La promessa del seme

L’ultima consegna è per la paraplegica sulla Pantigliate, strada corta ma ostica, casellari interni e citofoni con i numeri, cosa che implica la ricerca del cognome e poi la speranza e subito dopo l’attesa: «Chi è??» – «Posta!», una liturgia senza compromessi, l’idea di una prassi che di solito la paraplegica soddisfa, e questo lo sai, non è vero?, ma certo!, non sei un articolo cinque, consegni la posta in quel quartiere da vent’anni, e poi la senti nelle ossa quella prassi, la soddisfazione della liturgia, e quando accade il tuo corpo ne è grato, proprio come con la paraplegica, che poi te lo ha detto anche il marito, un politico di quelli importanti che parlano in televisione, non che questo ti faccia particolare impressione, lo avrai incontrato mezza volta che basta e avanza, e non volle firmare per la moglie: «Piuttosto le suoni!» ti disse con il sorriso preaffrancato «Le suoni, per carità!. Che un po’ di moto le farà bene!», e tu ci hai pensato a quella parola, alla carità cristiana che non ti è propria perché tu credi in niente, hai pensato a quell’uomo e al fatto che mai potrebbe immaginare che tu credi solo in ciò che puoi incasellare, ecco, solo in quei ritagli di cellulosa o in quella specie d’indagine, la ricerca del cognome sul casellario che alla fine si riduce al gesto della consegna ovvero alla tua mano che inserisce la lettera nella fessura della cassetta, ecco, in tutto questo tu credi ciecamente, nella posta piuttosto che nell’incorporea drammaturgia che trasporta, figuriamoci se credi nell’amore per il prossimo che il marito della paraplegica ama invocare, nella verità di Dio che quell’uomo non può conoscere come non conosce la tua di verità, l’unica che concepisci, la verità della strada, al massimo del marciapiede, la verità che hai visto cambiare in vent’anni, da meno caotica e più ruspante in un reticolo di linee e assi e rumori di ruspe, che ne sa lui delle persone, politico com’è, che ne sa di come sono cambiate proprio come la strada: «Le suoni!» invece ti disse «Le suoni per carità!», e tu hai risposto nulla perché è questo che ti ha insegnato la strada, a riconoscere la fine di una conversazione, che poi è ciò che vorresti tua moglie sapesse fare, ecco, riconoscere la fine, ma lei continua e continua, non è vero?, proprio come ieri sera, giusto?, e per quale ragione avete litigato?, sempre la stessa dell’avere e del non avere figli, ecco, perché ormai per tua moglie la procreazione è l’unico scopo dell’umanità divisa in generi, mentre per te, che in strada incontri le peggiori esternazioni di quell’umanità (mariti delle paraplegiche inclusi), procreare è solo un altro modo per salvare le apparenze.
Durante il litigio tua moglie ha parlato della promessa del seme e della civiltà di cui ogni uomo è capace. Tu hai ribattuto che la civiltà è moribonda e che le promesse, da che Dio è Dio, non sono mai state dei buoni rivitalizzanti.
«Mia moglie le ha aperto?».
Anche oggi incontri il marito della paraplegica; la seconda volta in un anno. È proprio lì davanti il portone, l’autista e la scorta di fronte. Si volta senza aspettare la tua risposta, ma il sorriso preaffrancato è ancora lì.
E tu lo sai o lo immagini che dietro quel sorriso esiste una corazza di dolore che l’uomo ha forgiato giorno dopo giorno con cura e disciplina, e allo stesso modo sai o immagini che il cinismo che mette in scena per alimentare quella corazza non ha alleggerito di un milligrammo l’amore che prova per la paraplegica. Di certo la ama. Ciononostante non riesce più a fare l’amore con lei. E questo tu lo sai o lo immagini perché anche stamattina (così come la prima volta che lo incontrasti), il marito della paraplegica entra nella scuola di formazione sotto casa, invece di salire da sua moglie.
E dunque: la preside, ecco.
A volte ti sforzi di ricordarne il viso. Ne ricordi il corpo, di certo, ma non i lineamenti. Questo perché la preside ha un corpo assai succoso. Ma soprattutto perché tu non guardi mai le persone in faccia. Delle persone guardi le mani e lo fai solo per evitare che firmino sul rigo sbagliato. E anche se questo è un modo poco umano e molto professionale di approcciarsi all’universo, è anche l’unico che tiene conto della sola ragione a cui il tuo universo, quello postale, è soggetto.

