Mio fratello mi aspetta in stazione. Quando scendo dal regionale, Massimo è in testa al binario, oltre la piccola folla dei pendolari che si assembrano intorno alle porte del treno per andare verso il mare, dalle loro famiglie. Non sapevo che Massimo fosse in città, ma non mi spaventa vederlo, immobile tra la gente che si affretta, e illuminato da un raggio di sole tardo pomeridiano che attraversa una crepa nella pensilina malridotta. Ogni anno, il tredici di agosto, i morti ritornano per passare un’ora con i loro cari. Quando raggiungo Massimo e gli sono di fronte, il suo viso di quindicenne è calmo come non lo è mai stato. Non ha né il sorriso forzato che vendeva a nostra madre, né l’ombra dell’inquietudine che lo ha tormentato da vivo. A parte questo, Massimo non è cambiato in niente. Ha la pelle trasparente intorno al naso screziata da una miriade di efelidi rugginose, ha capelli dello stesso colore che s’increspano sopra la testa. Appese al collo ha ancora le inseparabili cuffiette con la spugna gialla e il cavo che gli scende lungo la maglietta, fino a infilarsi nella tasca dei jeans macchiati di sangue scuro. Erano trent’anni che non lo vedevo, in tutto quel tempo Massimo era tornato solo per la mamma. Oggi è qui per me.
Massimo s’incammina lungo la linea gialla verso il primo binario della stazione, lo seguo senza fiatare a un passo di distanza. Superiamo un gruppo di turisti, ci raggiunge l’odore nauseante della carne macerata nei loro panini. Giacciono a terra sui loro borsoni morbidi e sugli zaini, stremati dall’afa. Non badano a noi, nessuno può vedere i morti degli altri. Penso alla mamma, che avrebbe sorriso a quei giovani esploratori, si sarebbe chiesta da dove fossero partiti e se ci sarebbe stato qualcuno ad aspettarli all’arrivo. La mamma ci ha lasciato da pochi mesi. Per trent’anni ha sostenuto che la morte di Massimo è stata solo un incidente. Non cercava di assolversi, anche nella versione addolcita la mamma si dava la colpa. Dopo la morte di Massimo lasciai l’università, non avevo finito che il primo anno, trovai un impiego. Dopo trent’anni sono ancora nella stessa azienda, ho svolto ogni mansione che mi è stata richiesta e oggi ho una certa posizione. Non mi sono fatto amici lungo il percorso, in molti mi hanno definito uno spregiudicato. Lo sono ancora, uno spregiudicato. Sei mesi fa l’azienda ha perduto molti soldi per una mia leggerezza, che davanti alla proprietà ho definito un errore di valutazione. Per causa mia molte persone hanno perduto il loro lavoro. Padri e madri, cinquantenni con poche occasioni di ricollocarsi. La punizione per un manager non è mai il licenziamento, a me è toccato comunicare a quelle persone che l’azienda avrebbe fatto a meno di loro. In tanti mi hanno urlato in faccia, in pochi si sono fatti coraggio e hanno pianto.
Massimo e io arriviamo al termine dei binari, nella parte più isolata della stazione. Gli annunci si susseguono stanchi anche qui dove non ci sono orecchie per ascoltarli. Gli uffici dei ferrovieri sono vuoti e le serrande degli spacci sono rimaste abbassate. Fui io a portare Massimo qui per la prima volta tanti anni fa. Dietro a una di queste serrande c’era un bar che vendeva bibite gassate e panini a buon mercato. Massimo bevve il suo primo caffè tenendosi al bancone che era più alto di lui, era un ometto tra noi ragazzi più grandi. Massimo non stava mai con i suoi coetanei, con noi era taciturno ma curioso di tutto. Voleva conoscere cosa lo aspettava dalla vita più avanti. Al bar compravamo da mangiare e ci avviavamo «verso il mare», come usavamo dire allora.
