista dalla Luna mi faceva una gran tristezza: non ci potevo credere che eravamo un pallino blu in mezzo a un cavolo di niente. Andavo a letto la sera e mi chiedevo ma allora a che serve tutto questo? Cioè, posso pure diventare pilota di aerei o calciatore o presidente della Repubblica, ma sono sempre un cavolo di niente in un cavolo di niente. Papà diceva che facevo dei pensieri depressivi del cazzo, per avere quell’età. Mamma diceva che era normale, per avere quell’età. Ma normale di che? Mica ci erano arrivati sulla Luna quando loro avevano quattordici anni. E allora? Che ne poteva sapere?
Il fatto è che mi ero innamorato di Azzurra, una compagna del liceo e lei invece no, cioè non mi vedeva per niente e io non lo sopportavo e la sera nel letto mi veniva da piangere (non so con certezza se dipendesse tutto da Azzurra o anche un po’ dai pensieri sull’universo a dire il vero). Certe volte, tipo quando lei si mise con Marco Colasegno, che era ripetente e aveva già un barbone da ventenne, accartocciato nel letto volevo proprio morire e mi sforzavo di addormentarmi così che la mattina sarebbe arrivata presto e mi sarebbe passata quella voglia. Io non ce la volevo avere ma lei c’era, non ci potevo fare niente.
Per un periodo le cose andarono meglio, diciamo: la sentivo aggirarsi nell’ombra, con una voglia matta di tenermi compagnia, ma non lo fece. Bussò verso i sedici anni. Stavo in macchina col vecchio, era domenica, eravamo andati a prendere delle paste, non che fosse il compleanno di qualcuno, però boh, era un giorno bello, dovevamo festeggiare che era un giorno bello e infatti stavamo tutti allegri, anche lui era allegro e anche la mamma era allegra ed era rimasta a casa a preparare le lasagne coi funghi e i piselli. E insomma siamo fermi al semaforo, c’è il sole, l’aria tiepida e la musica che arriva dalla spider accanto. Una Enduro fiammeggiante nuova di zecca si infila tra noi e la spider; il tipo va a mettere il piede a terra ma l’affare si sbilancia, lo sovrasta e si spalma sul cofano della Ottoecinquanta, che papà aveva pagato quattrocentomila lire per rimettere a posto; il tipo cerca di tirare su la moto, ma non riesce e la lascia scivolare indietro lungo il paraurti. Io penso: ora il vecchio scende e lo gonfia, invece sta così di buon umore che la prima cosa che dice uscendo dalla macchina è si è fatto male? Quello, di tutta risposta, si mette a zoppicare. Scatta il verde, la spider riparte e da dietro si mettono a suonare, allora papà acchiappa la moto e la accosta, risale in macchina e accosta pure quella: c’è bisogno che la porti in ospedale? Ma che gli è preso al vecchio? Ma no, ma no, non si preoccupi, me la cavo da me. Piuttosto, mi è partito il fanale di dietro e si è piegata la marmitta… È il momento buono che il vecchio lo accoppa. E invece non dice niente, si sporge soltanto a valutare i danni della moto e quelli della macchina. La Ottoecinquanta ha un bernoccolo sul cofano e una striscia rossa sulla fiancata che sembra la maglia del River Plate. Sa come vanno queste cose, no? Io ero in moto e stavo davanti… continua il figlio di puttana, e pensare che ci eravamo pure fermati ad aiutarlo. Io dico andiamo, ma il vecchio che fa? Gli allunga diecimila. E l’altro come risponde? Magari facciamo venti? Faccia di merda. Mio padre ci pensa su, se lo guarda, gli vengono gli occhi tristi e alla fine glieli dà. Io protesto, lui mi dice di stare zitto e di risalire in macchina. Quando siamo dentro me lo guardo, lui non mi guarda, guarda dritto, sta zitto. Era un giorno felice e ora c’è una smerdata rossa sulla Ottoecinquanta.
