Melina gira la chiave nella toppa. La pesante porta dello studio si apre con una spinta leggera, burrosa sui cardini. Ha scelto dal mazzo la chiave giusta al primo colpo e pensa che oggi le accadrà qualcosa di bello. Alza tutti gli interruttori nel quadro elettrico e apre le finestre per far cambiare l’aria. Al mattino è sempre la prima ad arrivare. Lavora come assistente in uno studio di avvocati, nel quartiere Vomero di Napoli. Sa già che allo studio ci passerà molte ore. Sarà l’ultima ad andare via, ma non le pesa. Vive in un piccolo appartamento nelle vicinanze e alla sera non l’aspetta nessuno. Poco tempo prima ha ricevuto una copia delle chiavi, come se fosse uno dei soci. Quella consegna l’aveva riempita di contentezza, ma anche di una responsabilità talmente grande da metterle paura. Felicità e paura si mescolavano sempre in Melina, al punto che ha iniziato a pensare che siano le due facciate dello stesso sentimento.
Melina si scruta nello specchio del bagno prima di andare alla sua scrivania. Ha capelli lunghi e crespi, raccolti in una coda che scioglie solo una volta a casa. Ha gli occhi scuri e così vicini che qualcuno li accusa ingiustamente di strabismo di Venere. Ha un segno sulla fronte che è poco più di un solco, si fa più profondo quando Melina si corruccia perché c’è qualcosa che non capisce. Per il resto il suo viso non ha un segno. Ha la pelle di una ragazzina e le avvocatesse lì allo studio le dicono sempre: «Dimostri dieci anni di meno». Allora Melina cantilena di rimando: «Facciamo anche dodici». Ogni volta che scherza sulla sua età, Melina sente qualcosa morirle dentro.
Melina ha cinquantadue anni, quando ne aveva quaranta è cominciata la diaspora della sua famiglia. Quattro fratelli e una madre che non ha più visto dal giorno del funerale del padre. Don Raffaele, l’unico uomo che fosse mai riuscito a farla ridere, era il collante che teneva insieme tutti i figli. Senza la sua forza aggregante, la famiglia si era sparpagliata per il mondo rincorrendo i propri destini. La mamma di Melina aveva seguito il figlio maggiore e se n’era andata al nord, a Genova.
Don Raffaele aveva scattato a Melina la prima foto il giorno in cui era nata e aveva continuato ogni giorno. Chiedeva una sola posa alla sua figlia prediletta, un primo piano della femminuccia che aveva atteso per una vita.
«Spalle in giù, mento in su. Sarai mille donne diverse e io non me ne voglio perdere neanche una.»
Come sfondo un muro bianco, che era facile trovarlo in casa, al parco o in vacanza. Quando aveva iniziato a vivere per conto suo, Melina si fotografava da sola. All’inizio usava lo smartphone ma a don Raffaele quelle foto non piacevano.
«Questo è un grandangolare. Guarda che naso che ti fa, non sembri tu.»
Era andata a comprare una macchina fotografica e al negozio le avevano consigliato una di quelle tutte elettroniche, senza rullino. Con la macchina aveva preteso un obiettivo da cinquanta millimetri. Era stata una richiesta del padre, anche se non sapeva cosa volesse dire. Quando don Raffaele se n’è andato, Melina ha continuato a fotografarsi per sentirselo vicino. Ogni mattina si alza e si piazza davanti al cavalletto con la fotocamera montata sopra. Preme un pulsante su un piccolo telecomando e la fotocamera scatta. Deve farlo appena è in piedi, prima che il cervello le ricordi che ha altro da fare o che lo stomaco le faccia sentire la fame. Prima cioè che il suo corpo le fabbrichi un alibi.
Da quando è stata assunta allo studio e si è trasferita nel piccolo appartamento in cui vive, dal Vomero Melina non è più uscita. Non ha nemmeno l’auto, non ne ha mai sentito il bisogno. Quando vuole parlare con qualcuno ferma un turista per strada. Di rado, quando le risulta simpatico e le dispiace interrompere i loro discorsi, lascia il suo numero di telefono. Dopo qualche ora l’altro telefona, ma Melina ha già cambiato idea e per l’ansia che prova nel sentire quegli squilli mette lo smartphone in bagno, nel punto più lontano da dove di solito sta seduta, uno sgabello di legno vicino alla finestra del soggiorno. L’altro alla fine desiste, per noia o credendo di aver ricevuto un numero sbagliato.
