Del mio paese non è rimasto più nulla. Assomiglia a un villaggio fantasma del Far West, con i locali dal pavimento legnoso e scrostato, le fontane senza acqua, le case prive di tetti.
In alcune notti di vento, se sono fortunata, nel fruscio degli abeti e delle betulle ascolto l’eco del mio nome, attutito, come se io stessa fossi in letargo.
Una richiesta di aiuto disattesa.
Il grande sisma ha distrutto i pochi edifici rimasti in piedi.
Non ricordo quasi nulla dell’ultima estate trascorsa in paese, a parte le guerre puniche e il professore di storia. Avrò avuto tredici anni e vivevo da sola con mia madre.
Alcune persone si erano già spostate verso la metropoli, come profughi in cerca di terre sicure, dove vivere senza scosse telluriche, senza patemi d’animo.
Con un megafono in mano il sindaco gridava: dove andate?! Ricostruiremo tutto! Sarà tutto nuovo, nuove case, nuovi matrimoni, nuovo figli!
Invece restava qualcosa di mostruoso e deforme nei sentimenti della gente.
La chiesa era quasi del tutto sventrata ma le donne continuavano a pregarci, in mezzo ai calcinacci e alle panche impolverate. Mi dicevano Lulù vai a confessarti, che fra un po’ non rimarrà più niente. Infatti del prete non avevamo che una fotografia sbiadita vicino all’altare. Sorridente, con il cingolo che gli stringeva i fianchi, il paramento nuovo del primo giorno.
Ma io pensavo ai cartaginesi e al professore di storia.
Conoscevo un posto segreto dove nessuno in epoca recente era stato. Si trovava nella vecchia zona industriale, dove piccoli blocchi di cemento non avevano più capo né coda. Bastava aprire una botola ed entravo nel mio mondo magico: le presse e le bobine impolverate mi ricordavano le tube di Falloppio e la dea Tellus, protettrice della fecondità, come ci avevano spiegato in classe.
Avanzavo in quel dedalo di stanzoni e corridoi, dall’atmosfera cupa, solenne. Sembrava tutto così sospeso.
L’insegnante di storia si chiamava Stefano Barca e mi dava ripetizioni nei pomeriggi liberi, quando non doveva correggere i compiti, o quando non aveva altri impegni. Era atletico, i suoi occhi pieni di malinconia e dolcezza.
Dicevano che la moglie l’aveva lasciato dopo le prime scosse, impaurita come una volpe in trappola. Così lui era rimasto da solo, nella sua casa di montagna, isolata in mezzo ai monti.
Io ero brava in educazione alla convivenza civile e in tecnologia. Mi piaceva scambiare video criptati alle amiche, grazie alle nuove applicazioni che spuntavano come funghi; sapere quanto tempo occorreva per resistere senza acqua e cibo sotto le macerie. Navigare in internet, cliccare.
Un pomeriggio mi sono avvicinata tanto a lui, eravamo praticamente attaccati. Potevo sentire i battiti del suo cuore. È sceso uno strano silenzio, come di reciproca eccitazione.
Ma poi lui ha iniziato la lezione:
Correva l’anno del Temporeggiatore: il militare continuò a ostacolare i movimenti dell’esercito punico mirando a stancarlo, senza farsi trascinare in grandi battaglie.
Volevo sposarlo. Andarmene via con lui. Ma a quei tempi non era possibile. Dovevo aspettare tanti anni. In America si poteva fare, da noi no. Un’amica mi teneva informata: in Alabama una ragazzina di 14 anni si era sposata con un uomo di 74 anni. In Iran una bambina di undici aveva sposato un ragazzo di 22. Avevo guardato quel video, diventato poi virale. Perfino Maometto si era sposato con Aisha quando lei aveva appena nove primavere.
Un giorno andrò via con lui, come due amanti spensierati, mi dicevo prima di dormire. Verso posti dove l’estate non finisce. Mare splendido. Spiagge finissime. Corpi nudi sotto il sole abbagliante. Una vacanza on the road, oasi di pietra a picco sull’acqua limpida. Spettacoli alle terme. Miniere d’oro verde.
Prima del compito di storia, mi aveva aiutato a ripassare.
Mi ero tolta il reggiseno. Ero rimasta soltanto con la maglietta e gli shorts.