Il tempo.

Tu tracci una X su dove le persone devono firmare: le persone firmano altrove. Questo perché le persone sono contro natura, pensi ogni volta, le persone non stanno a sentire, preferiscono non guardare, firmano altrove.
Le ragioni di tempo, dunque, è inevitabile per te traslarle sulla vita privata.
Quando tu e tua moglie vi siete conosciuti, cinque anni fa, tu hai subito chiarito la tua posizione sull’avere e sul non avere figli, spiegando la perdita di tempo che questi comportano. E benché tua moglie, all’inizio, avesse sposato tali argomentazioni, con il passare degli anni gli impulsi del suo intimo hanno avuto il sopravvento, trasformando le certezze in un nucleo di idee instabili.
Per quanto riguarda te, invece, purtroppo per lei, lo scorrere del tempo ha cementificato tale nucleo nella tua testa invece di ammorbidirlo. Fino al litigio di cui sopra.
Non ricordi i motivi che hanno portato tua moglie fuori di casa in lacrime, sai solo che non l’hai fermata e che sei andato a letto. Una volta sveglio non ti sei preoccupato di dove lei avesse trascorso la notte (dalla madre) bensì di che ora fosse e se avessi riposato abbastanza, se avessi sfruttato in maniera adeguata quel tempo notturno.

E dunque: il tempo, sempre il tempo.

Adesso sei di fronte il portone della paraplegica, pigi il pulsante e la donna arriva al citofono dopo un millennio. Le dici della consegna. Lei apre. Tu sali. E appena fuori dall’ascensore sei stordito come sempre dal quel corpo ferito e dalla sua piccolezza, dalla fragile trasparenza della carne, dalla fisicità della colonna tutta scosse e meningoceli.
Abbassi lo sguardo ma hai quel corpo in testa. Poi quello della preside. Pensi al marito della paraplegica. Così fai un’eccezione e alzi lo sguardo sul viso della donna.
Lo guardi.
Guance e labbra in minuscole storture senza scopo di bellezza, gli occhi frenetici.
Gli occhi della paraplegica sorridono insieme.
Lei ti spiega che s’è spaventata quando hai citofonato; tu pensi che in effetti dovresti smetterla di suonare, come se ogni volta dovessi allertare i condomini di un incendio.
Così ti scusi.
Torni in te stesso e al tuo ruolo.
Segni con la solita X il punto in cui la donna deve firmare. Le metti la penna in mano e la paraplegica arrotola le dita come ad ancorare una mazza o un coltello o un chiodo sottile ma lungo e pesantissimo. Centra il rigo al primo colpo ma ogni lettera è un rantolo. Tossisce. Così tu fermi il foglio e ancora niente. Allora la paraplegica ti chiede se può sedere, se tu puoi entrare, se hai un minuto.

Un minuto.