Melina esce dallo studio alle sette e venti. A quell’ora l’estate serra ancora le sue dita umide intorno al collo di chi passeggia in cerca di frescura. Melina capisce subito che non ha voglia di tornare a casa. Quando imbocca via Luca Giordano si ferma a osservare la fiumana di gente che scorre tra i tavolini dei dehors. Si accorge presto del gigante dalla faccia larga, con i riccioli bagnati dal sudore schiacciati sulla fronte, impalato com’è in mezzo a tutte le persone che si muovono intorno. Lei e il gigante sono gli unici due fermi nella corrente. Ha un inizio di stempiatura e le guance appena cascanti. Melina lo giudica intorno alla quarantina. Sul petto ampio il gigante porta una fotocamera dalla tracolla troppo stretta e a Melina ricorda un San Bernardo, uno di quegli enormi cani che fanno tenerezza ma anche tanta paura.
«You lost? Ti sei perso?» gli dice Melina parandosi davanti.
«Sì e no.»
La risposta del gigante, in bilico tra due estremi, mette Melina in allarme, al punto che è lui a dover prendere l’iniziativa.
«Abito qui nel quartiere, non sono un turista» e allungandole la mano le dice il suo nome: «Sergio» e Melina risponde col suo.
«Vieni Melina, passeggiamo» mentre lo dice s’incammina prima che lei riesca a rifiutarsi.
Sergio cammina con lenti passi lunghi, Melina che è una donna minuta gli sta dietro a fatica. Sergio gira la testa di continuo sopra alla folla, come se cercasse qualcuno. Tiene il braccio destro piegato e la mano sulla fotocamera. Poggia il pollice sull’interruttore dell’accensione della macchina, teso come l’indice di un cowboy sul grilletto della pistola.
«Qui, dove adesso c’è il supermercato, c’era il vecchio cinema con i seggiolini di legno. Te lo ricordi?» Sergio indica una delle traverse che scendono verso via Gemito. Melina annuisce poco convinta, in realtà non si è mai allontanata fuori dalle strade principali. Sergio non la guarda mai, ma è come se fiutasse quello che pensa.
«Quindi vivi qui anche tu, ma da poco tempo e ti senti ancora un ospite.»
«Si vede così tanto?»
«Guardati in giro» continua Sergio dopo aver fatto una smorfia, «sei l’unica che indossa giacca e pantaloni scuri in un mare di canotte colorate. Se dovessi scommettere direi che sei una tutta casa e lavoro.»
«Perderesti» dice Melina, e l’improvvisa folata di orgoglio la fa avvampare.
Sbucano su piazza degli Artisti, proseguono sulla destra lì dove inizia un dedalo di vicoli, con gli edifici in stile Liberty di via Luca Giordano che lasciano spazio alle palazzine squadrate tipiche dell’edilizia del dopoguerra.
«Adesso è tutto chiuso ma al mattino c’è un vero e proprio suk, con la frutta e la carne che si vendono in strada. È qui che i veri abitanti del quartiere vivono, si nascondono dalle trappole mangiasoldi per turisti.»
Sergio guarda le cime dei palazzi, alza la fotocamera davanti agli occhi e preme il pulsante di scatto. Melina non riconosce il modello, ma intravede una scritta sul barilotto nero dell’obiettivo che dice “50mm”.
Melina si accorge che non sono molto lontani da casa sua, non se la sente di passarci davanti con uno sconosciuto. Prende lo smartphone dalla borsa per guardare l’ora, dice a Sergio che deve proprio andare. Sergio le detta il suo numero di telefono.
«Nel caso ti sentissi persa.»
Il mattino dopo, Melina è ancora distesa a letto quando vede il cavalletto nell’altra stanza in piedi sulle sue tre gambe. Per la prima volta pensa che le farebbe piacere avere un po’ di aiuto. Si alza e compie il suo dovere con meccanica consapevolezza. Sfila via la schedina dalla fotocamera e la infila nel computer. Scorre le foto fatte durante l’anno una dopo l’altra. Ogni tanto ne pesca una e la confronta con la più recente. Salta una decina di cartelle e pesca la foto che conosce meglio di tutte, quella di dodici anni prima, l’ultima scattata con il padre ancora in vita. La mette fianco a fianco con la foto che ha appena scattato e ancora non vede alcuna differenza. Melina è la stessa persona da quando è rimasta orfana di don Raffaele. Da un lato è felice che il padre non si sia perso nulla di lei; dall’altro teme che il lutto e il tempo si siano alleati per tenerla segregata in un mondo senza futuro.
