Siamo seduti su un divano con una trama a righe gialle e rosse, sotto gli occhi attenti di tutti quelli che passano di lì. Al suo fianco c’è una radio vintage modello anni 50, alla mia sinistra una finestra finta dalla quale mi viene comunque spontaneo provare a guardar fuori. Una bambina mi si avvicina correndo e urla qualcosa che non capisco, prima che la madre arrivi e la porti via.
Di fronte a me ho un pulsante con scritto “San Francisco 1906”. Mi giro verso di lei per chiederle conferma prima di schiacciarlo, ma sta guardando il cellulare.
«Partiamo?»
«Sì!» Fa un movimento strano col collo, allungandosi in su e in avanti allo stesso tempo. La prima volta che gliel’ho visto fare scherzando le ho dato della foca. Col tempo è diventato il nomignolo affettuoso con cui la chiamo, la mia foca monaca, ma è passato un po’ dall’ultima volta che l’ho utilizzato.
Schiaccio il pulsante e mi distendo comodo. Lei continua a digitare sul cellulare, disinteressata a tutto quello che la circonda.
Sono a Brema oggi, a San Francisco nel 1906. Lei non so dove sia né quando, e neppure con chi. Chiudo gli occhi, la radio suona musica jazz e la terra inizia a tremare.
Abbiamo scelto Brema come meta del nostro weekend fuori porta perché, citando la guida che ci ha prestato mia sorella, “ha fama di essere uno dei luoghi più aperti e ospitali della Germania, con uno spirito in perfetto equilibrio tra stile, concretezza e qualità della vita”. Inoltre abbiamo trovato il volo a nove euro e novanta, fattore che ha influito molto sulla scelta visto che io sono in cassa integrazione e lei studia ancora.
Una volta lasciati gli zaini nella piccola guest house trovata su internet cominciamo a visitare la città. Prima meta: piazza del mercato.
«La statua di Rolando è il simbolo della città e della sua indipendenza. Durante la seconda guerra mondiale gli abitanti temevano che le bombe la distruggessero, ma nonostante i danni in tutta la città lei è rimasta lì, integra, a vegliare su di loro.»
«Avrebbe potuto anche salvarli dalla crisi del dopoguerra». Lei fa un sorrisetto e si guarda attorno. Indica un edificio tutto vetrate dall’altra parte della piazza.
«Quello cos’è?»
«È la sede del Parlamento del Land. Qui dice che hanno cercato di integrarla con lo stile architettonico della piazza, ma da quel che ne so i cittadini non sono rimasti soddisfatti».
«In effetti fa proprio schifo al cazzo».
«Dove non arrivano le bombe arriva il capitalismo». Rido, ma lei mi guarda senza capire.
«Cosa c’entra? Mica è una banca».
Vorrei spiegarle quella battuta, ma mi accorgo che non la capisco bene nemmeno io.
«E San Francisco è stata distrutta per così poco?» Il primo terremoto non l’ha impressionata per niente.
«La faglia di San Andreas non perdona. Anche se in realtà sono stati più che altro gli incendi a distruggerla.»
Stiamo visitando l’Universum, una specie di museo della scienza e della tecnica interattivo. Il divano su cui siamo seduti è un simulatore di terremoti, pronto a scuotersi non appena viene schiacciato il pulsante relativo a uno dei tre peggiori cataclismi tellurici della storia recente. Ce ne rimangono due, Albstadt 1978 e Izmit 1999, due luoghi e due date che non mi dicono nulla.
«Ti è mai capitato di assistere a un vero terremoto?»
«Una volta, a casa di amici al mare.» Non distacca lo sguardo dal cellulare neanche mentre parla. «Abbiamo visto la parete muoversi e sentito dei rumori strani, nient’altro. Pensavamo fossero i vicini che trombavano e ci siamo messi a battere contro la parete, urlando e fischiando. Ci siamo accorti di quel che era successo solo il giorno dopo.»
