Maturità

tratto da foto vere

A settembre del Duemilanove ci fu il primo giorno di scuola superiore per i nati nel Millenovecentonovantacinque.
A giugno del Millenovecentonovantacinque, sotto il segno del cancro, non ne sono così sicuro, nasceva Parvaneh Ghaseri.
A giugno del Duemilaventidue, sotto quale segno non ricordo e nemmeno il giorno, ho visto su Instagram un paio di storie condivise da gente, gente sua amica, gente distante dal tempo che penso incessantemente, e ri-condivise da lei sul proprio profilo, la cui linea è un oblò grosso un pollice di donna:
il suo (lo vedo ancora adesso, eroso dall’ansia da dieci anni di vuoti di voce e la sua che a mano a mano si fa muta mentre muta quella mia) e il mio seduto su quelle storie, che può darsi celassero un ventisettesimo compleanno:
storie di un pasto di bicchieri e una tavola di roba, non di mani: di loro mancava l’ombra, così come le candeline: nell’ultima le luci sono di una via di questa città? Sicuro non la conosco.
Parvaneh sta dietro un tizio e ai suoi capelli. Lui che le bacia ancora il viso, la copriva e la coprirà sempre, dal farmi capire com’è adesso.
Potrei sorpassare la mia memoria con le sue foto dentro a un traffico zeppo di duemila e passa scatti di lei nel corso di tutta una vita di code e sicuro non capirei come si accelera. Vado a piedi e ad ogni passo, un altro, indietro.
Me la ricordo come non avesse un domani, come se non invecchiasse e rimanesse la Parvaneh che con due dita mi toccò una guancia in classe e mi fece non so cosa, tipo qualche segno tribale su pelle a dire «dimmi: che senti?» o che tra le righe della mia guancia stesse scrivendo il suo numero di oggi? (soltanto dopo avrei rimpianto persino i sapori di un labbro morso a sopprimere un inizio di frase, una richiesta), ma io preferisco rimanga un mito:
novizia persiana rapita dai romani spogliata del corpo e della storia che sono pronto a scrivere così

«Wait ’til you’re announced
We’ve not yet lost all our graces»

«Questa c’ha diciassette anni», commenta Parvaneh accanto a me sul divano della casa al mare di Amato dove stiamo trascorrendo i cento giorni prima dell’esame di maturità mentre in tv scorre Lorde in tutti i suoi diciassette.
Io sono già a diciannove ma è maggio e lei no, ancora diciotto e con le rovine di una che è invecchiata suo malgrado, per causa d’altri (gliele scoprivi, quelle rughe, nel modo in cui ti fissava da statua e parlava da remoto e certe volte pensava da lontano se laggiù non ci fosse rimasta: fumava). Si sta facendo una mina.
Scorgo tra le sue dita un nascondiglio per tutte le volte che l’avevano incolpata: a farsi perché distanti, loro, da quello che voleva essere: lei. Ma la mia Parvaneh, quella di oggi per ieri, non ha colpe e me ne addossava spesso di altre, le mie colpe; mi arrestava per ogni pretesa che avevo a quel tempo: pretesa della necessità di scagionarmi tra le sue spalle e baciarla con le punte delle dita e sulle labbra, a capire lo spessore della sua bocca, la sensazione di umidità che mi avrebbe colto se avessi avvicinato il mio viso al suo e se guardatala l’avessi trascinata dentro a un cumulo di desideri repressi inespressi.
A settembre del Duemilanove, al mio primo giorno di scuola superiore, Parvaneh si sedette al banco dietro, accanto a Marzi. Aveva un vestito a fiori. Voleva votarsi a vestale ma in mezzo al fuoco si trovò diversa e non fumava,

ancora.

Quella sera da Amato, la canzone in onda con l’ancora al sole, il tramonto sul mare di lì a poco a picco, sulla riva, una foto che mi ricordo, su una panchina scalfiti dal vento come i miei capelli gli occhi di Parvaneh: è più forte la folata nello scorcio di presente che avrei visto dopo anni.
Non capisco la sua posizione, so che c’era, stabilitasi nei miei rimorsi.
Tornassi indietro sarei diverso, più vicino o forse allo stesso posto di allora a preferire guardarla – guardami adesso guardarli tutti: Amato, Campana, d’Ardea, Ferrante non venne/nemmeno Cullani, Rambaldi, altri-altre e Natalia che a un certo punto fa partire questa canzone

«We need to fetch back the time
They have stolen from us and»

Balliamo. Chi in corridoio che era il salotto della casa al mare di Amato, chi nel cortile esterno tra le sedie bicchieri in bilico di bilancia di mani e qualcuno che fuma poi tutti più o meno tutti; le carte, le cartine, il vino in bagno due birre a coppie le ragazze – quattro cinque sei, se ne ricordo è solo una – e il cappello di paglia della madre di Amato di testa in testa in testa in testa e in testa occhiali da sole, a Marzi, che si stucca una Poretti.
Canta qualcuno il ritornello con Parvaneh che la vedo tra la fiammata di uno scatto di Zippo «And

dancin’ on do the boogie all night long
Stoned in paradise»

