Mia madre non mi ha creduto. Sentivo un rumore come di sabbia dentro le orecchie. Ho insistito. Allora è andata da mia sorella: Avete fatto qualcosa che non dovevate in spiaggia? Ha chiesto. Irene aveva già steso i nostri costumi al sole, si era lavata e asciugata i capelli, pronta per il riposino pomeridiano. Ha abbassato la testa prima di mentire: Sì mamma, ci siamo schizzate.
Fuori il mio costume pendeva tutto storto dai fili del bucato con una spallina strappata. Sono corsa a prenderlo. Mamma, guarda! Ho detto. Sono state loro. Mi hanno fatto male.
Non esagerare, ha detto mia madre, vi siete solo schizzate.
Anche adesso a casa nessuno dice mai “quello che ti hanno fatto”, ma sempre e solo “quello che ti è successo”. L’udito non è qualcosa che mia sorella e le bambine milanesi mi hanno tolto, ma che io ho perso come un portafogli per strada. Un otorino, uno dei tanti che avrei visto dopo, ha sposato spontaneamente questa tesi: A volte ai bambini succede, non se ne accorgono nemmeno. Vanno a rispondere al telefono e dicono che l’apparecchio non funziona. Ero seduta lì dall’altro lato della scrivania, eppure il suo sguardo mi ha attraversato, trasparente come un fantasma. Mia madre non ha detto niente. Lui si è alzato, ha allungato il braccio e le ha stretto la mano trattenendola un po’ più del necessario: Ci vuole pazienza signora, sono cose che capitano. Le rimane sempre l’altro orecchio, il… Ha dovuto guardare le carte per dire quale.
In questa storia è tutto sbagliato, a quanto pare ad agosto in spiaggia nessuno mi ha fatto niente e quello che ho non ha un nome. Se la chiamo malattia, i medici storcono la bocca, si oppongono categorici. Allora cos’è? Perdita dell’udito, dicono. Ma questo non spiega proprio niente ed è anche una beffa. Fa pensare che io viva immersa nel silenzio, un silenzio bellissimo come un pesce d’acquario. Invece è l’esatto contrario. Mio padre tutte le mattine si spennella la crema da barba sulle guance ascoltando Onda Verde da una vecchia radiolina analogica appesa sopra lo specchio. Quando perde la frequenza emette un suono fastidioso che assomiglia a quello che sento io giorno e notte. Un frastuono assurdo che non mi abbandona mai, vuole inghiottirmi ogni istante. Quell’agosto tutti continuavano la vita di sempre. Mia sorella giocava a tennis, mia madre chiacchierava con la vicina schernendosi quando le offriva una sigaretta che in realtà voleva, mio padre falciava il prato e misurava l’altezza dell’acqua nel pozzo preoccupato per la siccità che faceva girare a vuoto il motore della pompa. Io invece mi infilavo le dita nel buco delle orecchie, graffiavo e tiravo la cartilagine cercando di far uscire quella cosa che mi faceva impazzire, la chiamavo sabbia. Ti sarà rimasta dell’acqua dentro, diceva mia madre. Tappati il naso e soffia. Non è acqua è sabbia, dicevo.
Sabbia? È impossibile.
La sera faticavo ad addormentarmi e la mattina mi svegliavo con la nausea e la testa che girava. Andavo in bagno sbandando e guardavo la radiolina sgangherata di mio padre con un odio tutto nuovo. Poi arrivava la tortura del latte caldo. Bevilo senza storie, voglio vedere la tazza pulita, diceva mio padre con la faccia arrabbiata.