Cerco di immaginarmela mentre incoraggia vicini inesistenti a fare sesso. Sarà stata eccitata? Chi ci sarà stato con lei?
Premo il pulsante Albstadt e la radio comincia a suonare quella che sembra una musica tirolese, presto seppellita da scariche elettrostatiche. Più che al cataclisma penso a quella fetta di tedeschi ridotta a uno stereotipo culturale dai loro stessi compatrioti.
Dopo la piazza ci aspetta l’ascesa alla sommità del Duomo: duecentosessanta gradini, inframmezzati da qualche pausa per goderci sale con armamentario d’epoca e la vista del complicato sistema di campane. Arrivati in cima a una delle due torri lei è esausta, io invece sono più preoccupato dal freddo. Ingannato dal periodo estivo mi sono portato solo vestiti leggeri, ma qui in alto tira il tipico vento freddo delle città marittime del nord: l’aria evidentemente ignora che il porto vero e proprio è distante una cinquantina di chilometri.
Lei mi guarda con aria minacciosa. «Per oggi abbiamo finito di camminare.» Vorrei ricordarle che dobbiamo anche tornare giù, ma non mi sembra il momento migliore per dirglielo. Cerco di distrarla mostrandole il veliero sul fiume, la Bottchstrasse, il lago di Stadtsee, anche se quest’ultimo non sono veramente sicuro di dove sia. Rimaniamo una decina di minuti in cima alla torre, lei col fiato corto e io con la pelle d’oca, poi propongo di scendere e lei fa segno di sì, con quel movimento che sembra una richiesta di pesce.
Cerchiamo un posto dove andare a mangiare e finiamo in un McDonald’s, cioè quello che pensiamo di poterci permettere se vogliamo contenere le spese. Abbiamo ancora due pranzi e due cene, l’ebbrezza di un viaggio val ben un paio di Big Mac. Dal di fuori non sembra neanche male, sta in un edificio di mattoni neri ed è perfettamente integrato con l’ambiente circostante, ma appena dentro ci accolgono le urla di bambini e il tipico arredamento senza stile che troveremmo ovunque, da New York a Saigon. Siamo in un non luogo, penso, e non è neanche un pensiero così originale.
Alla sera siamo stravolti. Ceniamo in un kebabbaro vicino alla guest house, poi torniamo in camera per riposarci un poco. Mi faccio una doccia perché so che mettermi a letto in questo momento equivarrebbe ad addormentarmi di sicuro, lei invece confida nella televisione per rimanere sveglia. Mentre mi spoglio segue una specie di talent, i giudici valutano la performance di un uomo vestito da scoiattolo con termini che solo un corso di lingue superaccelerato potrebbe svelarci. Le probabilità di continuare la serata altrove sono contro di noi.
Quando esco dal bagno mi avvicino, nudo, ma sta dormendo della grossa e ha la bavetta che le cola dalla bocca aperta. Spengo il televisore, rientro in bagno e cerco un porno sul cellulare per consolarmi da solo. Metto un classico, The last fight con Rocco Siffredi, cimelio di un periodo in cui i film hard avevano ancora una trama. Mando avanti fino al punto in cui la fidanzata del suo migliore amico, un pugile promettente a cui lui ha insegnato tutti i suoi trucchi, va a casa sua e gli confessa che vuole scoparselo. Rocco fa in tempo a rifiutare prima che lo stacco successivo lo veda intento a farsi spompinare. Cerco di menarmelo, ma sento in testa la voce di lei.
«Guardala così, questo potrebbe dare un po’ di pepe alla nostra relazione.»
Vado avanti per qualche minuto ma è tutto inutile. Il tradimento non mi eccita, ma forse non è solo quello il problema. Procurarmi un’erezione diventa sempre più difficile, non so se è una questione mentale o fisica. Mentre cerco di capire se mi convenga contattare uno psicologo o un urologo faccio quello che mi riesce meglio: procrastino.