Di lì a qualche anno non avrei più sentito entrambe le canzoni che quella sera accompagnarono (mi accompagnarono: non so se gli altri ricordano ancora) più e più volte quel cortile quel corridoio quel paradiso con le nostre età cadute giù assieme. Tanti anni e mode e voci e volti diversi e il mio di adesso, li reinvento tutti e a mano e mente ferma do loro un’altra volta quegli anni, li manometto: Parvaneh una diciottenne e l’assenza di un tatuaggio che quel tizio di oggi non è riuscito a nascondermi.

Casa al mare di Amato. Cecilio Amato. Cecilio come la santa, e c’era musica, sua la direzione di quel finale di gara.

«We don’t talk about it»

A giugno del Duemilaquattordici Amato ci invitò a una cena, la sua, faceva gli anni, gli ultimi abbracci bracieri baci di commiato prima che un verbo al futuro ci disperdesse, scintille su un tappeto che si srotolò da più parti. Le stelle di una notte che vedo ancora ma che non mi strizzano più l’occhio dal cielo. E Parvaneh che me lo strizza, chissà perché, so solo che me ne andrei a dormire con la sua mano dietro a seguire la mia dietro la schiena e con i suoi passi dietro a seguire i piedi sulle scalette che dal salotto portano alle stanze. Io che mi tengo al corrimano e dormo su un sacco a pelo sopra il pavimento che mi divide dal piano terra, dove invece lei è rimasta,

indietro.

Non lo nascondo a distanza di anni che pensai di potercela fare a dormire con Parvaneh da nudi, coperti l’un l’altro della pelle aggiuntasi per combustione fermentazione eccitazione comprensione a mio dire innata.
Ciò che in lei mi prese era una promessa di guardare con i suoi occhi sui miei e i miei nei suoi un passato distante legato da un filo a suturare presenti a futuri di mani a tastare al buio lo stesso palmo sulla stessa impronta di parete e calpestarmi i piedi che a lei avrei baciato se feriti per spurgare l’infezione di un suo inciampo su qualche pietra tra la sabbia della clessidra che scorre e scende e cala la mia ombra sulla sua a mano a mano nella mano che affonda i miei ricordi nella mia testa sulla sua spalla con la sua testa a bloccarmi nell’odore della fossa di una clavicola fatta per reggere il mento e tenere la porta per mano mia nella sua che bisbiglia all’orecchio una coppa di fiato che dice «dimmi che senti».
I piedi fusi appuntati sulla sabbia a trascinarsi con la conca delle gambe la polpa di un orgasmo che per me sarebbe stato il primo in due e mostrato all’altra. Desideri di sudare fino all’aurora rigati entrambi da una mano, forse la mia, che si serra per non dare il permesso alla luce di lasciarla evaporata del mio sudore.
Almeno a quest’ora conoscerei il suo nuovo odore. Ma quella notte Parvaneh la spogliai con la mia parola.
Dall’altro lato del pavimento a mormorare col naso a terra un’ultima assoluzione dai miei obiettivi: nell’ombra che è la sua pelle al contatto con lei sparirei e non scendo. Rimango nella mia e con il giorno sopra la testa si disfano progetti e cinque lunghi muti anni d’inedia di corpo e coraggio.

E al sesto al settimo l’ottavo il decimo ancora trovo la mia traccia su altre facce e il suo sudore solo a vista su altre pelli distanziate dalla nascita:

Golshifteh Farahani, stesso sangue i capelli alle labbra.
Mardou Fox, stessi ripari le mie intenzioni, nel suo dolore: è quel tocco.
Zoë Kravitz, che ad ogni primo piano offre i suoi occhi, ma dell’altra:

Parvaneh Ghaseri, con caverne tra le calze rotte da una strage sulle sue gambe; il Columbia di un uomo lasciato a dormire dietro un saluto di scuse che la portano a sedere sulle costole di una panchina al vento. Mi sforzo a capire la sequenza: dopo me qualcuno accanto dopo un altro un’altra e altre/altri, non eravamo mai tutti. Marzi che arriva più tardi. Rambaldi che chiede chi scatta e ci pensa un tizio che non è quello che non è tra noi che non importa più se c’era ma Parvaneh sì: è posta al centro dei miei ricordi che la ritraggono dispersa.

«Living in ruins of the palace within my dreams
And you know
We’re on each other’s team»

con

Amato Cecilio
Campana Danilo
Cullani Marco assente
d’Ardea Tommaso
Ferrante Carlo assente
Ghaseri Parvaneh
Marzi Renato
Rambaldi Valerio
Vida Natalia