Lo scemo del villaggio

I

Io gliel’ho detto al Ventura di non andare a ficcare il naso nel vecchio podere dei Persico. Ma quello da un orecchio non ci sente davvero, una roba tipo otite di qualche anno fa, dall’altro proprio non vuol sentire. E allora che ci andasse pure a far vedere a me e agli altri quanto è coraggioso.

Ci è andato. Ma non prima di averci chiamato codardi.
Il podere dei Persico è abbandonato da anni, da quando l’ultimo di questa sciagurata famiglia se n’è andato in città a farsi venire un infarto, lasciando tutto sigillato e, per questo, intoccato, offerto in eredità alla polvere e ai topi. Il Ventura ha detto che doveva prendere qualcosa d’importante che di sicuro stava ancora là. Allora ci ha salutato e si è avviato verso il podere. Poi è tornato. Ha trovato qualcosa ma che cosa non dice. Agli altri quello che il Ventura fa e tace importa il giusto. Loro questo povero cristo alto e smilzo lo vedono per quello che è sempre stato, lo scemo del villaggio. Invece a me il Ventura ispira una sana simpatia e in tutti questi anni se potevo aiutarlo, l’ho fatto. Anche quando è stato più difficile.
Guarda, mi fa, ancora trafelato. E tira fuori un’immaginetta sbiadita. Una madonnina stinta che regge il colore con i denti. Un pezzo di legno marcio e senza alcun valore, a meno che tu non sia Don Carlo, ma io Don Carlo non ero e non sono.
E allora non credo ai miei occhi e mi esprimo, ribadisco la mia incredulità. Non sono rincoglionito. Vecchio quanto ti pare, ma mica coglione. Ci deve essere un motivo e lo voglio capire, per quanto assurdo sia. Faccio per prenderla tra le mie mani ma quello sbraita di colpo.
«Non la toccare, per carità! La devo dare al Professore».

Chi sia ’sto Professore io non lo so, e non mi vorrei troppo impicciare; so che Paolo Ventura s’è messo a girare in posti che non dovrebbe, a parlare con gente che non dovrebbe, a bestemmiare briscole che non vengono con gente che non ama la sfortuna e la perdita. Per prima cosa penso a un debito che deve saldare e che quindi s’è messo a rubare cose vecchie da case disabitate. Non lo ha mai fatto, ma questo non vuol dire che non lo farebbe.
Il giorno dopo andiamo al bar, ci sediamo in una parte senza orecchie. Vuole coinvolgermi nell’affare. La notte gli ha portato evidentemente consiglio.
«Se funziona facciamo a metà».
Non dice di quanto, ma un gesto largo della mano deve farmi capire che anche la metà è tanto.
Non mi specifica l’affare e io non sono convinto, però accetto, fosse anche per vedere come va a finire. Da queste parti una sana curiosità è l’unica cosa che ti tiene in vita.
«Che giorno è dopodomani?» mi chiede fintamente ignaro, così lo assecondo in questo suo teatro tutto fumo e ammicchi.
«Il 2 novembre. E quindi?».
«Che mi dici dell’omomorto?».

II

Che gli devo dire. Lo sanno tutti che l’omomorto il Giorno dei Morti cammina tra di noi e se lo vedete scappate, se non volete i capelli bianchi o qualcosa di peggio. E lo sa anche il Ventura, visto che sua madre, ai tempi, ha tolto più di un malocchio con l’olio, e di queste cose, dico io, di quello che succede di notte ai crocevia dovrebbe saperne un bel po’. Ci provò pure con lo zio a togliergli la stupidaggine. Voci dicono che è per tutto questo suo ficcare il naso in faccende superiori che poi si è beccata il figlio che ha avuto, a mo’ di punizione. E deve essere per quello che in paese si dice di sua madre, che il Professore s’è rivolto a lui e il Ventura l’ha preso per una medaglia al valore, s’è permesso anche di inorgoglirsi un poco, pensa te.
Ma con l’omomorto mica ci si può scherzare. Non è come le altre frescate, quello esiste davvero, i vecchi ne parlano da quando era bambino mio padre, e se questo Professore si fosse interessato alla faccenda qualche anno fa, quando era ancora vivo lo zio, allora sì che ne avrebbe sentite delle belle da chi l’ha visto coi suoi occhi.