«Qui dice che il sisma ha distrutto 8500 abitazioni.» Sessant’anni di evoluzione edilizia hanno portato a un notevole contenimento delle vittime, se penso che a San Francisco il sisma ha ucciso più di 400 persone. O forse negli anni settanta in Germania contavano più le case delle persone.
«Ok. Ce ne manca uno quindi?» Non molla il cellulare un attimo. È stata una ‘idea sua venire qui dentro, non posso neanche dire che si stia annoiando. Solo non è presente.
«A chi stai scrivendo?»
«Chat delle amiche, le aggiorno su quello che stiamo facendo.»
«E non potresti scriverglielo dopo averlo fatto?»
Lei rotea gli occhi verso l’alto. «Sì ok, mica posso scrivere e traballare nello stesso momento. Sai mai che mi si distragga il culo.» Mette il cellulare in tasca e si mette seduta tutta impettita. «Dai. Sono pronta.»
«Non è il caso di offendersi.»
«Non mi sono offesa, sto cercando di godermi l’esperienza. Dai schiaccia.»
Premo il pulsante. Dovrei essere io quello offeso, invece finisco per sentirmi in colpa. Non ho voglia di litigare, non ho voglia di niente e questo finisce per farmi sentire anche inadeguato. Dovrei essere uno pieno d’iniziativa, interessante, così non avrei più paura di perderla. Di rimanere da solo.
Mi chiedo se a Izmit nel 1999 qualcuno si sentisse come me, ovunque essa sia.
Al pomeriggio del secondo giorno possiamo confermare che Brema è una città comoda da visitare, talmente comoda che l’abbiamo già vista quasi tutta. Siamo stati nella Böttcherstrasse (la guida dice che il governo nazista conservò la via come esempio di “arte degenerata”), abbiamo sentito suonare il glockenspiel, ci siamo fatti una passeggiata lungo le rive del Weser e siamo andati a toccare naso e zampe all’asino della statua dei musicanti, come se volessimo presto tornare ancora qui. Dopo aver camminato per i vicoletti dello Schnoorviertel passiamo un po’ di tempo al parco Wallanlagen, sdraiati sull’erba a goderci il sole, lei col giubbotto e io con le maniche tirate giù di una felpa comunque troppo leggera. Le temperature non accennano a farsi più miti, e si sta anche annuvolando.
Decidiamo di cenare in centro, in un posto tipico, valutiamo un po’ di ristoranti ma alla fine ripieghiamo su un pub irlandese. Abbiamo voglia di farci una birra un po’ più pesante di quella sciaqua tedesca, anche se non ci abbiamo nemmeno provato ad assaggiarla. Un cartello appeso vicino al bancone promette un dj set rock dalle undici.
Tiriamo tardi con un mega hamburger davanti e un paio di birre a testa per mandarlo giù, medie per me e piccole per lei. Il dj set inizia, mettono Amerika dei Rammstein e io penso che questa scena potrebbe stare accadendo ovunque, persino a casa nostra. Ci alziamo e andiamo a ballare, dopo un paio di pezzi il momento crossover finisce e partono i Jet.
Abbiamo viaggiato lontano per provare le stesse esperienze.
Vado in bagno e quando torno lei non è più in pista. La vedo al bancone con una terza birra in mano, accanto a un tizio rasato con il piercing al naso e un dilatatore all’orecchio destro. Quando mi avvicino lei fa un cenno verso di me con la mano, il tizio mi guarda e le sussurra qualcosa all’orecchio, poi se ne va con un mezzo sorrisetto.
«Quello chi era?»
Lei scrolla le spalle. «Uno che ha una band. Un inglese, ha detto che domani suona in un locale in periferia, penso sia una specie di centro sociale. Ci ha invitato, ma gli ho detto che ripartiamo nel pomeriggio.»
