Un posto dove non succede mai niente

Se arrivate da Corso Cavour, e girate a destra alla prima dopo Via Mentana, poi a sinistra su Vicolo Stretto e poi ancora a destra, vi troverete in Strada Persa.
Strada Persa, come dice il nome, non conduce da nessuna parte.
È asfaltata solo per un tratto, e sui suoi due lati sorgono villette dei primi del Novecento che hanno visto tempi migliori. Ci sono facciate verdine, o azzurrognole, mezze scrostate, con ringhiere cadenti e persiane dissestate. Pare che lì dentro non ci abiti più nessuno. Strada Persa sembra proprio un posto dove non succede mai niente.
La casa che ho in mente io si trova al numero 3, di fronte a un palazzone moderno: è dipinta di un color glicine sbiadito, ha una scala d’accesso con il corrimano di legno tutto scheggiato e un gradino, il terzo dal basso, che si è aperto in due.
Attorno alla casa c’è un giardinetto di ghiaia, e un’aiuola piena di vecchie malvarose selvatiche sfuggite al controllo, che si sdraiano lungo i muri e si infilano fra gli scuri delle persiane sempre chiuse.
In quella casa, in apparenza abbandonata, in realtà qualcuno dovrebbe ancora abitarci, qualcuno che è stato visto entrare per l’ultima volta molto tempo fa, insomma, la sciura Mariuccia. Sì, quella vecchina paralitica che nessuno ha più incontrato da quando l’hanno riportata dall’ospedale più morta che viva, a bordo di un’ambulanza atterrata a luci spente in Strada Persa, col buio, alle undici di sera. Pare che fosse stata ricoverata per una malattia strana, che le aveva tolto l’uso delle gambe. E rientrava su una sedia a rotelle, tutta avvolta in fasce che la facevano sembrare una mummia. I vicini, dietro le finestre dalle tapparelle semiabbassate, facevano commenti del tipo:
«Sarebbe meglio se era morta, piuttosto che ridursi così.»
«A me se mi succede, staccatemi la spina.»
Gli infermieri l’avevano trasportata in casa e poi, dopo circa mezz’ora, erano usciti chiudendosi il portone dietro le spalle.
Da quel momento, la vecchia Mariuccia non l’aveva vista più nessuno.
In cambio, era comparso quel nipote, Guglielmo: l’unico parente che visitava la casa color glicine sbiadito. Strano, si dicevano i vicini di casa, da dove viene questo ragazzo? La Mariuccia non ha mai avuto figli, e nemmeno fratelli o sorelle. Eppure alla sciura Anna, che un giorno gli aveva fatto il terzo grado davanti al cancello, il ragazzo aveva risposto così: «Sono il nipote.»
Poi succedeva anche che, una volta ogni tre mesi circa, alle quattordici in punto, arrivava un’automedica con sopra due infermieri in divisa. Uno dei due scendeva e apriva il cancello carraio, poi l’auto entrava sul retro del cortile. I vicini si domandavano che cosa ci facesse lì dietro quell’automedica, per diverse ore. Immaginavano che contenesse macchinari ultrasofisticati per effettuare costose terapie a domicilio: magari una camera iperbarica tascabile o qualche altra diavoleria moderna. Alle diciotto l’automedica se ne andava, e poco dopo se ne andava anche Guglielmo, e questo era tutto, in Strada Persa numero 3.

Il giovane Guglielmo lo si riconosceva da lontano, per come camminava dondolandosi sui piccoli piedi piatti. Arrivava ogni giorno alle tredici, con lo zaino di scuola in spalla. Costeggiava la recinzione del condominio e poi, fermandosi davanti al cancello della nonna, si cavava dalla tasca una chiave arrugginita con legato uno sbiadito fiocco azzurro. Il cancello cigolava sui cardini e Guglielmo entrava sotto gli sguardi di compatimento dei vicini di casa. Aveva un testone di ricci biondi, occhi azzurri un po’vacui sotto un inossidabile berrettino da baseball arancione, e uno sguardo sempre posato a terra.
«T’al disi mi che quel fiö l’è no nurmal» era il classico commento della dirimpettaia quando lo vedeva arrivare.