Entri in casa.
Nell’abitazione della paraplegica persiste un odore di immobilità, ma il termine che il tuo cervello sintetizza è: stantio. Se fossi un essere umano creativo o maggiormente analitico scopriresti che occorre un alto livello di fantasia per immaginare l’immobilità di un odore e che la paraplegica non possiede quel livello di fantasia e neanche tu. Ma la stanza in cui la donna ti introduce presenta una scrivania e un mobile con sopra un televisore e la libreria, e tutto quello che riesci a notare è che ogni cosa è lì ferma, come se nessuno l’avesse toccata da anni, come se qualcuno si fosse preoccupato di togliere la polvere solo di tanto in tanto, diciamo una volta al mese.
Muovi qualche passo nella stanza. Osservi la libreria. Un post-it su uno degli scaffali dice: “Promessa del seme: promessa di civiltà”.
Sono solo sei parole scritte in caratteri sbilenchi e con una penna di colore blu. Ma tu guardi la paraplegica e non riesci a fare a meno di pensare a ciò che tua moglie ti ha detto ieri sera.
Porgi la raccomandata sulla scrivania e alla donna il foglio su cui firmare. Guardi le mani lisce e lucide raccogliere una penna roller dalla scrivania e scorrere sul foglio. Come ad incidere un lingotto di marmo. Pensi che per la paraplegica firmare quel piccolo foglio sia come per te sollevare quella libreria intera, di peso, per poi lanciarla fuori da quella casa e per le scale. Ti chiedi come sia possibile che la moglie di un uomo così importante, in tali condizioni fisiche, non abbia una persona a servizio, che si occupi di lei.
La paraplegica sbuffa e suda e allora non puoi fare altro che pensare a quel tuo mestiere come a qualcosa di realmente concluso, e che le penne e le carte e le scale e gli ascensori e i palazzi e le strade e le città siano davvero idee concluse, davvero solo idee da conservare per i posteri insieme ad altre idee irriguardose, come quella di tua moglie in merito ai figli; pensi che un giorno le persone risucchieranno dai cervelli tutte queste idee come acqua in un water, e che al loro posto, nel giro di pochi secoli, esisteranno all’interno dei crani e al loro esterno solo spazi grandi quanto oceani prosciugati, dove l’umanità, postini compresi, giocherà a nascondino con sé stessa, depositaria di una moltitudine di saperi impossibili da tramandare.
Così adesso eviteresti volentieri la tua presenza in quello spazio.
Senti la paraplegica rantolare. Vedi i suoi occhi roteare nella tua direzione. Ancora le ragioni di tempo ti spingono a lasciare quella casa e quel palazzo. Invece ti ritrovi a prendere la mano della donna in un gesto che sorprende entrambi; ma soprattutto te, che mai avresti immaginato potessi compierlo facendoti beffa del regolamento postale.
La tua mano guida la mano della paraplegica sul foglio. E la penna, la deliziosa penna della donna, sulla quale non avevi ancora prestato la benché minima attenzione, si allunga segnando una linea gentile e poi un’altra più breve e poi un’altra, e così entrambi, adesso, vi ritrovate incarnati in quella serie di linee, e davvero quella serie di linee è istantaneamente l’unica traccia di civiltà in quel tempo sospeso.
La paraplegica smette di rantolare e sorride, e quando alla fine ogni linea è compiuta, ti dice che se fosse tua moglie sarebbe fiera di te.
Lo dice e poi ti guarda. Tu guardi lei e sai che quegli occhi liquidi custodiscono una tristezza antica, una dignità e una gioia antica, che nulla hanno a che fare con la malattia, e di cui è impossibile misurare il volume d’acqua che ne ricopre la superficie.
E anche se in effetti non hai fatto niente: «Proprio un bel niente di niente, signora», non puoi fare a meno di tacere. E poi, di nuovo, di decidere.
E di attendere.

Ancora tempo.

Le mani della paraplegica si fermano sotto le tue ed è come se entrambi i cervelli abbiano preso ad elaborare urla e imperativi. Con enorme fatica la donna si solleva dalla minuscola scrivania e si avvicina e una volta arrivata e con altrettanta fatica ti carezza la faccia, prende la tua mano, ti abbraccia e ti bacia risalendo sul petto e sul collo.
Così adesso vuoi vedere quel suo corpo.
E la donna te lo mostra in una contorsione di nervi trasparente: i seni raggrinziti coprono polmoni solidi e dietro la carcassa di costole il cuore zuppo pulsa apparendo e scomparendo, come l’apertura e la chiusura di un mondo; il tuo occhio scorge più in basso l’addome martoriato e oltre ad esso lo stomaco e le viscere di salute e di certo il ventre, ancora arido e senza carne, ma sotto le ovaie ripiene e l’utero elastico dietro il pube.
Vedi ciò che la donna vuole lasciarti vedere: la matrice del desiderio, isolata come l’acino nella polpa di un frutto.
La osservi e quasi puoi toccarla.
Vorresti farlo.
Vorresti toccarla.
E poi la tocchi.
Attendi lo sbalzo osservando il groviglio cerebrale della paraplegica, la scatola cranica e gli impulsi dell’elettricità intermittente al suo interno: pieni e vuoti e ancora pieni, e assi intrecciati da una mano inferma che non è più la sua.
Da tempo non provavi il desiderio di un primo respiro e l’esigenza di un secondo, la forza per un terzo. Rimani con gli occhi negli occhi della paraplegica all’interno del suo corpo spezzato, ne sorseggi ogni centimetro come si conviene alla fragilità di un’intera esistenza: con tremore e senza risparmio. Insieme vi lasciate andare l’uno nell’altra per poi tornare indietro da soli, capendo ciò che sta accadendo solo mentre sta accadendo e che quel legame istantaneo si sarà consumato alla fine di quel momento, per poi iniziare in una nuova forma e da un altro punto di vista.
E questo è tutto.

