Lava bene i limoni

Lava bene i limoni, ha detto la signora mentre la guardavo incuriosito e anche un po’ incazzato, forse risentito. Fino a un attimo fa blaterava sui giovani che hanno perso interesse per le tradizioni, le piccole cose che ti riempiono di gioia; posso capire i valori morali che il mondo cambia va avanti e noi vecchiarelli restiamo indietro, ma bisogna custodire ciò che riempie di gioia. Faceva caldo e mi aveva offerto un succo alla pesca leggermente inacidito. Il cielo era una sola nuvola grassa della stessa tonalità della stessa tristezza ovunque guardassi. La televisione trasmetteva confabulazioni tra signore e signori borghesotti dai botulini facciali e carenze emotive. Negli attimi di silenzio la signora guardava la grassa tv e annuiva col capo, senza sapere neanche cosa dicevano. Era seduta su una poltrona rossa, forse non davvero rossa, forse rossa era solo la coperta che l’avvolgeva. Io ero seduto su una sedia stecchita e ciondolante, una delle quattro che circondava il tavolo della cucina. Sul tavolo un paniere di vimini con all’interno una pera molliccia, una banana ustionata, una mela bucata. Gli attimi di silenzio guardavo la mela, aspettando l’uscita in avanscoperta d’un bruco, ma il bruco non è mai uscito ed ero molto dispiaciuto di non trovare vita su quel tavolo. Sentivo dentro di me come un misto tra quiete, desolazione, rassegnazione, serenità, morte. Ho tanto da vivere, vent’anni, bello, slanciato, recente, occhi che hanno visto parecchio; eppure, presenza di morte incombente, bisogno di appigli, agganci su cui tenermi: precipito?
Era la cucina della signora beige, dai mobili in voga negli anni ‘50, il lavello otturato, la pila dei piatti ingialliti che la signora si è scusata del disordine ma con questo caldo li lascia lì aspettando la sera e il fresco per lavare dalla tazza della colazione al mestolo della cena. Rimasugli di cibo erano appiccicati sulle stoviglie: grasso di prosciutto, passata di pomodoro, filamenti giallognoli e puzzolenti di uovo alla cock. Il frigorifero ronzava come una bestia dalla museruola troppo stretta, una bestia incazzata che è nata e cresciuta con questa dannata museruola. Quando la signora ha aperto il frigo, scontri e incontri tra bottiglie di vetro, sembrava volessero rompersi vicendevolmente, stanche di quella loro infame condizione. E poi quelle uova lì disposte, allineate nello scompartimento più in alto, non conservate nella scatola che compri al supermercato, perché di certo del supermercato non erano; ma uscite direttamente dal buco del culo delle galline che fanno compagnia alla signora in questi giorni di attesa – quanto ancora?
Galline che non si sentivano né baccagliare né zampettare. A quell’ora del giorno, con quel caldo soffocante, sicuramente riposavano, gemendo appena appena per il borbottio nello stomaco che piano piano formava l’uovo da spurgare da dare alla signora che mangia con gusto e le galline si chiedono: ma perché questi umani vanno tanto matti per i nostri stronzi?
E poi sotto il paniere, a fare da cuscino, per non graffiare il tavolo di legno consunto, una tovaglietta sgraziata che voleva somigliare ad una ragnatela, ma d’un colore bianco vomito-di-latticini, di un’utilità soltanto apparente. E per questo mi rendeva triste, aracnidamente triste, la sua utilità soltanto apparente. Al servizio del peso, dell’estetica, della protezione. Ma una cazzo di cesta in vimini con dentro frutti morti, di una bruttezza emotiva, di una protezione nulla.

E quelle sue labbra chiuse, ora adesso vecchia allampanata, labbra che aspiravano dalla sigaretta formando un tunnel ferroviario senza sbocco, pallide e rugose, strette, prive di carne, che giorni migliori e molto addietro avranno pur assaggiato l’arché maschile, belle spalancate l’avranno pur divorata frogacemente; ed erano sempre così secche e legnose e lagnose?
E poi quella sedia che non smetteva un attimo di ciondolare sul pavimento sporco di briciole, tabacco bruciato, capelli bianchi persi, formiche ladruncole. Se solo sapessi parlare la lingua delle formiche, avrei detto loro di non camminare lì, pieno di ciocche di capelli di vecchia, ma andarsene all’aria aperta e setacciare tra fili d’erba e ammassi di terra. Ma le formiche lì restavano ed io bisbigliavo requiem di consolazione, vederle così minute che bastava un solo piede a schiacciarle e porre fine alle loro memorie. Al formicaio i cari avrebbero chiesto di loro, ma non è possibile che l’esistenza sia così fragile; compiangere i morti, condannare i vivi, i vivi moriranno e reiterazione dell’identico.
E poi quella poltrona – di che colore? Quella coperta massacrata e sporca, con macchie sgrassate, tentativi immemori di renderla come nuova falliti, ricorda un natale di secoli fa a pane e cipolla e brodo col nonno senza denti che mandava giù facendo rumore con la bocca e la pelle elastica e grinzosa che finiva nel piatto e il brodo era caldo e il nonno bestiammava, la tavola puzzolente di vino fatto aceto, e l’aria fetida di anziano, autan e morte.
E la mia angoscia aumentava ad ogni oggetto visto o intravisto, ogni rumore sentito o origliato, quando poi la signora si è alzata, ha sciabattato con lunghi movimenti di fianchi appesantiti, aperto il congelatore – rumore di ghiaccio salvato in tempo, di ritorno al respiro, di succhiotto dietro la scuola media di te 13enne coi brufoli ma un’erezione enorme – e ha cacciato una bottiglia di limoncello. Me ne ha versato un bicchiere, con sorriso malizioso: Sei grande, l’ho capito che non volevi il succo di frutta. Sei grande sei grande sei grande sei grande. Mi sento un tarzanello nel buco del culo di una gallina stitica e lei in attesa. Ed io in attesa. E la signora in attesa. Assaggio il limoncello, il bicchiera puzzava di polvere ma il limoncello era incredibile. Ho chiesto alla signora: com’è che si fa?
Lei ha risposto: Lava bene i limoni poi… ha continuato con i passaggi ma io non ho sentito una parola. Quando sono uscito da lì tutta la tristezza è sciacquata via, non facevo altro che chiedermi: e se non lavassi i limoni?