Passa qualche giorno prima che Melina chiami Sergio. Le tremano le mani mentre compone il numero.
«Domani è sabato, saliamo su a vedere il panorama del golfo dalla Certosa di San Martino» propone lei. «E non fare quella faccia.»
«Quale faccia? Ti ricordo che siamo al telefono.»
Con il sorriso che le si apre a poco alla volta sulle labbra, Melina chiude la comunicazione.
L’indomani salgono insieme i gradini che tagliano a fette via Morghen. Davanti alla vecchia stazione della Funicolare si dividono per gioco. Sergio sceglie il percorso più breve, tra i viali alberati e i palazzi austeri dietro alle belle inferriate. Melina va per il percorso storico, in mezzo ai turisti già accaldati tra due ali di mura antiche. Melina a un certo punto ha paura e deve trattenersi dal correre in avanti. Si tranquillizza quando vede Sergio che all’intersezione dei due percorsi la sta già aspettando, con il braccio piegato e la mano appoggiata sulla sua fotocamera.
Si ritrovano a passeggiare tra i muri imbiancati a calce del monastero, l’uno accanto all’altro senza mai guardarsi. Sergio ogni tanto si pianta per scattare una foto. Melina si chiede cosa penseranno i turisti di una coppia tanto scalcagnata.
«Cosa fotografi?» chiede Melina all’improvviso. Sergio si blocca e la fissa, occhi negli occhi per la prima volta dalla mattina. Melina sente il formicolio del sangue che inizia a correrle per le guance. «Non oggi, intendo di solito» Melina abbozza quasi che tentasse di scusarsi.
«Architetture. Cartelli. Testimonianze del passaggio degli uomini.»
Sergio è così serio adesso. Toglie lo sguardo da Melina e stringe forte gli occhi, come se cercasse di mettere a fuoco un oggetto distante.
«Gli abitanti di un quartiere cambiano sempre, la gente si trasferisce. Però l’essenza del quartiere resta. Io non ci sono nato al Vomero, mi ci hanno portato quand’ero piccolo. Se riesco a catturare questa essenza, a capire cos’è, forse saprò di più su di me.»
«E non fotografi mai il tuo vecchio quartiere? Avrebbe più senso andare lì, non credi?»
«Ogni tanto ci vado, ma la gente di periferia è più diffidente» Sergio abbassa la testa e fa un sorriso amaro. «Il passato mi respinge.»
Entrano in silenzio nel vecchio chiostro. Erbacce alte coprono le tombe dei frati e crepe fitte disegnano ragnatele sui muri.
«Mi fai una foto? Qui davanti.» Melina indica un muro bianco messo meglio degli altri.
«Sicura? Di là si vede il mare.»
«Mi piace la luce che c’è qui.»
Melina abbassa le spalle e alza il mento. Sergio non le è così vicino quando scatta, eppure Melina giurerebbe di aver sentito il clangore metallico dell’otturatore vibrarle sotto la pelle. Quando si salutano, Melina glielo ripete due volte di fare presto a mandarle la foto, al punto che Sergio le restituisce un’occhiataccia.
È sotto alla doccia quando sente il suono della posta elettronica in arrivo. Si avvolge in fretta nell’asciugamano e corre al PC. Ingrandisce la foto di Sergio fino a vedere i pori della sua stessa pelle, accosta la nuova immagine a una delle vecchie foto. È ancora la Melina di sempre, quella con dodici anni di meno.
Nei giorni successivi, Melina si rifugia tra le mura dell’ufficio. Lavora fino a tardi, ben oltre il suo dovere. Sorride gentile quando, di prima mattina, restituisce le copie rilegate che le avvocatesse le avevano chiesto di fare appena la sera prima. Continua a scattare la sua fotografia quotidiana, prima di scappare da casa, ma non la guarda più allo schermo del PC. Le foto restano al buio, nascoste nella memoria della fotocamera.
