Muscolo involontario

Sei supina. La pelle è liscia e tirata sopra le ossa del petto. La forza di gravità allontana i tuoi seni l’uno dall’altro, al centro rimane una piazzola che scende fino al collo. Proprio lì metti la tua mano. La lasci aperta in mezzo, a emanare calore, un palmo in basso rispetto alle clavicole. Ancora più in profondità, oltre ai tessuti irrorati di sangue, trovi un nucleo che vive e che brulica. Il movimento è appena percettibile a riposo, si confonde con l’andirivieni regolare del respiro. Rimane dietro le quinte. È una specie di vibrazione intermittente. Un nulla, solo al buio, con le persiane chiuse e i rumori della strada non ancora destati dall’alba lo puoi ascoltare mentre accade. Comunque non ti fa più né caldo né freddo, mica come la prima volta che hai inventato questo gioco di autocontatto. E te lo figuravi turgido, avvolto da nervi e tubi anch’essi viscidi e muscolari, arroccato in una gabbia di costole e costretto dal volume dei polmoni. Questo è il tuo cuore.
Afferri lo smartphone dal comodino e poggi la base in corrispondenza del plesso branchiale. Rispondi a un messaggio di tuo padre – in bocca al lupo stellina – poi fai scorrere la griglia di immagini proposta dall’algoritmo di Instagram. Soffermandoti sul viso levigato di un’influencer scandinava. Indossa un blazer oversize in sapiente contrasto con il top in lycra – se così si può definire quel cerotto di stoffa – e dei pantaloncini da ciclista che le stringono il vitino abbronzato. Al braccio, come una pochette, tiene un barboncino. Rimani altri due minuti a letto, esaminando altre versioni della stessa cosa, cascando col dito su alcuni tranelli pubblicitari che però si stemperano prima di compiere la propria missione, titillando il tuo bisogno di appartenenza all’universo moda, facendoti sentire da meno, ma senza indurti all’acquisto. Non saranno i sandali Bottega Veneta a farti crescere le gambe.
A questo punto ti sei già ricordata che giorno è. Oggi è un giorno interessante. Cerchi di dirlo anche a quell’altra, nello specchio.
Prendi i vestiti che hai preparato sulla sedia e ti vesti con cura, facendo attenzione a non graffiare il nylon delle calze con le unghie fresche di gel. Non sai se passerete in hotel, meglio arrivare pronta per l’evento.
Ti lavi i denti a rallentatore, vorresti assicurarti che ogni situazione che incontrerai durante la giornata sia in sintonia con il debolissimo movimento di questa nullità di cuore, che è come un colibrì nel taschino.
Ma il gioco è bello quando dura poco, anche questo dello stalking cardiaco, e a mezzogiorno ti lanci sul tram dopo averlo rincorso oltre la fermata.
Una volta all’aperto cerchi di svestirti di uno strato, non vuoi sudare. Del sole non c’è traccia, eppure l’aria è una spugna gravida di afa tra la terra e il bianco del cielo.
Dal piazzale ti dirigi verso l’entrata della stazione, grigia e larga come una stampante che sputa formiche indaffarate. Li vedi, fermi al binario, i tuoi colleghi. Rallenti giusto un attimo per riassorbire lo iato d’aria che ti svuota i polmoni prima di approcciare un gruppo di persone. Più sono e più fatichi ad assestarti. Comunque, quando Alessandro ti vede e fa un cenno con la testa, facendo girare verso di te anche chi era di spalle, sei pronta a ricambiare i loro sorrisi.
Maria ti tocca il braccio, ti chiede se sei agitata.
«Ma no, il mio intervento è breve…E poi ho due ore piene per ripassare in treno» rispondi, e preghi che il puzzo caffeinato del bolo che è diventata la tua lingua non le arrivi al naso.
Il tuo vagone è in fondo, spieghi, e facendo lo slalom tra i trolley ti dilegui più in là sul binario.
Petto in fuori e spalle indietro. Speri di esserti mostrata tranquilla e riconoscente. Sai che la tua partecipazione al convegno è strettamente legata all’eventualità di una promozione, millantata da mesi dal tuo capo di larghe vedute, che vuole che ognuno di voi si esprima al meglio e seguendo una propria vocazione, ché in giro non si dica di lui che sottovaluta le soft skill delle giovani colleghe donne. Non a caso ne ha scelte tre oggi a rappresentare l’azienda, di uomini solo due. Il nostro futuro è rosa! Questo lo slogan con cui aveva chiuso la mail di incoraggiamento che è atterrata nella tua inbox ieri alle ore 18:00.