Massimo supera gli uffici e le serrande, prende per l’ultima banchina, la percorre tutta, fino a che, ad un primo sguardo, sembra che non si possa proseguire. Ma basta sporgersi per notare che la banchina si restringe sul fondo di una cunetta fino a diventare un sottile cordolo di cemento. Massimo si volta a guardarmi. Il suo tentennamento mi pare naturale, scendo verso il cordolo per primo. Camminiamo per un po’ mettendo un piede davanti all’altro, come gli equilibristi che attraversano il vuoto tra due grattacieli su un cavo d’acciaio, tenendosi aggrappati ad un manubrio. Dopo un centinaio di metri il cordolo si apre in una piattaforma e oltre ancora si vede il mare di noi ragazzi di città, l’intrico ferroso di binari, bulloni, leve e traversine che a perdita d’occhio si fondono con l’orizzonte tremolante per la calura. Molti anni prima, nei giorni in cui saltavamo la scuola, ci sedevamo all’ombra della cabina di controllo in disuso che sta al centro della piattaforma e mangiavamo i nostri panini. Mi volto dalla parte da dove siamo venuti, la stazione è una bocca scura che inghiotte i treni, e mi meraviglio che nessuno dei passeggeri urli di paura, che tutti accettino quel destino.
Massimo si siede a terra con la schiena contro la cabina, mette una guancia poggiata sulle ginocchia dopo averle strette al petto. Nello stesso posto, il giorno in cui morì, aspettò paziente l’arrivo di un treno. Non dovette guardare oltre il muro della cabina, sapeva quanto il treno era vicino solo sentendo il cemento vibrare. Rotolò fino ai binari all’ultimo secondo, il macchinista non potè vederlo. Approcciando la stazione, i treni in quel punto sono già più lenti, ma la loro velocità è sufficiente a frantumare le ossa del cranio di un ragazzo, a provocare un’emorragia fatale dalla quale non si ha scampo. Non capisco più se è stato Massimo ad avermi portato qui, o se sono stato io a costringerlo a rivivere il ricordo più pietoso. Era questo il posto che volevo vedere, l’unico che ho avuto in mente quando sono salito sul regionale per tornare in città. Sono qui per farla finita?
Ho lasciato la famiglia nella casa al mare, ho una moglie e due figli. Massimo fece appena in tempo a conoscere Silvia. Silvia aveva una bella faccia pulita e una testa piena di sogni, ne aveva abbastanza per due. Si innamorò del buffone che ero da ragazzo, poi non è riuscita a districare il nucleo di dolore che mi è cresciuto dentro. È una donna forte, concilia l’amore per il suo lavoro con i suoi doveri di mamma. Da almeno due anni ha un amante, un ragazzo più giovane di lei che l’aspetta nel suo appartamento ogni giovedì. Un giorno sono uscito prima dal mio ufficio e l’ho incontrata per caso, mi sono messo a seguirla. Se una sera non dovessi tornare, per Silvia non farebbe una grossa differenza, saprebbe andare avanti anche da sola, è stato il mio pensiero fisso degli ultimi due anni.
Avrei voluto dare al figlio maggiore il nome di Massimo, ma poi non ne ho avuto il coraggio. Silvia diceva che era come marchiarlo, suggerirgli un destino, dopo un po’ me ne convinsi anch’io. Fare figli è un’esperienza deludente. Ho creduto che finalmente qualcuno potesse capirmi, sentire nella carne il dolore che io stesso ho portato per anni nella mia. Mi sono accorto che i figli non sono altro che persone come tutte le altre, ti escludono dalla parte più intima del loro cuore indifferente. Ci sono stati momenti in cui ho amato i miei figli, per qualcosa che hanno detto o fatto. Ma sono stati appunto momenti, attimi.