«Ci ha invitato?»
«Sì. Peccato, se era stasera saremmo potuti andare.»
«Voglio dire, ci ha invitato? A tutti e due? Perché io manco ero lì.»
«Ti avrà visto prima in pista con me, cazzo ti devo dire? Qual è il problema?»
«Sicura che non abbia invitato solo te?»
Lei sbatte il bicchiere sul bancone, facendo voltare un gruppetto di ragazze che balla accanto a noi. «Ma porca puttana! Cos’è che vuoi dire? Secondo te salto addosso al primo che passa? Tu sei fuori di testa.»
Prende una sorsata di birra, poi mi sbatte il bicchiere in mano. «Finiscila, io vado al cesso.»
La osservo mentre cammina veloce verso il bagno, poi mi metto a guardare la gente in pista. Incrocio lo sguardo con una delle ragazze del gruppetto, ha gli occhi azzurri e un sacco di tatuaggi colorati sulle braccia. Mi sorride, poi dice qualcosa alle amiche e si mette a ridere. Potrei alzarmi e andare a parlarle, nel mio inglese stentato, con la mia bassa autostima. La farei ingelosire, o risulterei solo ridicolo?
Faccio sempre più fatica a reggere questo saliscendi emotivo. Non diceva che la mia mancanza di gelosia la mortificava? Vorrei solo capire come fare a tenermi stretta lei mantenendo anche la dignità, ma sento che perderò entrambe molto presto se le cose continuano così.
A Izmit la terra trema come non mai. Il suono del Sitar scompare sotto una sequela di rimbombi, mancano solo le urla oltre quella falsa finestra per rendere credibile il quadro. Invece, senza la voce di almeno una delle 17000 vittime accertate, finisco per godermelo meno degli altri. Avevo bisogno di una fetta di pornografia del dolore per non pensare al mio.
«Ammetto che questo mi ha fatto cagare sotto. Cioè, mi sarei cagata sotto se non avessi saputo che era tutto finto. Che roba però.» Lei fa per alzarsi, poi deve sentire una vibrazione provenire dal cellulare e si rimette seduta.
La bambina che ci aveva urlato addosso poco prima ora ci guarda da lontano con un sorrisone lungo tutta la faccia. Sembra in attesa del suo turno, ma noi siamo ancora seduti qui, in mezzo all’innocuo scenario di ben tre catastrofi naturali.
Lei è ancora concentrata sul cellulare, così tanto che provo a sporgermi un po’ all’indietro per vedere cosa sta scrivendo e a chi. Agli altri visitatori in attesa potremmo sembrare i protagonisti di una sitcom, la ragazza bella e intelligente che non si sa come sta con quel tizio anonimo e impacciato, ma taaaanto simpatico.
Riesco a leggere una frase, poi torno a guardare fuori dalla finestra. E allora cosa dovrei fare, ha scritto alle sue amiche, ma mi sa che ha già deciso. Ho un groppo alla gola, non so se è rabbia o se ho voglia di mettermi a piangere qui, davanti a tutta questa gente, sul divano di una città diversa da quella in cui sono venuto a rimettere insieme una relazione che, a quanto pare, sta andando in pezzi anche senza bisogno di terremoti.
«Ma lo stai facendo ripartire?» Lei smette per un attimo di guardare il cellulare, mentre ci fissiamo mi accorgo anche io di un tremore. Non è solo il divano, perché il nostro pubblico si guarda attorno preoccupato. Anche alla bambina si spegne il sorriso, la madre gli mette un braccio attorno alle spalle come a proteggerla.
La terra trema sempre di più e stavolta è proprio qui, a Brema. Mentre le persone attorno a noi urlano io non sento niente, giusto un po’ di sollievo, ma poi lei mi si stringe addosso con tanta forza che penso alla statua di Rolando, in piazza del mercato, e spero tanto che resista anche questa volta.