Le prime visite dall’otorino sono state velocissime. Il dottore mi metteva un cono d’acciaio nelle orecchie, prima da un lato e poi dall’altro. Ci puntava una piccola luce dentro, guardava, la spegneva e diceva che era tutto a posto. Mia madre pagava e andavamo via. Un altro invece ha dato in escandescenze. Qui ci puliamo un po’ troppo le orecchie! Ha tuonato roteando gli occhi da mia madre a me elencando i mille pericoli dei cotton fioc che noi comunque non usavamo. Quando siamo uscite mia madre mi ha preso per mano: Un po’ matto quello là, eh? Ha detto con gli occhi che finalmente ridevano.
A un certo punto il mio medico di base che mi chiamava ancora paperottola, ha pensato di prescrivermi un’audiometria. Mi sono ritrovata con delle enormi cuffie in testa in un box imbottito che puzzava di ascelle. Potevo vedere fuori solo da un piccolo rettangolo di vetro. Dall’altra parte c’era il dottore che premeva dei bottoni e poi mi guardava: Alza la mano quando senti il bip, diceva e annotava qualcosa su un foglio. Dopo qualche minuto di bip, sono arrivate le parole: mela – comodino – ristagno – aiuola – clacson – sassofono – edile – dentice – preghiera – nocciuolo. Piovevano così, fuori da ogni contesto come meteoriti dallo spazio. Alla fine il dottore ha consegnato a mia madre un foglio millimetrato con due curve parallele, una blu e l’altra rossa con delle X sopra. La prima indicava l’orecchio sinistro, la seconda il destro. Sono molto simili, ha commentato. Non c’è da preoccuparsi, rivediamoci a fine mese. Ha stretto la mano a mia madre e ci ha mandato via. È stato solo alla terza o quarta audiometria che un medico diverso ha pensato di isolare l’orecchio sinistro, quello sano. Fatto questo, la curva rossa è drasticamente scesa. Prima col sinistro riuscivo a sentire anche quello che veniva sparato in cuffia nel destro. Mentre ora me ne stavo seduta a girarmi i pollici senza più suoni, a parte la sabbia. Il dottore armeggiava con i pulsanti. Il tempo passava. E niente. Stavo malissimo perché il disturbo inviato all’orecchio sinistro era identico alla sabbia che già avevo nel destro. Era come avere la testa infilata dentro un vespaio. In qualche modo adesso nel box era tutto diverso, solo la puzza di ascelle era la stessa. Il dottore mi guardava accigliato attraverso il rettangolo di vetro. Ha girato una manopola e mi è arrivata in cuffia una parola: SE-DA-NO. Scandita come si fa quando si parla con i vecchi e così forte che mi ha rintronato. Quando sono uscita il dottore era rosso in faccia. Un cane! Ha gridato barrando con due profondi segni blu tutte le audiometrie precedenti. Questo non è il lavoro di un dottore, è stato fatto da un cane! Mia madre lo guardava con gli occhi sgranati: Cosa significa? Ha chiesto. Finora avete solo perso tempo! Ha detto il dottore. Con una dose da cavallo di antibiotici al momento giusto, l’orecchio di sua figlia si poteva salvare. Ma lei dov’era? Non si è accorta che sua figlia non sentiva più? Ha ricomposto le carte tutte barrate e gliele ha impilate davanti. Adesso è tardi, non c’è più niente da fare.