Quando arriviamo a casa, prima di salire da mamma, papà guarda la smerdata e dice tra sé che la macchina ha i suoi anni e forse è tempo di cambiarla. Avrei preferito gli mollasse un gancio a quello, che la smerdata rossa gliela mettesse sul muso. E invece ora ce la dovevamo tenere noi. Ma perché? Ecco, quel giorno mi ha ucciso un po’, me lo ricordo bene. A pranzo mi scheggiai un dente. Non so come, me lo scheggiai. Era un molare, non si vedeva. La morte uscì di scena per qualche anno, sfumando via silenziosa, facendomi assaporare il gusto di un addio.
Ventitré anni, eccola là. Mi aveva lasciato Marina: bionda come un angelo, occhi azzurro cielo, tre anni insieme in cui non avevo dato che la metà degli esami. Poi era arrivata la borsa di studio dalla Germania. A lei, ovviamente. Vieni o rimani? Mi fa. Come “vieni o rimani”? Io qui ho la vita, gli amici, l’università. Non possiamo…?
No, disse lei. Non prendiamoci in giro Fra, siamo grandi.
E… che diavolo aveva ragione.
Proverò a fare avanti e indietro, ci vedremo ogni mese, anche due volte al mese.
Mi guardò e non disse niente. Mi diede un bacio e se ne andò. Ci andai una volta sola a Düsseldorf. Lei parlava tedesco, io non parlavo neanche l’inglese. Era più lontana della luna. Tornai a casa, stetti male luglio e agosto, modello catatonico. Tutti mi dissero di trasferirmi in Germania. Ma a fare cosa? A imparare il tedesco? Non lo sopporto il tedesco. A ricominciare la vita, ad acchiappare Marina? La pagavano milleduecentocinquanta marchi al mese per studiare le cellule delle piante. Aveva la grana per uscire tutte le sere, andare a teatro, comprarsi i libri. Io che dovevo fare? Consegnare le pizze? Non partii, stetti male altri dieci mesi, steso nella tomba, anche se respiravo e tutto e la sera, mentre battevo sui molari scheggiati, si fronteggiavano due desideri opposti: che quel momento passasse in fretta; che la vita si sbrigasse a togliersi di mezzo. Di suicidarmi proprio, non avevo voglia. Un atto eclatante, teatrale, coraggioso: non da me.
Negli anni a venire la morte evaporò senza che me ne accorgessi. All’alba dei trenta ero un dipendente modello della Tek Com: tredicesima, ferie e tanti drink da offrire ad amici e sconosciute; gite in barca d’estate e sci d’inverno; alla fine dell’anno avevo ancora abbastanza grana per i regali di Natale. Ai trentacinque avevo finito di pagare la Lancia Delta integrale e decisi di accollarmi un mutuo. Ma prima ancora dei mobili, ci feci entrare Barbara nell’appartamento. Uscivamo da un paio di mesi, lei aveva i capelli lunghi fino al sedere e dieci anni meno di me: l’idea di convivere era così assurda che meritava di essere percorsa. Due anni dopo era incinta e io ero felice. Un giorno la guardai, addormentata, con Paolo tra le braccia; doveva essere l’autunno del ‘94, perché Paolo aveva pochi mesi, forse poche settimane. La coprii e pensai sei diventato quello che mette la coperta la sera. Sentii il suo odore e, nonostante non avesse nemmeno trent’anni o forse proprio perché aveva quell’età, odorava esattamente come mia madre quando ero piccolo. Il mio primo ricordo. Ero felice, felice di tutto, eppure una puntina si conficcò tra le costole. Com’è possibile che sei ancora qua? le chiesi. Alzò un sopracciglio: ma che vieni a raccontarmi? Che andavo a raccontarle? E se ci fosse stata la guerra? Se fossi cresciuto con le bombe sopra la testa, come babbo e mamma, o come quei bambini alla tv? Scosse la testa, con un sorriso dolce da madonna, e scomparve. Che stronza. Sarà lei che m’ha scheggiato i denti?