Guglielmo saliva i gradini evitando quello rotto. Appena entrato nell’anticamera buia, dove l’odore della polvere mescolato a quello della minestra del giorno prima aleggiava come uno spettro, salutava la nonna a voce alta, poi, senza aspettarsi una risposta, accendeva la lampadina e appoggiava il giubbotto sopra la sedia a rotelle posteggiata in corridoio. Con lo straccio toglieva un po’ di polvere dal tavolo da pranzo di fòrmica, quindi rovesciava una lattina di minestra di fagioli nel pentolino di alluminio, quello ammaccato e bitorzoluto, e la scaldava sulla fiammella del gas.
Guardava impaziente l’orologio da parete con su Topolino. L’orologio gli diceva quanti minuti mancavano alle quattordici, l’ora in cui poteva aprire il frigorifero e accudire la nonna. Mangiata la minestra, si riempiva un bicchiere con l’acqua del rubinetto dal sapore di zolfo, poi, se era ancora troppo presto, si metteva a leggere un fumetto di Flash Gordon, di quelli che la nonna teneva dentro i pensili della cucina fra le uova di scarafaggio.
Finalmente, alle quattordici in punto, arrivava quel momento. Ed era sempre elettrizzante come la prima volta, quando Guglielmo aveva visto dove era stata messa davvero la nonna.
Alle quattordici appoggiava il fumetto sul tavolo, si avvicinava al frigorifero e apriva lentamente l’anta. Dapprima era solo l’odore di affettati ammuffiti a colpire i suoi sensi, ma quell’illusione si dissipava velocemente, così come la nebbia che immancabilmente fuoriusciva abbondante dal portellone fino ad avvolgerlo.
Quel giorno poi era il giorno speciale: di lì a poco sarebbe arrivata l’automedica. Guglielmo infilò la testa nel frigo, e subito sentì la voce stentorea della nonna:
«Avanti, abbiamo una faccenda da sbrigare, se non sbaglio!»
Pian piano la nebbia abbandonò il frigo, e Guglielmo poté intravedere sul fondo la figura della nonna, tutta vestita di velluto rosso fiammante, i bianchi capelli indomiti sciolti sulle spalle, un cappellaccio nero calcato sugli occhi. Gli stava facendo dei segnali con le mani.
Guglielmo gliele afferrò con delicatezza e la tirò fuori.
«Dormito bene, nonna?»
«Come un pulcino nell’albume, tesoro. Come sta Elbo, tua… ehm… madre?»
«Benone, e ti manda i suoi omaggi.»
«Sei entrato da solo? Sicuro che nessuno ti abbia seguito?»
«Tranquilla nonna, nessuno sospetta niente.»
«I tuoi compagni di scuola?»
«Naaah, troppo presi con il videopoker.»
«Brave teste di cazzo, ma qui la prudenza non è mai troppa. Guarda fuori dalla finestra. Sono arrivati?»
Guglielmo corse sul retro della casa e obbedì, poi tornò tutto raggiante.
«Sì nonna, sono fuori che aspettano.»
«E allora andiamo! Non devo riscaldarmi troppo.»
Uscirono dalla porta sul retro. La nonna portava a tracolla una lancia gravitazionale, mentre Guglielmo si era infilato in vita un cinturone a cui stava appesa una pistola laser.
Non appena furono fuori, i due infermieri corsero loro incontro contorcendosi e genuflettendosi:
«Comandante… sua eccellenza, MarïSundae… presto, di qui… Non dovete riscaldarvi per nessun motivo!»
La nonna Mariuccia, aka sua eccellenza MarïSundae, si lasciò condurre dentro l’automedica. Ad accoglierla all’interno c’erano due stanzoni refrigerati, la cui temperatura non andava mai oltre i tre gradi. C’era poi la camera dei motori, tappezzata di macchinari e governata da uno dei sedicenti infermieri, il provetto macchinista Algorab. C’era infine la cabina di pilotaggio, dove l’altro infermiere, il valoroso Alshain, veterano di mille battaglie, aveva preso posto allacciandosi le cinture.
Quando tutti si furono seduti, solo allora l’automedica iniziò a rollare e vibrare tutta, e di lì a poco si smaterializzò dentro la foschia del pomeriggio.