Sergio si fa sentire ogni giorno, sul tardi chiama Melina al cellulare. Quand’è in ufficio, Melina non parla molto al telefono, anche se a quell’ora non c’è nessuno intorno che possa ascoltare le sue conversazioni. È come se il lavoro per Melina fosse un abito da indossare, che poteva togliere una volta a casa.
Sergio impara a confrontarsi con l’umore di Melina. Si affatica intorno alle sue lunghe pause, scivolose come pietre di guado che sembrano ogni sera tra loro più distanti. Non le chiede di uscire, non le forza la mano. Sergio racconta a Melina delle sue giornate da manutentore in un call center e delle sue uscite fotografiche. Poco alla volta, si infila nella routine di lei come le perline nel filo di una collana. Se tarda nella sua chiamata, Melina si sorprende nel controllare più spesso l’ora sul cellulare.
Una sera Melina è più apatica del solito. Sergio forse ha la sensazione che lei stia per sfuggirgli per sempre. Inizia a scandire ogni parola in modo che, inanellate nelle frasi, formino una corda dura alla quale Melina può aggrapparsi.
«Me lo ripeto quando non ho voglia di andare a fare foto: non sai mai cosa ti aspetta lì fuori. E infatti qualcosa da fotografare la trovo sempre, non torno mai a mani vuote.»
Chissà da quale recesso della sua immaginazione Sergio aveva pescato quella frase. In ogni caso sono parole che su Melina hanno effetto.
«Domani sera che fai?»
Melina e Sergio si rivedono sul corso principale, nel punto dove si erano conosciuti quasi tre settimane prima. Melina è passata da casa a cambiarsi, ha un abito lungo di lino bianco e una grossa borsa da mare appoggiata alla spalla. Per una volta ha sciolto la matassa di capelli neri sulle spalle. Spalanca la bocca della sua borsa davanti a Sergio, che non sa cosa fare.
«Avanti. Metti la macchina qui dentro. Stasera niente foto, fidati di me.»
Sergio esegue poco convinto. Melina lo prende per un braccio e lo spinge fino a una pizzeria, già presa d’assalto dai turisti. Quando riescono a sedersi non parlano molto. Ancora meno si guardano, distratti dal chiasso che c’è tutto intorno, dai turisti che sembrano sempre spaesati, dalla danza dei camerieri che si destreggiano tra le cento mani alzate. Finalmente Melina ordina una pizza tutta farcita, mentre Sergio chiede un’insalata. Quando il cameriere arriva, inverte la comanda. Sergio guarda perplesso gli strati sovrapposti di carciofini, funghi, salsiccia, pomodorini rossi e gialli.
«Assaggiala. Era destino» gli fa Melina.
«Tu credi nel destino?» Sergio sorride sarcastico mentre taglia via uno spicchio di pizza.
«Arriva per tutti il momento» risponde Melina tutta compita.
Melina racconta a Sergio per la prima volta della sua famiglia. Delle centinaia di migliaia di foto che le ha scattato il padre, dei fratelli sparsi per l’Europa, della madre assente. Man mano che porta fuori dalla testa le sue ansie, le vede rimpicciolirsi a poco a poco. Anche Sergio si lascia andare, parla a Melina dei genitori, delle loro scelta di dargli occasioni migliori in un quartiere ricco, di quel sacrificio vano che lo ha lasciato per sempre senza radici.
All’uscita del ristorante, dei turisti giapponesi, prima di mettersi in posa, mettono una fotocamera tra le mani di Sergio, che all’indirizzo di Melina allarga le braccia. Se la foto avesse registrato anche il suono, in Giappone sentirebbero la risata di Melina.
Mentre si dirigono verso piazza degli Artisti, Melina si fa seria.
«Devo chiederti una cosa. Quanti anni hai di preciso?»
«Quarantatré.»
«Io ne ho cinquantadue.»
Sergio si ferma in mezzo alla strada con la bocca semiaperta.
«Mi prendi in giro?»
«Per niente.» Melina fa un cenno con la testa e Sergio riprende a camminare.
«È un problema per te? Ce lo vedi un futuro con una donna tanto più grande?»
«Nessun problema, no. Sono solo sorpreso. Pensavo fossi più piccola di me.»
Melina si ferma incerta sul bordo della piazza, come se davanti avesse un’enorme vasca con onde pericolose che schiumano contro i marciapiedi.