Ti fai strada fino al sedile numero ventidue, vicino a un signore enorme. Tenti di attirare la sua attenzione con una schiarita di voce, dato che il posto libero è quello al finestrino. Il colosso ti rivolge un’occhiata desolata, da spezzare il cuore. Per disincastrarsi dai braccioli che arginano le tonnellate di ventre fa una fatica immane, ansima, gli si slaccia un bottone della camicia.
Ti senti davvero una merda. Alla fine ti fa sedere dalla parte del corridoio, terrorizzato solo all’idea di dover ripetere l’operazione ogni volta che tu possa aver bisogno della toilette.
Passa un’ora. Hai ripetuto a mente tutti gli appunti, ci hai persino ficcato una battuta in finale, vai alla grande. La citazione di Steve Jobs invece l’hai eliminata. Banale e anche un po’ pretenziosa. Era un suggerimento di Valeria, ma non capisci perché non la possa utilizzare lei.
Ripeti a mente ancora una volta. Poi il riflesso della tua faccia sullo schermo inizia a turbarti.
In labiale leggi “nonostante le circostanze odierne, le condizioni storiche e tecnologiche finora inimmaginabili …”, ma in realtà ti stai osservando il naso. Quando muovi le labbra come adesso la punta si alza e si abbassa, seguendo le B e le M come uno stupido ponpon. Ritiri la bocca sopra le gengive, non puoi fare a meno di dare un’occhiata all’incisivo scheggiato. Non resisti più, ti alzi in piedi a molla facendo sobbalzare il tuo vicino. Nel bagno del treno il rumore delle rotaie è più intenso. La luce è giallognola, controlli ancora quel dente maledetto. Ti era sembrato sporco, c’era un pezzo di qualcosa attaccato davanti, invece ora non si vede più. Per forza, non hai mangiato nulla.
Il dente è apposto, ma allora… ti avvicini allo specchio fino a farti venire il monociglio, fino a sembrare una mosca con un solo occhio stroboscopico. Ma le mosche mica hanno i pori dilatati, e questi peletti sopra il labbro, intorno alla mascella.
Il malessere si dirama sul tuo viso accentuando le linee che si irradiano dalla coda dell’occhio alla tempia. Ti sembrano di più, molte di più dall’ultima ispezione. L’ultima ispezione è stata ieri. Non si può più fare niente ormai, e ti senti davvero un’idiota perché di sicuro ci sarà stato un momento nel passato in cui avresti ancora potuto intervenire.
Fai un respiro profondo, è solo la luce. Diglielo a quella nello specchio, che è solo la luce.
Ti siedi sul cesso, cerchi almeno di non guardare il difetto della gonna, le pieghette oblique sui fianchi.
Riporti la mano al posto segreto, sul petto, ma l’amico si nasconde.
Inutile, sei di nuovo appiccicata al tuo riflesso. Ti strappi un capello bianco, spremi un punto nero a lato della narice.
Il chirurgo dal quale sei stata a farti fare un preventivo è un’anima candida, oppure tua madre l’ha pagato per andare contro ai propri interessi. Qualcuno l’ha plagiato per sconsigliarti di riempire gli zigomi e tirare su le rughe naso-labiali. Ha detto che sarebbe stato meglio aspettare di averle, le rughe.
Tiri lo sciacquone, così che nessuno pensi che… non vuoi essere pensata in nessun modo.
Nello spazio tra i due scompartimenti, accanto al bagno, trovi Valeria in piedi davanti alla macchinetta del caffè. Ti chiede se hai moneta. Per tirare fuori i soldi dalla tasca del blazer fai cadere per terra una boccetta di olio di CBD. Sull’etichetta c’è scritto “relax liquido”, Valeria è più veloce di te nel raccoglierlo e te lo restituisce incuriosita.
«Nervosa?»
«Un po’.»
«Anche io. Ma il tempo volerà, vedrai. E dopo abbiamo la serata libera.»
Vi sorridete, ti piace Valeria. Ma non passerai la notte con i tuoi colleghi, speri.
Superandoti da un lato per tornare al suo vagone ti fa un ultimo cenno a sopracciglia alzate.
Ti piace Valeria, chissà se anche lei ogni tanto smette di sentirsi il cuore.
Percorrendo l’angusto passaggio tra le due file di passeggeri urti una scarpa ortopedica che sporge nel corridoio. La caviglia appartiene a una donna di età imperscrutabile che per scollare le pagine del Sole 24 Ore le gira bagnandosi il dito medio. Ritira la scarpa, evidentemente contrariata.