§§§§§§§
Pianeta Skrik, galassia del Granchio.
La folla in trepidante attesa ricopriva l’equivalente di cento campi da calcio. Stavano gomito a gomito, anche se cercavano di non entrare a contatto troppo stretto per non riscaldarsi eccessivamente. Il terreno su cui stazionavano era coperto da una dura crosta di ghiaccio, spessa alcuni metri, mentre il cielo sopra le loro teste era bianco. La neve cadeva a larghi fiocchi come sempre, come ogni santo giorno su Skrik.
Tutto attorno all’oceanica adunata erano montati giganteschi megaschermi che avrebbero inquadrato il momento esatto dell’atterraggio dell’astronave. Tutti volevano scorgere l’espressione di sua eccellenza la comandante MarïSundae nel momento in cui toccava il suolo del suo pianeta natale. Purtroppo lo sbarco doveva avvenire in gran segreto, in un luogo nascosto e protetto, in una delle poche roccaforti rimaste nelle mani della Resistenza. L’astronave si sarebbe materializzata all’improvviso, emergendo dall’iperspazio, senza dare al Nemico il tempo di individuare le sue coordinate. Il tempo di un breve incontro, poi la comandante sarebbe stata trasportata nuovamente nel suo rifugio segreto, in un pianeta remotissimo a milioni di anni luce da lì, nella periferia più degradata del cosmo.
Un bagliore accecante, ed ecco, l’astronave toccò terra, il portellone si aprì e sua eccellenza ne emerse in tutto il suo meraviglioso splendore. Indossava un fiammeggiante abito scarlatto e il suo candido viso era soffuso di luce celestiale. I capelli di neve fluttuavano attorno alla sua persona come ali. La forza si irraggiava dal suo corpo come un’onda magnetica. Accanto a lei, il giovane, vigoroso, leggendario Wylys, sua guardia del corpo proveniente dal pianeta Drillion, armato fino ai denti, bello come un dio, rassicurante e abbacinante nella rossa uniforme della Resistenza che sottolineava il suo rango e la sua possanza.
Non appena la comandante fu sbarcata, si inginocchiò a baciare il suolo natio.
Un’ovazione colossale sgorgò da tutti i petti e si tradusse in un grido appassionato.
Immediatamente Vernoth-dalle-mille-cicatrici, il braccio destro di MarïSundae, trasportato fin lì da un altro lontanissimo pianeta sconosciuto, le si fece incontro. Il loro forte abbraccio durò lo spazio di qualche secondo, ma bastò a infiammare i cuori degli astanti. Infine sua eccellenza MarïSundae prese la parola e davanti ai megaschermi il silenzio divenne inviolabile:
«Mio amato popolo, abitanti di Skrik, ma anche tutti voi, abitanti dei pianeti di questa galassia e dei milioni di altre galassie, che state ascoltando le mie parole in cosmofonia, io vi saluto e vi ringrazio, per ogni pensiero e per ogni atto d’amore e di devozione, che incessantemente mi inviate e che attimo dopo attimo contribuisce a mantenermi in vita. Sono già trascorsi quindici anni da quando Droctleaf, il Nemico, al termine di un’odiosa campagna di strisciante sopraffazione e menzogna contro il governo ambientale, gettò la maschera rivelando le sue vere intenzioni, proprio qui, su Skrik. Da allora tutte le istituzioni pacifiche sono state messe sotto attacco e poi asservite, le leggi abolite, la psicodroga legalizzata. Interi eserciti di entità-pensiero vengono trasportati su raggi di luce attraverso le galassie per poi insediarsi sui territori di innumerevoli pianeti mediante avatar meccanici. Ed è guerra ovunque. Dal centro il male si espande verso le periferie, e il destino del nostro universo è appeso a un filo. E tuttavia la Resistenza veglia, la Resistenza combatte, la Resistenza non si arrenderà finché ci sarete voi, e ci saremo noi, che dai nostri rifugi segreti guidiamo la lotta contro il caos per riportare l’ordine, la pace e la speranza in ogni angolo del nostro universo. Questa è una promessa!»
La comandante sollevò verso il cielo bianco il suo fragile pugno, e tutta la folla proruppe in un’appassionata ovazione, imitandola. Lacrime sgorgarono dagli occhi di MarïSundae, lacrime che si trasformarono in ghiaccioli lucenti. Nel giro di pochi istanti, tutti gli spettatori stavano piangendo, insieme a MarïSundae, al valoroso Wylys, all’indomito Vernoth-dalle-mille-cicatrici.
«Mio popolo, gli anni terribili dell’esilio stanno per volgere al termine. Questo filano per noi le Tonne, questo predisse l’oracolo. Presto arriverà il momento della riscossa, la devastante età della Cavalletta terminerà, e noi ci ritroveremo a cavalcare l’epoca della Pernice bianca. Non abbandonate mai la speranza, nemmeno per un istante. Sappiate che dal mio lontano esilio io continuo a tessere questa tela dentro la mia mente e dentro il mio cuore, e i nostri pensieri uniti reggono l’universo nelle forme che voi conoscete. Finché questo avverrà, la fiammella della speranza potrà restare accesa. Non cedete! Arrivederci a presto, mio amato popolo!»
Ancora prima che gli astanti se ne fossero resi conto, la comandante si chinò nuovamente a baciare la terra coperta di ghiaccio, poi rientrò nell’astronave sciogliendosi dall’abbraccio di Vernoth, subito seguita dalla fedele guardia del corpo Wylys e dai due uomini della scorta.