A quel punto mia madre si è incaponita. Un giorno di novembre mi è venuta a prendere a scuola con le valigie: Andiamo alle terme, ha detto. Abbiamo viaggiato per cinque ore fino a Sirmione. Lì gli otorini del centro termale ci hanno detto che le loro cure non servivano per me, erano del tutto inutili. Non si può fare comunque qualcosa? Ha detto mia madre. Nella stanza c’erano un medico e due dottoresse. Si sono guardati, poi hanno fissato mia madre con le braccia incrociate come se fosse una povera pazza. Le cure che somministriamo qui non sono adatte a una bambina dell’età di sua figlia, ha detto una di loro. Non possiamo fare niente per lei. Ma ormai mia madre aveva preso accordi con la scuola. Io e Irene avevamo entrambe un permesso speciale. Tornare indietro significava fare la figura delle stupide. Così siamo rimaste un mese sulla riva del Garda. Io non facevo assolutamente niente, a parte infastidire le colombe che vivevano nel giardino dell’hotel. Avevo imparato a imitare il loro verso e ogni tanto si lasciavano ingannare e mi rispondevano. Sul retro c’erano anche delle galline che inseguivo correndo in tondo. A volte acceleravo e le superavo. In pratica la situazione era ribaltata, erano loro che inseguivano me, ma lo spavento era tale che non se ne rendevano conto e continuavano a calpestare lo stesso perimetro immaginario. Allora io mi buttavo sull’erba e ridevo fino alle lacrime. È andata avanti così per circa una settimana, poi il maitre ha cominciato a ronzarmi intorno fino a che non mi ha trovato da sola. Si è avvicinato e mi ha chiesto se mi piacevano le uova. Non sapevo cosa rispondere perché consideravo le uova un cibo neutro, né buono né cattivo. Gli ho chiesto: Perché? Lui ha fatto un sorriso viscido con i denti gialli che sporgevano da sotto i baffi e mi ha detto che se stressavo le galline non avrebbero più fatto le uova. Mia madre si è avvicinata, ha sentito le ultime parole e lo ha fissato con aria interrogativa, allora lui ha cambiato voce, è diventata più acuta, bambinesca: Tu non vuoi che le galline smettano di fare le uova, non è vero piccolina? Ha allungato il braccio per accarezzarmi la testa. Io mi sono tirata indietro e lui è rimasto con la mano sospesa in aria e mia madre che lo guardava sbigottita, una situazione imbarazzante che me lo ha inimicato per sempre. Si chiamava Marcello, ma da quel giorno io e Irene gli abbiamo appiccicato l’etichetta di Porcello. Di solito nostra madre ci sgridava quando facevamo cose del genere, questa volta invece non ha detto niente. Per tutta la durata del soggiorno abbiamo parlato di lui in quel modo. Dov’è Porcello? Dicevamo. Non hanno ancora cambiato gli asciugamani, bisogna dirlo a Porcello. Non penso se ne sia accorto, ma quando abbiamo infilato le valigie in auto per tornare a casa l’ho visto tirare un respiro di sollievo. La routine in hotel scorreva sempre uguale. La mattina mamma e Irene andavano alle terme, mentre io restavo in camera a leggere o fare i pochi compiti che mi avevano assegnato. Alle terme mia madre si depurava bevendo un’acqua opaca che puzzava di uova marce e poi correva in bagno. Irene invece curava la sinusite infilandosi quell’acqua nauseabonda nel naso e sputandola dalla bocca, uno schifo assoluto. Pensavo sinceramente che fosse andata molto meglio a me. Almeno non dovevo sentire muco e caccole che mi scorrevano in gola. In qualche modo mi stavo abituando alla sabbia. Un altro otorino lo aveva predetto. A un certo punto il cervello fa una selezione e impara a ignorare quello che non serve. Io credevo fosse impossibile e invece no. Era vero. Ma ogni sforzo così estremo, presto ti presenta il conto. Una notte ho avuto un episodio di sonnambulismo. Sono scesa dal piano alto del letto a castello conquistato a morra cinese, ho aperto la porta e sono uscita nel corridoio dell’hotel. In quel posto, a parte colombe e galline, c’erano solo vecchi malandati. La puzza dell’acqua sulfurea avvolgeva ogni cosa. Aleggiava sopra il buffet della colazione, gonfiava il legno delle porte, ingialliva la moquette, si attaccava alle tende, impregnava i vestiti. Forse quella notte ne avevo abbastanza e volevo tornarmene a casa. Ma in realtà so solo quello che mi hanno raccontato. Mia madre mi è corsa dietro gridando: Dove vai? Le ho risposto: Da papà, in stazione. La mattina dopo mi sono svegliata nel letto basso con degli stracci bagnati stesi sul pavimento. In teoria avrebbero dovuto svegliarmi se mi fosse venuta voglia di fare qualche altra passeggiata da sonnambula. Ero sola, la stanza era chiusa a chiave dall’esterno. Nella matrimoniale comunicante c’era solo Irene che si rifiutava di aprirmi. Pensavo mi stesse facendo uno scherzo idiota mentre lei dall’altra parte gridava terrorizzata: Giura che sei sveglia! Giuralo!