Lo zio… quanto tempo che non penso allo zio. Un omone grande e grosso, con un cervello così delicato che a stento gli avresti dato gli anni che aveva. Una creatura infelice, questo è certo, ma di quelle innocue che in un paese del genere sono più gli scherzi che subisce che il male che potrebbe ipoteticamente fare. Non si toglieva mai questo largo sorriso dalla faccia, salvo rari casi in cui era come se un cielo pezzato di nuvole gli coprisse il sole, e un’ombra gli calava allora sullo sguardo.
In famiglia non si è mai parlato molto di lui, e non venne mai a pranzo da noi, ma ogni tanto mio padre lo andava a trovare. Non erano mai stati veramente parenti, e io lo chiamavo zio perché lo conoscevo da quando ho memoria. Mio padre, per mille altri versi uomo incline solo agli affari suoi, ogni tanto si lasciava andare a delle dimostrazioni d’affetto che sorprendevano mia madre per prima, chiusa nel suo riserbo casalingo, e poi me, anche se allora non è che me ne rendessi tanto conto di esser sorpreso. Verso lo zio provava un sentimento sincero, avevano fatto la guerra insieme. Gli faceva avere dei soldi e si preoccupava per lui in mille modi, anche se quando lo incontrava per strada, spesso faceva finta di non vederlo.
Stava in questa casetta senza finestre, una stufa e un pasto caldo al giorno che qualcuno gli consegnava, o così ricordo. Alle volte mangiava gratis all’osteria, altre non mangiava affatto. Almeno fino a quando non lo trovarono davanti al cimitero, bianco in testa come fosse volato via nella notte sulla vetta del Monte a prendersi tutta la prima neve e se la fosse portata dietro. Vai, dissero, è andato del tutto. Ce l’aveva con l’omomorto, che l’aveva visto, e per giorni non ci fu verso di riacchiapparlo. I vecchi dicevano che non si deve stare al cimitero la notte dei morti, per via dell’omomorto, e mi ricordo che ai tempi, io ci credevo a quella storiaccia lì. Mio padre era uomo del tempo suo e a quello scoppio che non si riusciva a far riassorbire, riuscì a contrapporre solo un silenzio ferito e deciso. Aveva anche fatto troppo, secondo mia madre, per evitare che il cosiddetto velo pietoso si stendesse su quella faccenda una volta per tutte.
Lo mandarono allora a San Giorgio, al palazzo dei matti, come lo chiamavo allora io che ero un ragazzetto, fino a che una polmonite non se l’è portato via del tutto. Mio padre non ne ha mai più parlato e così io.
Sarà questo ricordo che ritorna vigliacco, sarà la noia, ma in questa faccenda voglio vederci chiaro. In qualche maniera, Ventura è un’anima candida anche lui, a suo modo, e sebbene io non sia mio padre, e Ventura non sia lo zio, forse c’è una qualche eredità della gentilezza, dell’attenzione per l’altro, per un qualcuno che ci sembra più debole. Forse più invecchio e più sono incline al sentimentalismo, anche se questo da mio padre non l’ho ereditato davvero. Mio padre diceva che una carezza è l’atto supremo d’amore ma io gliene ho contate tre in vita mia, due a mia madre e una a me.
In ogni caso, lo zio me lo ricordo come un uomo che avrebbe fatto a pezzi un orso a mani nude, ma Ventura invece non ha neanche il fisico dalla sua. Voglio vedere in che guai si è cacciato e, se occorre, evitargli delle grane.

