Non credeva in Dio Francesco, ma in quegli istanti gli venne istintivo recuperare dalla memoria le preghiere che aveva imparato alle scuole elementari fatte dalle suore, ai Salesiani, su al Vomero. Le mischiò tutte fra di loro, che la memoria, già di per sé incapace a riandare così indietro nel tempo, adesso era ostaggio del panico. La prima volta che guardò il contachilometri segnava 80 km/h. Per un attimo sperò che fosse guasto, o di aver visto male, ma un brusco sussulto del cuore smentì quell’illusione. Si sporse a controllare il fondo della strada, solo per avere conferma che era proprio uno sterrato quello su cui l’auto andava a 80 all’ora. Provò allora a deglutire, invano, riuscendo solo a contrarre i muscoli della bocca in uno spasmo, mentre il motore ruggiva senza pietà. Guardò di nuovo il contachilometri: 85. 85 chilometri orari su quella strada, e con quell’auto. Una Fiat Ritmo, come minimo degli anni ’80. 85 chilometri orari su uno sterrato e su una Ritmo di quasi 40 anni, guidata da quella persona. Si voltò a guardare Iannella, il criminale che era al volante. Un depravato che per quanto ne sapeva era suo coetaneo, ma che l’abuso di droga aveva reso un vecchio, con un orrendo buco nella guancia, pochi denti marci in bocca, uno strano alito terroso, gli occhi gialli e liquidi, pelle delle mani consumata e unghie quasi inesistenti. Con la schiena incollata al sedile e gli occhi spalancati a controllare la strada, pensava a qualcosa da dire per provare a farlo ragionare; ma non gli veniva in mente niente. Guardò ancora nel cruscotto e, quando vide la lancetta toccare i 90, l’associazione di idee partì istantanea: incidente mortale. C’erano tutte le condizioni contemplate dalla statistica: veicolo obsoleto, alta velocità, cattive condizioni stradali e conducente in stato di alterazione. Quanto era alterato Iannella? Si girò di nuovo verso di lui, ma subito distolse lo sguardo perché i suoi occhi facevano paura. Quanti casi simili erano riportati dalla cronaca? All’idea di un possibile titolo gli vennero i brividi: “Incidente mortale a Chiaiano. Vittime un pregiudicato tossicodipendente e un giovane incensurato”. Allora smise di guardare sia il contachilometri che Iannella. «Uaglio’, ma ch’r’è? T’ miett’ appaur’?», ghignò Iannella, mostrandogli l’orribile dentatura e distogliendo completamente lo sguardo dalla strada. Francesco, ormai terrorizzato, non sapeva cosa rispondere per non mettere a repentaglio il già delicatissimo equilibrio mentale del tossico. Provò con una battuta: “è che mi sono dimenticato di fare testamento prima di scendere”. Iannella lo fissò per un istante con uno sguardo enigmatico, forse di rimprovero, più probabilmente di mancata comprensione, cui seguì un ulteriore annacquamento degli occhi che ora parevano biglie piene d’olio. Fu allora che le ruote persero aderenza sul terreno e la macchina cominciò a slittare iniziando una serie di paurosi testacoda. Francesco istintivamente contrasse i genitali e l’ano e strizzò gli occhi, mentre Iannella, biascicando confuse bestemmie, dava violenti strattoni allo sterzo per rimanere in carreggiata. Quando l’auto tornò in asse Francesco ci mise alcuni minuti prima di accorgersi che gli sanguinava il sopracciglio destro, ed altri per ricordare che uno dei tanti sobbalzi dell’auto lo aveva fatto sbattere contro il finestrino. Proprio mentre si chiedeva cosa lo trattenesse dall’intimare a quella merda umana di rallentare, vide in lontananza il campo. Fu come tornare alla vita. Erano per miracolo arrivati a destinazione. Ma la tortura che lo aspettava era forse addirittura superiore a quella appena finita.