Appesi gli scarpini e gli sci al chiodo. L’operazione al menisco ebbe successo, per fortuna, e così continuai a camminare normalmente. Paolo filava come una scheggia: era titolare nella Lodigiani, a scuola andava egregiamente e cambiava due o tre ragazze l’anno. Alla Tek Com ero diventato responsabile capo delle apparecchiature del personale, con un bel ritocco allo stipendio e se non fosse stato per Barbara, che aveva cominciato a dare segni d’insofferenza per quella vita troppo agiata, sarebbe andato tutto a gonfie vele. Forse si era stancata di guardare le carie della gente o forse avrebbe voluto un secondo e un terzo figlio o chissà cos’altro, fatto sta che ci furono dei mesi, forse un anno, in cui le cose non andarono per il meglio e io finii per essere risucchiato in un’orbita di nome Marcella, la ex prof di matematica di Paolo. Avevamo sedici anni di differenza ed era chiaro che non sarebbe durata. Non fu quello, però, a ricordarmi della caducità delle cose e neanche il fallimento della Tek Com: in realtà la notizia diede una scossa a Barbara, che si mise a cercarmi lavoro vulcanicamente, anche se alla fine la svolta arrivò proprio da Marcella, che mi indicò ai suoi alunni come professore per le ripetizioni: la voce si sparse e in poco tempo mi ritrovai con la settimana piena e uno stipendio di tutto rispetto, che si andava a sommare alla disoccupazione.
Dopo tre anni da prof raggiunsi l’età pensionabile. Paolo era a Londra a inventare app con un gruppetto di coetanei australiani, pakistani e neozelandesi e guadagnava già il doppio di quanto io non avessi mai fatto in vita mia. Barbara mi disse ma perché non lasciamo tutto e ci prendiamo una casa al mare? O ci mettiamo a viaggiare? Pensai: che diamine, lei è ancora giovane e io ho ancora voglia. Perché no? La vita è una cosa poco a poco. Poi è all’improvviso.
Brindammo con un Teroldego dell’89 e decidemmo di partire subito per il Portogallo, così, per cominciare. Il giorno dopo, alla vigilia della partenza, ero piegato in due dalle fitte. Barbara mi prese in giro, disse che non reggevo più neanche un bicchiere di rosso. Dopo una settimana eravamo ancora a casa e le fitte erano lì: cancro al fegato in stadio avanzato, diceva il referto. Non operabile, dissero i medici e mi chiesero se avessi voluto fare la chemio. Che voleva dire: non servirà a niente. Nel giro di pochi giorni girammo tre ospedali e due cliniche private: risonanze, istologico, eco, senza dire una parola a Paolo, nella speranza che ci fosse un errore; andammo a Milano, poi a Ginevra: nessun errore. Fattori di rischio zero, a parte l’età, per cui doveva essere genetico e infatti zia Rosa se n’era andata così. Avevo dai due ai sei mesi di vita, in base al dottore. Lo dicemmo a Paolo, che prese il primo aereo. Arrivò come un reattore nucleare e impattò contro la nostra incomprensibile accidia. Pensava che ci sarebbe stato ancora molto da fare, al di là delle terapie e dei medici. Mi voleva far camminare venti chilometri al giorno e mangiare verdure e banane e praticare la meditazione trascendentale e tante cose ancora. Gli dicemmo che era tutto inutile. Lui insistette: volle vedere le analisi e i referti e stette giorni a studiare al computer, chiamando chiunque avesse potuto aiutarmi o darmi un parere diverso. Alla fine, come noi, capì che era arrivata l’ora. Fu in quel momento, quando ci ritrovammo a tavola consapevoli che non ci rimaneva che salutarci e aspettare, che la melassa prese a colare dal soffitto. L’avevo vista accumularsi e mi era riuscito di tenerla su con gli occhi, per non far piangere Barbara e Paolo. Una volta che passa, però, non la fermi: riempie la stanza, ti avvolge, ti tira in basso e succhia il poco che ti rimane.
Affrontai l’ultimo periodo con rassegnazione, con amarezza, con incredulità, ripassando i momenti belli di ogni età e i ricordi migliori, che si affacciarono nudi, lindi, profumati come putti, come non li avevo mai visti. Accarezzai con la lingua le punte smussate dei molari, che avevano continuato a fare il loro mestiere. C’era sempre stata la morte nella mia vita, è vero, ma era stata diversa. Avrei preferito mille volte quella, verde e fetida, a questa, nera e inodore.