Nei week end veniva mio padre con la sua 24ore di pelle che si apriva inserendo le nostre date di nascita, mia e di Irene, una nel blocco a sinistra e l’altra in quello a destra. Arrivava il venerdì all’ora di cena e si portava dietro le carte e l’odore del lavoro. A tavola ordinava una cotoletta e un bicchiere di vino rosso. Solo dopo un po’ si ricordava di allentare la cravatta. Le vecchie dei tavoli vicini si avvicinavano e ci salutavano, mentre per il resto della settimana di norma ci ignoravano. Un giorno mio padre si è presentato con una telecamera. Io e Irene siamo impazzite di gioia. La mattina lo abbiamo trascinato sulla terrazza in cima all’hotel che era trascurata e decadente come tutto il resto. Per di più era salita la nebbia. Che ci facciamo quassù? Ha chiesto lui perplesso. Riprendiamo il panorama! Abbiamo gridato noi in coro con un entusiasmo inutile. Laggiù c’è l’isola dei conigli! E quella del Garda! Papà papà riprendile! Uhm ha detto lui, magari un’altra volta, con un tempo migliore. E ha spento la telecamera. Non so perché, ma pensavo proprio a questo la volta successiva che mi sono ritrovata nel box dell’audiometria. Il dottore di turno ripeteva le istruzioni di sempre: Ora manderò dei bip e poi delle parole, alza la mano quando senti, poi quando te lo chiedo premi il pulsante rosso alla base del microfono e ripeti la parola che hai sentito. Io ho fatto di sì con la testa. Sono partiti i bip, li ho sentiti ma non ho fatto niente. Poi le parole. E io di nuovo niente. Di solito mi sforzavo di cogliere anche i suoni più labili, ci provavo, mi davo da fare. Questa volta invece no. I meteoriti cadevano e io semplicemente li scansavo. Ho osservato il dottore che si piegava sotto la consolle, spostava mucchietti grigi di polvere e controllava i fili. Poi ha rialzato la testa e mi ha guardato come se cercasse una risposta sulla mia faccia. Io ho continuato a fissare il vuoto senza muovere un muscolo. Lui si è grattato la fronte, ha tolto gli occhiali, li ha puliti, se li è rinfilati sul naso e ha girato la manopola del volume fino al limite massimo. Ha premuto un tasto e la parola MAM-MI-FE-RO mi è rintronata in testa così forte da spaccare i timpani. Dovevano averla sentita anche fuori dal box. Le tempie pulsavano come se degli omini minuscoli si fossero introdotti attraverso la cavità del timpano per prendermi a sprangate da dentro. Sentivo perfino le radici dei capelli in fiamme. Mia madre si è avvicinata al dottore con la faccia tesa. Sul labiale ho letto che diceva: Che diavolo fa? Lui si è stretto nelle spalle, ha farfugliato qualcosa per giustificarsi. Li ho guardati come farebbe un pesce d’acquario silenzioso e decorativo che per un attimo si rende conto che fuori dalla vasca deve esserci qualcosa. Avevo questo vestitino con i pizzi che mi tirava sulle spalle e sotto le ascelle perché il mio corpo di bambina mi stava abbandonando. Ma io cosa ne sapevo? Ero tutta un grumo di orgoglio e dignità, niente altro. Ho piegato il busto in avanti, ho schiacciato il pulsante rosso del microfono e ho detto: Mammifero.
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in racconto