Ti accomodi di nuovo sul sedile ventidue, c’è una sorpresa sullo schermo del tuo telefono. Hai cercato di non pensarci, di non contarci. Ora il nome breve e virile, da eroe laziale, galleggia in una notifica verde.
Questo è il tuo momento preferito, quando sai che ti ha scritto ma non hai ancora letto cosa. Più di così non migliora, dopo si è immediatamente sballottati nella catena di azioni e reazioni, malintesi e già delusioni. Mai una gioia, ma solo la rinnovata smania dopo ogni puntura di desiderio. Schopenhauer diceva qualcosa del genere? Ma lui detestava gli uomini senza distinzione mentre tu concentri il disprezzo su te stessa.
Tocchi il rettangolo verde che ti porta alla schermata poco nutrita delle vostre conversazioni precedenti.
Sei arrivata? A che ora ti liberi?
Adesso sì, lo senti sconfinare dalla sua sede nel petto e rimbalzare come uno yo-yo dallo stomaco fino quasi alla gola. Distendi il busto, ti scrocchi le dita e poi gli rispondi. Comunichi solo le informazioni richieste.
Nel trolley hai una camicetta di seta e una minigonna, i tacchi li hai già indosso, per la conferenza.
Di nuovo una notifica: vuole portarti a cena.

Dopo il suo messaggio diventa molto più complicato rimanere sulla presentazione. Guardi lo smartphone, una, due, tre volte, e non puoi farci niente. Se dovessi convincere qualcuno della tua indifferenza non ci riusciresti, ma siccome sei sola apri l’applicazione blu digitando il suo nome nel motore di ricerca e aprendo l’ultima foto condivisa. Sono due bulldog protesi l’uno verso l’altro, si annusano il grugno. Uno è il suo, l’altro ha un rivolo di bava che pende dalla mascella. Ha scritto “mating” come didascalia. Tenero, pensi scorrendo la lista delle persone che hanno messo like alla foto, neanche ti accorgi di quello che fai. Ti sembra logico anche cliccare su un nome tra questi, e non è chiaro se tu lo abbia scelto a caso o d’istinto. È solo una donna, una donna con un lungo collo e la fronte alta. Due ciocche frontali incorniciano gli occhi da lappone, fanno due onde sulle tempie e poi ricadono morbide sul décolleté. Hai provato a farti la piega così, con la spazzola a calore, e non è mica tanto facile.
La foto che Marina, la donna cinofila, ha condiviso per ultima è ancora un’immagine del suo cane. In questa appare anche lei, accovacciata vicino al bulldog. Guarda in camera e per tenersi in equilibrio si aggrappa al collare rosa.
Apri i commenti, ce ne è solo uno, quello di lui: belle.
Ok. Questa ultima informazione la possiamo cancellare, ti dici. Apri la boccetta di olio CBD, te ne fai scivolare due gocce in bocca, hanno un sapore metallico. Nello schermo del laptop è riflessa la tua smorfia, in sovrimpressione sul Power Point.
Dovresti almeno pettinarti i capelli. Almeno i capelli, perdio, e stasera sarai passabile.
Piacerai al suo cane, non gli farai annusare la paura.

Finalmente ti isoli grazie agli auricolari. Ti addormenti con la mano sul petto e nelle orecchie il verso dolcemente accusatorio di Calcutta:
“Si vede che hai provato qualche cosa parlano le tue pupille”
Ti risvegli per miracolo, con la voce registrata che annuncia l’arrivo.

Scendi per ultima, gli altri quattro sono riuniti sul binario, poggiati sul manico dei trolley.
«Ah, eccola.» dice Salvo.
Pessima idea il sonnellino, pensi mentre copri i metri che vi separano incespicando nelle persone a cui tagli la strada. Questa stazione è più grande e roboante di quella di partenza.
C’è un cartellone degli arrivi dall’aria antica, con un rullo di lettere bianche che scorrono su un display di plastica per formare i nomi delle destinazioni, suonando un tac-tac-tac-tac frenetico. Hai mal di testa.
In taxi guardi fuori dal finestrino e interagisci poco, pensi che per tutta la vita rimarrai impigliata in questo poema ibrido, una filastrocca involontaria che si va formando nel tuo cervello, fatta di frasi che hai composto con citazioni delle slide e versi di Calcutta. Non riesci a spezzare la nenia. Sul lungotevere riconosci l’Ara Pacis e intanto la tua coscienza continua a salmodiare:
“Preparandoci ad affrontare questa sfida con i nostri strumenti migliori… io sento il cuore a mille, mille, mille.”
Davanti all’albergo c’è una signora con un cane, ma non è un bulldog.
