La situazione del piatto

C’era questo piatto col cervo, anzi un cerbiatto, ma cosa dico: una lepre – mai riconosciuto gli animali del bosco, ma senza alcun dubbio questa era una lepre, – ed era tra le mie mani. Ma è un piatto, ho detto, e Luca ha annuito di sì con quell’inflessione che usa quando deve fare da cuscinetto emotivo tra me e il resto del mondo. È un’inclinazione lieve del capo a cui seguono tutta una serie di giustificazioni preventive a placarmi. A me dispiace per lui, davvero, perché di fatto non è stato Luca a regalarmi il piatto col cervo, ma non c’è niente da fare: Luca percepisce i mali del mondo – ovvero tutto ciò che è in grado di ferirmi – come una sua diretta responsabilità. A volte usciamo dal cinema e inizia a dirmi che si sapeva che il film era stato finanziato da Netflix o che il regista, a quell’età, dovrebbe ormai ritirarsi. Ma dicevamo. È un piatto da dessert color muschio al cui centro è disegnato a mano – non senza una certa maestria – questo cervo, cerbiatto, questa lepre. Tutt’intorno, una cornice di foglie di viti, nel senso di grappoli d’uva e relative foglie – io non credo di averne mai viste. Ma non è sufficiente, dovete anche immaginare che il profilo del piatto non è liscio; al contrario: tutta una serie di archi si intrecciano tra loro andando a incastrarsi con le foglie di vite e i grappoli d’uva e il risultato finale è che il profilo del piatto è ondulato. Spero che adesso la situazione del piatto vi sia chiara. Be’, è Natale, ha commentato Luca, il capo già chino. Possiamo usarlo per gli antipasti, anzi, ci metto su il burro da spalmare sul pane tostato. Lo vuoi il pane tostato? Ma con tutti i libri che ci sono al mondo, dico mentre Luca mi sfila il piatto di mano e si sposta in cucina, accende il tostapane, apre il frigo e inizia a tirare fuori gli antipasti. Resto da sola per terra, accanto a questo albero di Natale che non vedo l’ora di far sparire; a cui adesso anzi vorrei dare fuoco. Mi alzo e raccatto quelle quattro carte e due fiocchi da terra: quest’anno niente regali tra noi – solo un pensiero – e questo cazzo di piatto che rappresenta, di fatto, che non esistono più esseri umani che mi capiscono e questo per colpa mia, ovvio, per via di questo mio brutto carattere. Luca lo pensa, ma non lo dice: ha questo dono di non dire le cose. Posso chiamarla e chiederle perché mi ha regalato un piatto col cerbiatto? Cristo, sbotta Luca, ce la fai a non rompere i coglioni anche a Natale? Vado in cucina, spalanco quella porta a doppio battente che io apro ogni volta e Luca chiude di rimando, come una coppia di anziani che devono imporre la propria volontà attraverso piccoli gesti di ribellione domestica – lo odio quando lo fa, – e resto a osservarlo mentre impila con una pazienza sfinente un toast sopra l’altro appoggiandoli su un tovagliolo. I toast sono troppo poco tostati, ma non posso mettere in campo anche questa. Anche a Natale? La mia voce è ormai del tutto incrinata, la sento e la odio, non è rimasto nulla dei buoni propositi: fare questo cazzo di pranzo, non polemizzare su niente e andarmene a letto. Il letto è l’unica cosa che voglio. Luca non risponde, anzi, sembra canticchiare. Maledetto. Lo sai cosa me ne fotte del Natale? Annuisce che lo sa perfettamente e che lo stesso vale per lui. E allora perché dobbiamo mangiare i toast col burro e il salmone e tutta sta roba che è troppa per due e poi butteremo? Sono le cose che si fanno, mi dice. Mi appoggio di sbieco sullo sgabello e inizio a fare pensieri sul piatto. È stato un riciclo, dico, questa è l’unica spiegazione accettabile. Tutti riciclano i regali, commenta Luca mentre apre la confezione di salmone. Lo trovo indegno, dico, e qui – ve lo giuro – se non avessi dovuto tenere la parte sarei scoppiata a ridere per l’uso della parola indegno. Quando è stata