Massimo e io torniamo in stazione. Davanti a una delle uscite ci sono tre ragazzine, si stringono in un abbraccio e ridono alzando uno smartphone. Hanno la stessa età di Massimo, che si ferma a guardarle. Penso a quanto sono cambiate le ragazze in trent’anni, Massimo invece è ancora lo stesso, per lui il tempo si è fermato. Vorrei chiedergli qualcosa di stupido, che possa ammorbidire quel suo sguardo così severo, ma so che sarebbe un tentativo inutile. I morti non parlano, risparmiano le forze per il viaggio.
Che diritto ho di pensare che l’amore è un’inganno che dura poco, giusto il tempo di fare scelte irreparabili che ti portano in luoghi della vita che mai avresti pensato di visitare. Magari per Massimo sarebbe stato diverso, se avesse superato la montagna che a quindici anni gli è parsa invalicabile, oltre le nubi basse e le vette, avrebbe poi visto il sereno. Forse non avrebbe avuto la stessa paura di vivere che ho avuto io da dopo la sua morte fino ad oggi.
Massimo va ancora avanti, si ferma davanti al binario numero sei, lo stesso dove mi ha incontrato cinquantacinque minuti prima. Il sole, che ormai declina, lancia gli ultimi raggi infuocati attraverso la stazione. Massimo comprende la mia paura, il sorriso che appena accenna è di commiato, non certo di addio. Passerà in fretta un’altro anno, così come sono trascorsi gli ultimi trenta, e finalmente ci rivedremo. Ogni tredici di agosto siamo presi da un’allucinazione collettiva, crediamo che si possa tornare dall’oblio. Non è l’amore che proviamo per i nostri cari a guidarci in questa illusione, ma è l’orrore per la marcia verso la nostra fine ineludibile, di cui ogni giorno compiamo un passo. Massimo è un’ombra nella mia testa, tornerà finché esisterò anch’io. Le persone ci lasciano due volte, la seconda è per mano dei ricordi svaniti di chi le dimentica o muore. Tra poco al binario numero sei arriverà il treno successivo, mi porterà verso il mare, dove non pensavo di tornare.
Quando il regionale arriva, con due balzi salgo sul predellino, il tempo di arrivare al primo sedile libero e Massimo è sparito, non c’è nessuno oltre il finestrino. Dopo un po’ il treno si stacca dalla banchina, così leggero che sembra che sia il mondo ad essersi deciso a muoversi all’indietro. Fuori dalla stazione si susseguono cumuli di spazzatura e capannoni abbandonati, le vestigia di ogni città che muore. Nel buio di una lunga galleria immagino il mio ritorno a casa, mi vedo davanti all’uscio pronto a vendere un sorriso tirato prima di entrare. In soggiorno, due testoline con i capelli schiariti dal sole non badano a me, fissano uno schermo al di là del quale c’è un papà a due dimensioni, che dice e fa le cose giuste per la durata di una puntata di uno show televisivo.
Fuori dalla galleria è sparita la città, c’è la campagna con le sue diradate villette a schiera. Sembrano disabitate, finché nel giardino di una di quelle vedo un bambino. Si è issato sul trampolino e ora svetta sopra a una piccola piscina, sta per tuffarsi quando arriva il mio treno. Attraverso il vetro incrocio il suo sguardo per meno di un secondo, ha un bagliore, come di sfida, negli occhi. Il treno è già passato parecchio oltre quando nella mia testa sento lo schianto della tensione dell’acqua rompersi sotto il peso del suo corpo. Anche a me sembra di essere sott’acqua, ma è soltanto la velocità eccessiva tenuta dal treno. Ancora un’ora e rallenteremo approcciando una piccola stazione. Sulla banchina vuota sembrerà possibile persino riprendere a respirare. Accenderò una sigaretta e mi avvierò verso casa. Lungo il tragitto sbircerò nelle finestre accese, per vedere di cosa è fatta una famiglia. Mi fermerò solo quando riconoscerò la mia.
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in racconto