Non hai più tempo.

Sai che una storia significante come questa accade sempre ai postini e non ai personal trainer o agli ingegneri o ai medici. Ingenuamente pensi che solo i postini si possano ritrovare prima o poi invischiati in queste storie di paraplegiche e di figli e di mariti importanti e di presidi, e non sai il perché. Chiederai in ufficio appena rientrato, al collega più anziano, sapendo di non ottenere risposta.
Ciniche comprensioni.
Linguaggi distorti.
Linee e assi tracciati su avvisi di pagamento.
Persone a proprio agio nei loro gusci di case continueranno a urlare: «Chi è??», e da lì dentro ad assistere al compiersi della liturgia, sperando nella lettera giusta di un lontano parente americano.
Ripiombi nella certezza del tuo mestiere e della strada e di tua moglie in attesa da tempo (sempre il tempo) di un tuo cenno pacificatore o di un tuo assenso o di una speranza.
La paraplegica ti guarda di nuovo e tu sai quello sguardo nel midollo. È lo sguardo di una donna che riconosce il seme dell’uomo al suo interno. È uno sguardo che svanirà prima di sera, anzi prima di fare la spesa e di tornare a casa, prima di fare lo scarico delle raccomandate e di lasciare l’ufficio, prima del traffico e di sicuro prima che tu possa riprendere la porta e salire sull’ascensore.
La strada ti sorprenderà lì fuori come sempre. E quando la paraplegica chiuderà la porta, quel tonfo per le scale materializzerà nella mente la figura di tua moglie: perché io sarò lì come sempre, ecco, nella mia scuola appena fuori dal portone e già senti la mia voce dall’esterno, le mie parole e i miei silenzi, come ogni giorno, e già pensi al mio corpo succoso e al fatto di non averlo fermato prima di uscire ieri sera, ai lineamenti del mio viso che non guardi mai, perché tu non guardi in faccia le persone, pensi alle mie mani e al politico che di tanto in tanto appare e a tutto ciò che sai o immagini, pensi alle mie parole prima di dire le tue, sul fatto che mi ami, sulle tue paure e su ciò che ti frena, dirai della civiltà di cui sei capace e della promessa del seme fatta ad altra da me.
E poi parlerò io, forse, anche io vorrò parlare, dire qualcosa, più forte, sopra la tua voce, in modo da ritrovarci insieme nel punto di minore ascolto, di maggiore chiarezza, ognuno elencando ciò che siamo riusciti a costruire e a distruggere e ciò che il tempo costruisce e distrugge a sua volta, e forse capiremo e di sicuro no, ma forse le cose prenderanno la piega che entrambi abbiamo sperato per entrambi e mai abbiamo osato dirci: delle cene fredde, delle notti in forse, delle lunghe albe agganciate alle mattine, dei pesanti pomeriggi mai cambiati negli anni ma in continua mutazione ogni giorno, delle vite prese in carico e notificate, forse di un altro mondo scaricato, di un’altra vita consegnata in busta chiusa, di un altro spazio riempito di tempo sprecato, e forse di qualcos’altro o di un altro forse, ancora.