Katia della reception vi da le chiavi, tre per volta in ascensore, benvenuti!
Per ultimi entrate tu e Carlo. Prima di uscire al suo piano che è un livello sotto al tuo, aspetta l’ultimo secondo prima di sparire in mezzo alle porte d’acciaio e dice:
«Ci vediamo giù, vacci piano con il minibar…»
L’ultima cosa che vedi è il luccichio del suo Rolex, come una lama.
Sventoli il bavero del blazer cercando di arieggiarti la nuca, fa caldo in ascensore e la battuta di Carlo ti ha infiammata. Lo odi per averti ricordato il party di Natale, quando hai esagerato con il gin tonic e sei tornata dal bagno con una chiazza di vomito sul colletto. Anche quella sera non avevi mangiato nulla.

Ti chiudi la porta della camera alle spalle e vorresti che fosse per sempre.
Ma ti aspettano giù. Apri con violenza lo sportello del frigobar, prendi solo l’acqua. Acqua naturale, acqua minerale frizzante, ti scoli tutto. Devi idratare. Effetto diuretico drenante rimpolpante snellente levigante. Emetti un sospiro gutturale per marcare il compito ben eseguito. Quando rientri in ascensore il colibrì si fa sentire di nuovo, è con te e dentro di te sotto la camicetta alla quale stringi la cartellina con gli appunti. Ti giri solo ora verso lo specchio, in ascensore.
Non ti sei pettinata, cazzo.
Le porte si aprono sull’atrio, tra le colonne di marmo striato e i divanetti in velluto cremisi gli altri ti aspettano, sei di nuovo l’ultima.
«Eccola» dice Maria, senza entusiasmo.
Valeria ha il solito sorriso plastico, quasi non ti accorgi del dito laccato di nero che indica in basso, « Hai una calza smagliata».
Un altro taxi, lungo la strada per la location cerchi di razionalizzare: la calza smagliata sarà invisibile quando sarai sul palco, in uno spazio così grande, distante dalle persone. Troppe persone.
Chiedi una spazzola a Maria, ma l’ha lasciata in albergo. È andata dal parrucchiere prima di prendere il treno, lei.
Un bip a volume massimo ti segnala l’arrivo di un messaggio.
Hai gli occhi di tutti puntati su di te, e siamo ancora in taxi.
«Ora metto silenzioso.» Annuisci, cercando di comunicare sicurezza, sei in controllo. Telefono, sudore, smagliatura, tutto sotto controllo.
È un suo messaggio: Hey scusa alla fine per cena non ce la faccio. Passi direttamente da me?
“Hey”.
Ma va bene, a casa sua va benissimo. Ti aggiusti un orecchino che pendeva strano e pensi che non hai il diritto di pretendere. Aggiusti anche le aspettative: speri di piacere al suo cane.
Sei una persona flessibile, con desideri volatili, fatta di componenti che si plasmano come formine di pongo.
Ma poi da me non vieni mai
che poi da te
non è Versailles

E infatti, profetico Calcutta.
Una volta entrati dal backstage vi distribuiscono un badge attaccato a un cordino da appendere al collo e una bottiglietta d’acqua a testa. Pianifichi di scolarti anche questa prima del discorso: nonostante la nausea per i troppi liquidi nello stomaco hai ancora il palato di carta vetrata.
Vi conducono attraverso un corridoio, dentro un ufficetto bianco senza finestre. Dovreste trovarvi dietro al palco, te lo conferma il suono vicino della voce di una relatrice internazionale che vi arriva dalla parete. Ti sembra un belato, detesti l’entusiasmo zelante di cui è intrisa ogni frase. “And while I am humbled by the opportunity of being here with you today, I feel like some issues have to be urgently addressed…
Non capisci quanto manca al vostro intervento e chiedere non sarebbe professionale.
Alla fine rischi.
«Dov’è il bagno?» I tuoi ti guardano come se ti fosse infilata la penna nel naso, ma la hostess è semplicemente gentile, ti indica il corridoio e dice: «A destra, la porta oltre al cortiletto».

Il bagno non è molto più spazioso di quello del treno, eppure, per ora, le tinte tenui dei sanitari e il mazzetto di lavanda appeso al gancio della tenda ti rassicurano. Ti affezioneresti a qualsiasi cosa si interponesse tra il presente e il momento del palco. Potresti mettere su casa, tra queste quattro mura piastrellate di giallo canarino.
Odore di varechina. Una finestra smerigliata che da su un cortiletto interno. Sposti le scorte di rotoli di carta igienica per spalancarla e porgi il viso alla luce, filtrata dalle ombre a macchie delle foglie di una magnolia. Aria.