Allora l’appuntamento è a mezzanotte, quando a quest’ora d’inverno da queste parti si aggirano solo i lupi e neanche tanto convinti.
Il Professore arriva ansimando, deve avere affrettato il passo più di quanto il fiato gli concedesse. Alla fine è un ometto fatto con metà stampo d’uomo. Ha le guance rosse, il colletto sbottonato, sembra uno che è stato tirato giù dal letto in piena notte a calci. Si presenta con gentilezza, allunga la manina e cerca di stringerla quando viene aggrappata dalla mia. Puzza come l’inferno, i vestiti sembrano trovati in un secchio della Caritas, e probabilmente è così.
«Piacere, Professor…» e tira fuori uno di quei nomi che non devono andare in giro molto oggigiorno e quando qualcuno li ritira fuori sanno di ragnatela e polvere.
«Allora Professore, che ci dovete fare con l’omomorto? Lo sapete che qua in paese per il Giorno dei Morti ogni tanto ci scappa che qualcuno se lo trova davanti per la strada del cimitero e torna con tutti i capelli imbiancati? Il mio povero zio è stato uno di quelli e avoglia a dire che era matto, ma io so’ sicuro che l’omomorto l’ha visto davvero. In paese so’ tanti a non crederlo, e più che i vecchi muoiono e più che i giovani se ne fregano».
Il professore accenna un sorriso. Non sembra voglia stare molto a discutere.
«Ce l’avete?».
Ventura fa sì deciso, il Professore prende delicatamente la tavoletta offerta e la scruta per dei lunghissimi minuti.
«Sì, è lei».
Ventura si indossa una faccia come a dire: certo che è lei.
Il Professore ci pensa su.
«Quindi voi volete pescarlo con quell’esca? Ho visto pesci meno stupidi e pescatori più furbi».
L’aria fredda ci fa intirizzire corpo e pensieri.
Un silenzio grave da camera mortuaria si è abbattuto sulle nostre teste. Dopo qualche minuto il Professore ha alzato il capo e ha chiesto: Come?
«Professò, noi non s’è detto niente!» esclamo io e quello si mette a fare sì con la testa, a guardarsi le scarpe e il polso dove dovrebbe esserci un orologio.
«C’era… c’era questo, come dire, un sospiro…»
«Professore, di santi e madonne da queste parti non se ne sono mai visti, ma l’omomorto invece l’hanno visto eccome e lei, ne sono sicurissimo, non lo vorrebbe incontrare proprio stanotte. Siete proprio sicuri di voler fare quello che volete fare?».
Il rituale è semplice, così mi spiega il Professore, di quelli che solo due matti possono concepire: dobbiamo mettere questa immagine sacra al centro del crocevia del cimitero, sotto la statua della Madonna. Dopodiché dobbiamo metterci ognuno a fissare una strada del crocevia.
«A quel punto, l’omomorto apparirà, laddove non è visto, in quella non presidiata».
«Mi scusi, ma lei che tipo di professore è?».

III

Le campane suonano la mezza. Don Carlo a quest’ora sarà già impelagato nelle sue coperte, mentre la signora Lavazzi sarà giù davanti al portone sacro per poter, l’indomani, prendere i primi posti di una chiesa vuota.
Siamo al crocevia, la luna si affaccia mostrando tutti i suoi buchi. Il cielo è limpido ma un’aria fredda soffia bassa, quasi rasoterra. Paolo mi passa una fiaschetta piena di una roba che fa lui in cantina, un intruglio a metà tra la grappa e il veleno. Non supera nemmeno l’epiglottide che già mi sento scaldato di un tepore materno che mi rimette in sesto i sensi.
Le due stradine sezionano in quattro quadranti il cimitero. Al centro esatto la statua della Madonnina si erge puntando il nero cancello che si perde tra le ombre novembrine.
«Dobbiamo essere in tre. Quando comincerà il rituale dovete fissare esclusivamente la vostra strada, non voltarvi per nessuna ragione. L’omomorto apparirà da quella in cui non guarda nessuno».
Ventura fa cenni di assenso con la testa. Fisso allora il vialetto, sperando che la farsa duri il giusto, prima di scocciarmi. Lo scenario è semplice, ci sono lapidi a destra e a sinistra, il breccino che risponde opaco ai raggi lunari, i cipressi che lenti oscillano le chiome al vento gelato. Naturalmente io a questa storia dell’omomorto non ci credo davvero, o meglio, non c’ho mai creduto, ma è facile subire il potere delle circostanze, soprattutto in un cimitero di notte.
Sappiamo che ci siamo tutti e tre ma a un certo punto non possiamo più giurarlo. Siamo soli, ognuno con il suo vialetto e la sua sorte, lo sguardo fisso e i pensieri in rivolta. Mille paure si nascondono nelle ombre cimiteriali. Orrori vischiosi, fatti di oscurità e silenzio che si acquattano nell’attesa della paura. Non mi ero reso conto di cosa stessi facendo fino a quel momento, nel cimitero di notte, il giorno in cui i morti camminano sulla Terra. E anche se non fosse reale l’ombra che mi pare strisci da sotto una statua d’angelo che punta il dito chissà verso dove, non è forse vero che una cosa immaginata ha già di suo un’esistenza, un effetto sul reale, sui sensi e sullo spirito? Non è che quello che i matti vedono, anche solo perché ci credono, sia meno vero di quello che vediamo noi altri. Ma, soprattutto, non è che a forza di stare col Ventura, non sia diventato un po’ fuori di testa anche io?
In ogni caso, le folate di vento gelato si fanno trasportatrici di una voce roca, appena accennata che piano piano acquista sicurezza. Sarà l’aria che s’incunea da qualche parte, e quella che sembra opera di una gola in realtà è solo un gioco di spifferi, mi dico. Si sentono come parole confuse e lontane, indefinite. Parole che vengono da un altro piano dell’esistenza. Poi qualcosa mi tocca la caviglia. Sento i brividi che mi elettrizzano la schiena sudata, pur con tutto il freddo che fa, mantengo lo sguardo fisso davanti a me. Deve essere un rospo, un gatto, qualcosa che non sia quello che spero non sia. Un alito caldo sul collo, la mia camicia che si muove, esce dai pantaloni in cui l’avevo sigillata, come avesse vita propria. Non devo muovermi, mi ripeto, e tutto andrà bene. Devo mandare la mente altrove, mandarla a fare un giro. Continuare a guardare davanti. Riesco solo a registrare il fatto che a forza di fingere, ho cominciato a credere a questa brutta faccenda.
Poi un grido mi riporta sulla Terra. Dev’essere il Ventura a giudicare dall’intonazione.
«Professore? Che succede? Ci possiamo voltare?» chiedo a gran voce ma quello parte come un fulmine e lascia dietro di sé solo il ricordo.
«Si salvi chi può» grida con tono accademico e allora fuggo anche io. Sento alle mie spalle un altro grido, più disperato del primo, chiama aiuto mentre io corro tenendomi la pancia, fino a che ho cuore e anima per farlo.
E non mi sto troppo a chiedere se alle spalle ho l’omomorto o la madonnina in persona scesa dalla colonna in grazia di qualche miracolo, ma punto dritto avanti a me dove il terreno mi pare sgombro, e non ricordo di aver mai corso con così tanta convinzione.