L’abietta passione di Iannella erano i combattimenti clandestini di cani. Il campo dove Iannella da giorni aveva promesso di portarlo era una sorta di bolgia dantesca, un immondezzaio umano frequentato da camorristi, tossici, ludopatici, barboni e disperati d’ogni tipo. E ora anche da lui. Iannella era eccitato a livelli parossistici. Aveva puntato una grossa somma su un dogo a suo dire davvero cazzuto e lo costrinse ad assistere a tre gare consecutive, un’orgia insostenibile di carni lacerate, gole squarciate, orecchie mozzate, brandelli di pelle e fiotti di sangue che zampillavano impietosi. La nausea lo accompagnò per tutta la giornata, sprazzi di combattimento gli si riproposero negli incubi per mesi. Il dogo vinse i primi due incontri, ma perse il terzo, e con esso Iannella tutti i suoi soldi. Dopo essersi sorbito l’ennesima sfilza di bestemmie e oscenità rivolte al povero dogo, che era anche morto, Francesco si decise a chiedergli di andar via. «Tu vai semp’ e’ frett’, uaglio’, che caca cazz’!» sbottò Iannella. Poi gli accennò che lo aveva portato lì per un altro motivo. Francesco tremò. Dopo aver indugiato per altre due ore, piazzato un altro paio di scommesse su cani che non conosceva e perso anche quelle, aver imprecato ancora a lungo, provato più volte ad infrattarsi con un trans che lo mandava sistematicamente affanculo, litigato con un paio di reietti della sua stessa specie ed essersi fatto prendere a calci da un allibratore che sembrava suo padre per quanto era più grosso di lui, e dopo aver bevuto una bottiglia intera di rosso, essersi fumato almeno cinque sigarette, un paio di canne di robaccia vagamente simile all’hashish e ingurgitato una pillola (mandata giù sempre col rosso), che lui sosteneva essere un farmaco per la pressione, ma che dopo pochi minuti dall’assunzione gli procurò un tale stato di eccitazione che proprio non poteva rientrare nelle possibili reazioni al tipo di farmaco di cui lui parlava, Iannella rivelò a Francesco il motivo della sua presenza lì: aveva in custodia presso il campo uno splendido esemplare di leopardo che aveva acquistato alcuni mesi prima, ma di cui ora doveva sbarazzarsi, sia perché non poteva più permettersi di mantenerlo, sia per aiza’ coccos’ e sord’ . Voleva che se ne occupasse lui. Glielo doveva, inutile protestare. Francesco disse che se ne sarebbe occupato. «Subito» gli disse Iannella. «Subito» rispose Francesco.
Nell’attesa che Iannella sbrigasse alcune faccende prima di prendere il leopardo, Francesco si allontanò dal campo sopraffatto dall’angoscia e cominciò a vagare rimuginando per l’ennesima volta sulla diabolica catena di avvenimenti che lo avevano condotto sin lì, come al solito senza trovare una spiegazione valida alla profondità del baratro in cui stava sprofondando.
Poco distante c’era un’enorme discarica abusiva, ricavata in una conca naturale che una volta aveva ospitato un corso d’acqua o un terreno fertile. Arrivato sovrappensiero al bordo della cava, Francesco si risvegliò dal corso di pensieri che non portavano a nulla, restando per alcuni istanti abbacinato dalla vista, a suo modo grandiosa, dell’orrenda massa di ciarpame che si stendeva davanti a lui. Il tanfo era insostenibile e dovette coprirsi il naso con la giacca. Su una costa del burrone vi erano alberi che si contorcevano tristi e lugubri, stroncati nel tempo da una miscela micidiale di veleni, in un altro punto vi era un’ampia pozza di liquami nauseabondi, ammassati su un lato del cratere vi erano una cinquantina di pneumatici, mentre il fondo della cava era un mare di stracci, buste, bottiglie, taniche, detriti e rifiuti d’ogni genere. Sulla sponda opposta alla sua vi erano due uomini che scendevano lungo una specie di sentiero che costeggiava il bordo della cava. Uno dei due, con una matita sull’orecchio, reggeva in mano un pacco di fogli e parlava indicando l’interno della discarica con ampi gesti, mentre l’altro seguiva muto, deferente. Da subito quella scena gli risultò stranamente familiare. Fissò i due uomini a lungo, quasi ipnotizzato. Spostava lo sguardo dalla cava agli uomini e dagli uomini alla cava, e continuò così per alcuni minuti durante i quali l‘angoscia che lo aveva attanagliato sino a poco prima sparì. E fu proprio mentre credette di essere sul punto di afferrare l’origine di quella malia, che la scena che stava osservando scomparve come per magia. Neanche il tempo di capire che si trattava di una frana, che già rotolava lungo un pendio terroso al termine del quale atterrò pesantemente su un cumulo di immondizia. Terrore e disgusto si impadronirono di lui all’istante. La paura di toccare i rifiuti lo faceva muovere in modo ridicolo e impacciato e cadde altre due volte nel pattume prima di trovare l’equilibrio ed alzarsi. Imprecando a denti stretti per la rabbia, lo schifo, la vergogna di farsi vedere dai due signori in quella situazione e la frustrazione di non riuscire a risalire il burrone senza toccare spazzatura, iniziò a muoversi con nervosa cautela. Ma il terreno in quel punto era friabilissimo e Francesco ricadde all’indietro ruzzolando per altri metri in basso. La discarica sembrava risucchiarlo come un mostro beffardo. Al quarto tentativo sembrò riuscire a risalire la china. Aveva trovato il metodo di non far franare la parete della cava, affondando con delicata lentezza i piedi nel terreno e procedendo piegato in avanti per bilanciare la forte pendenza. Arrivato però ad un punto in cui la parete era praticamente dritta, si fermò. Perlustrò attorno alla ricerca di un varco più pianeggiante, ma non ce n’erano, se non a patto di ritornare indietro e fare molti altri metri nell’immondizia. Allora guardò di nuovo davanti a sé: era vicino al bordo della scarpata, mancava davvero poco. E l’illusione della salvezza lo tradì. Con un pizzico di emozione individuò una radice di albero che fuoriusciva a pochi centimetri dalla cima e senza esitare si protese in avanti ad afferrarla. Ma appena la agguantò per tirarsi su, la radice si staccò come fosse di carta. Francesco si sbracciò comicamente nel vuoto per alcuni istanti come per aggrapparsi ad appigli che non c’erano e ricadde all’indietro sbattendo con la schiena per terra. Lanciò un urlo disperato mentre rovinava di nuovo nella colluvie di rifiuti, finendo ancor più giù di prima. Al termine della caduta boccheggiava come se stesse annegando, guardandosi attorno con occhi imploranti. In quel momento gli balenò in mente una fosca similitudine fra la discarica e la sua esistenza. Scacciò quell’idea con forza e riprese a camminare sul ciarpame. Cadde e si risollevò più volte. All’ennesima caduta non temeva più il contatto con i rifiuti e andava avanti a gran passi, sporcandosi e bestemmiando quasi come Iannella. Alla fine, quando riuscì a risalire sulla strada, era completamente lercio, con fili e pezzi di tessuto fra i capelli e i vestiti macchiati e strappati in più punti.