Sul lato corto dello spiazzo di sampietrini, a circa quattro metri di distanza da te, sta la facciata di un palazzo dipinta di rosso sbiadito. Dalle imposte di legno del piano terra pende un filo teso a un’altra finestra, sul filo una serie di calzini, asciugamani, lenzuola di diverse sfumature di quasi bianco. Ti appoggi al davanzale con le braccia conserte, ad inalare l’odore di sapone di Marsiglia.

Ora qualcosa si ribella, il muscolo tiranno ha voglia di implodere e di sparpagliarsi in lapilli di sangue qui, sui sampietrini. Tutto è nemico in confronto alla purezza di quello scorcio di silenzio. Non ti guardi indietro, hai paura di vedere le piastrelle che collassano intorno alla tua schiena.
Ma devi andare, lo sai che devi andare.
Cerchi di indietreggiare gradualmente, riesci a portarti davanti allo specchio.
Quello che vedi non ti aiuta. Ti pare che un occhio si sia gonfiato, sembri la strega di Biancaneve. Inspiri ed espiri, ma è come spingere della melassa nelle narici.
Bip: un messaggio di Maria.
Dove cavolo sei, tocca a te.
Cerchi il rossetto nella borsa, è quello color carne che non è da battona ma risalta la forma delle labbra. Ma ti tremano le mani, e attorno alla bocca disegni un contorno malfermo, tipo Joker. Invece di richiudere il tubetto e correggere lo sbafo continui, ti spalmi il rossetto sulla mandibola, vicino al naso, ovunque finché il colore pastoso non incontra la traiettoria liquida di una, due, tre lacrime.
Attraverso il velo di pianto sei solo una macchia nello specchio, quasi non metti a fuoco il piattino a lato del lavandino. Vicino alla saponetta c’è una conchiglia. Ti fa pensare all’ombelico di tua madre, un po’ grosso che diventava una piscinetta quando eravate sedute sul bagnasciuga insieme. E tu avevi sei anni e lei ti diceva che era colpa tua quell’ombelico, che prima di averti era normale. E mica ti sembrava una cosa brutta, perché ti piaceva infilarci una conchiglia dentro, una di quelle con il guscio a ventaglio come quella. Ci stava perfetta.
La vibrazione del telefono ti coglie impreparata come un elettroshock, o la sirena di un bombardamento imminente. Ti stanno chiamando, perché ti sorprendi non è chiaro. È la catastrofe e non sai come ci sei arrivata. Dai una botta all’asciugatore che si accende con un boato e copre il rumore della vibrazione. Continui a respirare melassa, sei ricoperta di rossetto e bava e lacrime.
Non sai per quanto tempo rimani così, è il profumo a riscuoterti, un aroma di caffè che si insinua dalla finestra, rivestito ancora della fragranza di Marsiglia. Giri la maschera di dolore che è la tua faccia e ti accorgi della donna apparsa tra un lenzuolo e un grembiule, alla finestra del palazzo di fronte. È talmente bassa che ti sembra debba saltellare ogni volta per guardarti. Ha le mani a imbuto sulla bocca e dice «Oh…?».
Ti pulisci le guance con la manica della giacca. Adesso anche quella è imbrattata di trucco.
«Tesoro, tutto bene? Un caffè, magari?»
Ancora zaffate veementi e buone, fino al tuo cubicolo. Poi un rumore secco, bussano alla porta.
Ti sembra una voce maschile, sicuramente Carlo.
Guardi ancora la signora, ha smesso di sbracciarsi e ha poggiato un vassoio di plastica sul suo davanzale. Sopra ci sono due tazzine spaiate. Un altro volto baffuto fa capolino dal suo appartamento, ha gli occhi cerchiati di bianco e il muso schiacciato, come un bulldog. Invece è un gatto persiano.
Controlli che la porta sia ben chiusa a chiave mentre continuano a bussare.
Trascini il bidone dell’immondizia, un grosso cilindro a pedale, lo sposti sotto la finestra e ci sali sopra.
Scavalchi e la smagliatura sulle calze diventa un’autostrada, senti l’aria sulla parte di coscia denudata.
In cortile, sotto la magnolia, fa fresco. La signora è tornata indietro e per un attimo sei sola davanti al panico, il terrore per ciò che hai appena fatto, che incalza, arriva, si da fare per riacciuffarti. Scoperta in mezzo a due fuochi: le voci dalla finestra del bagno, il colibrì-bomba acquattato nella camicia.
Ma la signora torna. Noti i capelli che sono stopposi, raccolti in un mollettone di plastica. Era andata a prendere i biscotti.