Il giorno prima di morire mi sbronzai come un demente e mi sembrò di stare meglio. Provai a raccogliere le ultime forze, per concedermi un addio dignitoso: mi volevo radere, mettere una camicia inamidata, indossare i pantaloni stirati, i calzini puliti. Ma sentivo di non avere più dignità, neanche nei cassetti. Mi venne un pensiero di merda: avevo passato tutta la vita con la paura addosso. Ero la somma delle paure che avevo avuto.
Lei non aspettò che mi riprendessi e spinse le sue dita fredde nel ventre e dal ventre al petto e dal petto al collo e dal collo ai denti. Ne sentii il gelo, un gelo che mi fece piangere come quando non volevo andare a scuola. Mi era dentro. Finalmente la conoscevo. Faceva schifo. Serrai la mandibola, come se avessi potuto tenerla fuori. Muori morte! Non ho paura, ma crollai. E mi liberai in un oceano di lacrime. Aiutatemi urlai a Barbara e a Paolo e mi vergognai di essere caduto a un metro dal traguardo. Loro mi abbracciarono e piansero con me. Ho paura dissi senza voce. Non udirono, ma sentii la pena che dovevo fargli. Ero nelle sabbie mobili, lei si aggrappava ai fianchi, a tutto. Dunque il momento è giunto. Nell’amigdala balenarono le ultime parole di Paolo: Puoi ancora tanto, puoi farle tutto. Brandii un pugno al cielo e lo affondai al centro dello stomaco. L’afferrai con foga, la torsi e la tirai via con il braccio di Conan. Bastava questo! Ero di nuovo pulito, la mia anima vergine, piena, brillante. La vita poteva continuare e il cielo illuminarmi di bianco, illuminare Paolo e Barbara e tutti noi, unirci, baciarci, fotterci, farci uno, tirarci su, farci ballare e fregarcene. Le labbra calde di mia madre, gli occhi neri di Azzurra, quel cuscino soffice, l’odore del pesce di Alicudi, l’ammorbidente alla rosa di nonna Maria, le sue caramelle rosse, il tiro sotto al sette all’ultima di campionato, la schiena di Barbara, quel tuffo dallo scoglio a sei anni…
Il cuore si spense. Ebbi un istante per registrarlo, poi venni preso, ma non verso il basso: mi alzai in volo, a dieci metri dal suolo e ancora più in alto, fino a non vedere che luce. Non ebbi paura. Mi sforzai di avercela ma non c’era, non c’era più. C’era un orizzonte accecante e millenni di storia, dentro di me, nella mia stanza, nella mia angusta, infinita vita. Da sempre, in fondo, sapevo di essere lei, l’unica coscienza al mondo. Adesso, finalmente, ne avevo la conferma: ogni cosa era sempre stata in me, solo dentro di me. Non c’erano i pianeti e le stelle, niente dinosauri, o rettili, o ominidi, niente macchine, niente numeri. Persino il tempo si sbriciolava: non c’era nulla là fuori, era tutto dentro, tutto qua dentro, anche Paolo e Barbara. Lasciarli non mi dispiaceva, perché non ci stavamo separando. Era stato un grande sogno.
Una vita intera mi ero preparato a morire. Avrei dovuto prepararmi a vivere. Piansi ancora, ma di gioia, assieme ai dodici fratelli rosa impastati di fango. Facciamo a gara a chi acciuffa il primo capezzolo. Giusto il tempo di ricordare, di versare altre lacrime, di pensare loro non esistono, lei non esiste, è tutto qua dentro, vita e morte, la Terra, le galassie, l’universo, tutto qua dentro. E la tetta si gonfia ed esplode di latte: stelle filanti disegnano il vuoto, si addensa una nuvola e impera un capo senza orecchie, nero, violaceo, rossastro. Volteggia come una musica. Spunta un seme, sparge polvere nel buio. I colori tornano, poi non vedo che luce.
Il cuore, il nuovo cuore comincia a battere e mi dimentico di quelle cose. Non ho più voglia di morire. Finalmente cieco, apro gli occhi. Sono nato.