«Saliresti da me? Casa mia è là in fondo.»
Sergio annuisce timido. Per attraversare la piazza si prendono per mano, non l’avevano ancora fatto prima.
La mattina dopo, quando Sergio apre gli occhi, c’è Melina che lo guarda, seduta sul bordo lungo del letto. Ha già indosso il suo abito scuro da ufficio.
«È tardi?»
«Non proprio, ma non ho molto tempo. Di là c’è il caffè, io vado a truccarmi.»
Melina esce dal bagno e trova Sergio in soggiorno, piegato sulle ginocchia, che fissa la fotocamera di Melina sul cavalletto da vicino.
«Vuoi che…?» chiede Sergio, indicando a Melina la fotocamera.
«Non c’è bisogno. Penso che passerò.» Melina si passa un dito sulla fronte seguendo il segno. «Sì, oggi passo.»
Melina imbocca il portone del suo ufficio insieme a una delle avvocatesse. Arrossisce anche se è il suo ritardo è di pochi minuti; l’altra fraintende l’imbarazzo di Melina e sorridendo le appoggia una mano sulla spalla.
Melina lavora tutto il giorno e per le nove di sera è a casa. In piedi davanti allo specchio del bagno si strucca gli occhi. È un’operazione ordinaria, eppure non riesce a portarla a termine. C’è qualcosa che la distrae, ma non capisce cosa. All’inizio non riesce a metterlo a fuoco, vede solo la ruga al centro della fronte che le si increspa. Poi lo trova, quel qualcosa. Si gira di trequarti e poi di nuovo di fronte. Ha bisogno di una controprova e si ricorda che all’ingresso c’è un altro specchio, lì può vedersi sotto una luce diversa. Una ciocca di capelli all’altezza della tempia sinistra ha del bianco alla radice. È sicura che non ci fosse prima, quel suo viso lo conosce a memoria. Attraversa il soggiorno per frugare nella borsa, prende il cellulare e lo spegne. Ha bisogno di star da sola, di dormirci su.
Al mattino la ciocca sporca di bianco è ancora più evidente ora che la luce del giorno passa dalla finestra del bagno. Melina si siede in soggiorno nel suo posto preferito, tira su le ginocchia e ci appoggia le labbra. Dopo qualche minuto, va a prendere il cellulare, quando lo accende trova una chiamata di Sergio alle 22:44. Il telefono di Sergio non fa due squilli che Melina sente già la sua voce.
«Mi hai chiamato prima di entrare al lavoro, devo preoccuparmi?»
«Ho deciso di partire.»
Sergio non chiede per dove, né per quanto tempo. Aspetta che Melina sia pronta a dirglielo, che gli serva la novità un boccone amaro alla volta.
«Chiedo in ufficio se posso stare fuori un mese. Voglio vedere mamma per prima. Poi vado da tutti gli altri.»
«È per colpa mia? Colpa o merito… insomma ci siamo capiti.»
«Sì e no» la risata di Melina scioglie il groppo che le bloccava la gola e le faceva tremare la voce. Poi torna a farsi seria.
«Torno.»
Melina sceglie una strada diversa per andare in ufficio, una che non ha mai fatto prima. Vuole che le si imprimano nella mente il suono delle botteghe che aprono, i profumi che escono dai laboratori dolciari, le facce assonnate degli studenti delle medie. Melina non aveva mai preso un giorno di ferie e allo studio nessuno ha il coraggio di contrastare la sua richiesta, per quanto a molti, a giudicare dalle facce, sembri una stramberia.
Alla sera Melina ragiona sulle parole che dirà alla madre tra poco al telefono mentre appoggia le sue cose nella valigia aperta. Lo smartphone sul comodino lampeggia brevemente per una notifica di un messaggio in arrivo.
«Un lavoro da manutentore lo trovo anche tra un mese. Quindi se mi vuoi vengo con te.»
Melina si siede sul letto e rilegge il messaggio di Sergio un paio di volte, con cautela. Come se ogni passaggio degli occhi sullo schermo possa muovere i pixel neri e cambiare il significato delle parole. Melina non può rispondergli, deve far prima i conti con i segnali che le arrivano dal corpo. Non potrà rispondere finché non avrà capito come può mettere tanta paura la felicità.
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in racconto