Ci ritroviamo al cancello. Ventura non c’è, il Professore ha il cuore in gola, è arrivato pochi secondi dopo di me, dice di aver corso gridando fino a che non si è reso conto di dove andasse e allora si è trascinato fino a qui; si passa una mano sulla testa, si asciuga il sudore freddo che gli cola dalle tempie, trema come una foglia sfinita. Lo guardo, poche parole mi scivolano dai denti.
«Io gliel’avevo detto a Ventura, gliel’avevo detto».
Nemmeno più il piacere di avere ragione che subito sbuca Paolo tutto imbiancato da uno spavento indicibile in altri modi. Lo guardiamo con occhi interrogativi, lui resta in silenzio.
«Allora Professò, è contento?» chiedo, senza aspettarmi risposta.
Ventura mi guarda, ma non sembra vedermi davvero. Le pupille galleggiano in un mare biancastro pronto a esondare da un momento all’altro.
«Andiamo via, che è meglio».

«Suggestione. Solo suggestione, ci siamo allucinati».
Il Professore ha sentenziato. Adesso vuole credere che niente di quello che sfugge all’osservazione e alla registrazione possa in qualche modo invadere la realtà. Quindi ha cercato gli orari del primo treno per Roma e si è dileguato all’albeggiare senza fare il biglietto.
Il giorno riporta le cose a un aspetto meno inquietante, cancella le ombre e le paure che ci si annidano dentro. Siamo su una panchina, aspettiamo. Paolo dice di non ricordare niente. Ma i capelli sono imbiancati di colpo, dall’oggi al domani, testimonianza precisa che qualcosa ha visto, o crede di aver visto, che in fondo è lo stesso… Però non dice, non vuole particolareggiare ma omette, balbetta. Mi pare proprio come quel mio vecchio zio, gli occhi languidi, come di bambola. Dicevano che era matto, ma a me ha sempre fatto simpatia. M’è tornato in mente di getto: il suo vestito scucito, i pantaloni senza orlo, quel profumo eterno di confetto. Ho guardato Paolo e ho provato una tenerezza di cui non mi credevo più capace.
Paolo Ventura alza la testa e mi sorride. Tiene stretta l’immagine della madonnina, la custodisce come un tesoro. Gli ho messo la mano sulla spalla. Il sole ha preso a splendere sicuro, la notte è finita.
«Tutto bene» gli ho detto, e non era una domanda o un’affermazione.
Solo una semplice carezza, fatta di parole.