Gli ho preso la mano, e l’ho portata verso il mio cuore. Ma lui ha sussurrato:
le ali cartaginesi chiudevano a tenaglia il nemico. Da quel momento fu un vero e proprio massacro.
L’ultima ripetizione era un giorno di metà estate. Caldo afoso, sopra le rovine del borgo. Poche ombre allungate si trascinavano nei vicoli incendiati.
Mamma stranamente non era in casa, non mi lasciava mai da sola. Si fidava poco del professore di storia, diceva che era divorziato non certo per il terremoto, viveva solo in cima alla montagna, come un lupo solitario in cerca di prede. Non bisogna mai fidarsi dei lupi solitari.
Era pronto a leggere il libro di storia, ma io sono andata a farmi una doccia.
Ci metto un minuto, gli ho detto. Pensavo che dipendesse dai profumi. Forse non gli piaceva l’odore della mia pelle, forse era una faccenda di estrogeni. Oppure era turbato da qualcosa. Dagli schizzi di sostanze fetenti, dall’ansimare di corpi pieni di sudore.
Quando sono tornata in accappatoio gli ho detto: vuoi che lo tolgo?
Lui ha risposto con voce strozzata, senza nemmeno guardare dalla mia parte:
Asdrubale fu ucciso in battaglia e la sua testa mozzata venne lanciata nel campo nemico a titolo di avvertimento.
Prima che finisse l’estate ho invitato Stefano Barca a fare una passeggiata nel bosco. Sapevo che avrebbero chiuso la scuola, eravamo rimasti davvero in pochi. Forse sarebbe andato in città, come tutti.
Non c’era molto tempo da perdere. Temevo che rifiutasse. Ma io gli ho parlato con la voce più sensuale che mi potesse uscire, guardandolo negli occhi: voglio sapere in che modo finiscono le guerre puniche.
Ero stata davvero credibile: sapevo quanto lui tenesse agli elefanti dei cartaginesi, alla fuga dei buoi con le fascine ardenti legate sulle corna.
A Sagunto.
Ci siamo presi per mano.
Abbiamo camminato in mezzo ai freschi sentieri di montagna.
Verso la zona industriale abbandonata. Vagato nei grandi spazi post-produzione lasciati marcire nella valli come entità ormai a sé stanti.
Abbiamo visto il tramonto insieme. Scariche di luce rossastra, e quel calore che si espande dalla vegetazione per coprire le percezioni nel momento più bello.
Quando sembra che tutto stia per sfumare e non hai più possibilità di intuire che cosa accada.
«Dove mi stai portando?»
«È il mio luogo segreto. Non ci vedrà nessuno.»
«C’è scritto limite invalicabile, Lulù.»
«Non aver paura, saremo finalmente liberi. Io e te.»
«Perché stai sollevando quella botola?»
Scendemmo al livello sottostante, fino a una grande struttura rettangolare, costruita con grandi blocchi di tufo.
Le pareti avevano alcune scene musive. Due figurine, una in piedi e un’altra inginocchiata davanti a una rupe, dalla quale scendevano rivoli d’acqua.
Il segnale dei nostri telefonini era già andato a farsi benedire.
«Non muoverti, Stefano. Vado a prendere il libro di storia.»
Il professore rimase immobile, in una posizione di preghiera e raccoglimento.
In un attimo ero già all’aria aperta. Richiusi la botola con il gancio degli operai, quando scendevano nella cripta per rifornire di gasolio la centrale idroelettrica.
E pompare energia a tutti noi, con i volti sporchi di grasso e cenere.
Sulla strada, l’asfalto era ancora caldo. La sua voce si percepiva a malapena.
Chiamava il mio nome, e l’eco si assopiva nel bosco. Si spegneva da qualche parte, in mezzo alle valli crepate. Chiedeva aiuto.
Io ormai pensavo soltanto al matrimonio, che sarebbe arrivato presto.
Ne ero sicura.
Invece dopo qualche giorno arrivò un violentissimo boato. Le montagne si spaccarono in due. Era il grande sisma. Tutte le persone furono evacuate. Zone rosse ovunque. Limiti che non potevano essere oltrepassati. Nessun disperso, pochi morti sotto le macerie. Un vecchio, che abitava ancora nel borgo antico. Una donna che si trovava proprio sotto il cornicione della chiesa.
Un professore di storia che si chiamava Stefano Barca.