§§§§§

Quando l’automedica toccò terra nel cortile di ghiaia retrostante la casa color glicine sbiadito, erano esattamente le diciotto di un pomeriggio sonnacchioso nell’anonima periferia di una città qualsiasi spalmata sulla superficie dell’ignaro, periferico, insipiente Pianeta Tre, ghetto del duecentomilionesimo Sistema Solare nella smorta galassia chiamata Via Lattea.
La comandante fu immediatamente trasferita dall’esterno all’interno della casa e poi riposta al sicuro nel frigorifero della cucina. Lì covava la speranza dell’intero universo.
«Buonanotte nonna, a domani!» mormorò il nipote Guglielmo appoggiando le labbra in segno di devozione sulla porta dell’elettrodomestico.
Di lì a poco, un ragazzino dalla testa grossa e sgraziata, i capelli ricci, i piedi piatti troppo piccoli, l’immancabile berrettino da baseball arancione, usciva dal cancello dell’abitazione sita in Strada Persa n. 3.
Nel palazzo di fronte, una coppia di vicini, marito e moglie, cercava di prendere il fresco della sera prima che calassero le zanzare.
«Guarda Elvira, il nipote della sciura Mariuccia. Regolare come un orologio, neh.»
«T’al disi mi, Alberto, quel fiö l’è no nurmal. L’è un disgrasià, lü e la sua povera nonna.»

Strada Persa, come dice il nome, non conduce da nessuna parte. Del resto, è opinione comune che in Strada Persa non succeda mai niente.
Quindi, se siete alla ricerca di un locale in cui farvi uno shottino di vodka, vi conviene risalire a sinistra su Vicolo Stretto, poi prendere la prima a destra e poi ancora a sinistra; allora vi troverete in Corso Cavour: lì sì che succedono cose, cose importanti, ci potete giurare.