Si trascinò sputando e spolverandosi fino al furgone dove Iannella lo aspettava appoggiato al cofano. «Ma aro’ cazz’ ir’ f’rnut’, è n’or’ ch’ t’aspett’.» Stava per raccontargli della discarica, quando capì che era inutile, perchè Iannella non si era accorto né dei vestiti strappati né della puzza o, se se n’era accorto, non pareva interessargli. Si misero in auto e partirono. Francesco si trovava in uno stato d’animo se possibile ancora più tetro di prima, al colmo dell’umiliazione e dell’amarezza, quando a un tratto gli tornarono in mente i due uomini che scendevano nella discarica e, con un’illuminazione che lo fece riprendere come un violento schiaffo in faccia, capì perché credeva di averli già visti: erano Dante e Virgilio che scendevano in un girone infernale. Ma sì, era l’inferno. Il suo inferno. Il campo con i cani, i soldi che doveva a mezzo mondo, la frequentazione di Iannella, la discarica, tutto quadrava. E fu istantanea l’associazione con “Il maestro interiore”. Era il titolo del componimento di italiano con cui aveva vinto il premio di studente dell’anno al liceo. Fu mostrato in tutte le classi della scuola ed uscì anche su una rivista. Aveva analizzato il rapporto di Dante con Virgilio mettendone in luce il concetto di maestro interiore. Gli venne quasi da piangere. Lui, uno che conosceva Dante e la Commedia, era in macchina con Iannella e con un leopardo malato. Cosa lo aveva spinto fin lì? Quando aveva ucciso il suo maestro interiore?
Era così assorto in quei pensieri che, quando Iannella lo chiamò, lui rispose: «Sì maestro». Iannella lo guardò per un lungo attimo con i suoi occhi acquosi. Poi scoppiò a ridere. «Uaglio’, ma tu stai cchiu’ fatt’ ‘e me!» disse iniziando a dondolarsi avanti e indietro sullo sterzo. Francesco, riassalito dal panico, cercò invano di farlo calmare, ma Iannella era in preda al parossismo. «Maestro! Maestro! Ma comm’ t’ ven’?» continuava a dire ridendo quasi in deliquio. Il furgone cominciò a procedere a sbalzi e a sbandare, e Francesco si protese per afferrare il volante, ma Iannella lo spinse via, mentre le risate erano ormai simili a convulsioni e si alternavano a violenti scoppi di tosse. Nel momento esatto in cui dalla sua gola uscì un disperato ma liberatorio «Accosta stronzo» Francesco si accorse della buca.
Una decina di minuti dopo riprese conoscenza, faticando a capire cosa fosse l’albero davanti a sé. Riacquistata lucidità, si voltò a guardare il corpo di Iannella adagiato privo di vita sul volante. L’istinto gli parlò chiaro, come mai aveva fatto da due anni a quella parte: il problema Iannella era risolto, e con esso, forse, anche il resto. Era l’opportunità che il fato gli stava regalando, il maestro interiore che gli dava un’ultima possibilità, a patto che muovesse il culo. Doveva smammare prima che arrivasse la polizia. Nessuno al campo lo conosceva, poteva farcela. Uscì dall’auto. Una fitta acutissima alla gamba lo fece quasi urlare, ma riuscì a trattenersi. Stava per avviarsi verso una traversa che si allontanava dal luogo dell’incidente, quando si fermò. Si girò ad osservare il furgone. Vi si accostò e aprì il bagagliaio. Nella gabbia capovolta c’era il leopardo, vivo. Si fissarono per un attimo, poi Francesco si girò e fuggì via trascinandosi la gamba. Il leopardo restò a guardare la figura di Francesco scomparire. Poi emise un ruggito che sembrava di esultanza.
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in racconto