l’ultima volta che sono venuti a trovarci? Te lo dico io: più di sei mesi fa. Domandati il motivo, dice Luca pacato. Sarei io? Luca non risponde e inizia a spalmare il burro sul pane. Mi assale un pensiero che non riesco a scacciare: se Luca non impilasse ordinatamente il pane tostato, se non prendesse un coltello pulito – specifico per il burro – se non chinasse la testa e non si mettesse tra me e il mondo – se insomma fosse un poco attraente – lascerei perdere tutta sta pagliacciata del pranzo, tanto siamo solo noi due, e me lo porterei a letto. Da un punto esatto del ventre mi sale una rabbia che, lo so, a breve non saprò più gestire. Perché fa così? Perché spalma il burro, la testa china, quel maglioncino blu che vedo da dieci anni, gli occhiali che gli sono scesi sulla punta del naso nel movimento di spalmare. È la fine, è il disastro, e io non ho i coglioni per dirlo e lui nemmeno, figuriamoci. Mangiamo questo salmone, dei carciofi sott’olio, qualcosa di pronto da gastronomia che nemmeno ricordo. Luca sorride. Forse è davvero contento. Di cosa: non si sa. Dopo meno di mezz’ora devo correre in bagno, vomito tutto, dico sto male, tolgo il maglione e i pantaloni e mi infilo il pigiama. Eccomi a letto. Mi dispiace, dice. Io sarei furiosa, lui si dispiace, non siamo fatti per stare insieme. Perché non hai semplicemente aperto il sacchetto e buttato via il piatto? Non sei il mio mediatore, tu? Sono le ultime cose che dico, dopodiché mi addormento, mi sale la febbre, sento i rumori in cucina di Luca che sistema – sicuramente anche il piatto col cervo – lo maledico perché i rumori mi danno fastidio; ma allo stesso tempo non tocca farlo a me quando mi sveglio. Quando ha finito – sono sicura che ha anche ripassato i fornelli anche se nessuno li ha usati –, viene in camera e si appoggia sul letto: mi tocca la fronte. Sei calda, dice. Poco dopo torna con un bicchiere d’acqua e una tachipirina; io mi sollevo a fatica e mando giù. Acqua, il meno possibile. Vorrei dormire, dico, mi dispiace per il pranzo. Luca fa un cenno come a dire che non ha importanza. Mi lasci qui altra tachipirina e un altro bicchiere? Non vuoi che resti? Faccio segno di no, aggiungo che voglio solo dormire. Luca porta in camera lo sgabello della cucina: ci mette sopra quanto gli ho chiesto, mi bacia la fronte. Sei sicura? Massì, almeno puoi passare dagli altri, fare una tombola, quelle cose lì. Se sto troppo male ti chiamo. Lui dice d’accordo e mi mette sopra un’altra coperta, quindi lascia la stanza. Lo sento tentennare in cucina, sta aspettando che la lavapiatti finisca, mi ci gioco quello che volete. Il piatto col cervo. Sento un bip, il rumore che fa quando viene aperta. Mi si insinua una rabbiosa malinconia sentendolo aprire la porta: sono riuscita a rovinare anche questa giornata per colpa del piatto. Allora aspetto dieci minuti, il tempo che sia sceso a buttare la spazzatura – non me la lascerebbe mai qui, puzza – e mi infilo un maglione sopra il pigiama, vado in cucina. È tutto ordinato, come se non fosse mai passato nessuno: una forma di rimozione che mi commuove, mi rincuora e tuttavia accentua la rabbia. Apro la lavastoviglie, cerco il cerbiatto, lo trovo e me lo rigiro tra le mani. Lo faccio cadere per terra con un po’ di timore per le cementine vecchia Milano: se si segnano sono fottuta, mi toccherà ascoltare un mese di cantilene su quanto siano costate. Si crepa solo un poco: riprovo e questa volta si spacca. La lepre è divisa in quattro metà esatte, questo mi fa venire in mente qualcosa, ma non riesco a mettere a fuoco il pensiero. Prendo i quattro cocci da terra e li infilo nella spazzatura – Luca ha già cambiato il sacchetto con uno pulito – infilo una pastiglia nella lavapiatti e la faccio andare di nuovo; stacco le luci dell’albero e chiudo le imposte. Ecco, finalmente.