Nella nebbia

L’omino-tutta-pancia pelato che spunta nudo dalle dune di Capocotta con indosso solo la mascherina nera e uno zainetto avrebbe dovuto essere l’unica cosa degna di nota del nostro 31 dicembre 2021 romano. Avrebbe dovuto essere la quadratura del cerchio: spiaggia nudisti, una manciata di esseri sparsi a vista d’occhio nel freddo arenile, uno dei quali inspiegabilmente dentro una tenda fucsia, una leggera bava da sud-ovest e obbligo di mascherina nei luoghi aperti. Non avremmo potuto chiedere di meglio, ci avrebbe aspettato giusto una cena acchittata alla meno peggio con un paio di parenti che ci ospitavano per le feste e qualche fuoco d’artificio illegale, possibilmente truccato, da guardare dal terrazzino. Praticamente avevamo già risolto il capodanno.
Il sole era pieno nel cielo perso. Passammo l’ora di pranzo camminando scalzi di sbieco avanti e indietro sul bagnasciuga dal quarto cancello della spiaggia comunale fino oltre ai nudisti, che evidentemente fino all’ultimo giorno dell’anno volevano prendere il sole sui coglioni (erano tutti maschi, sopra i cinquanta), almeno questa fu la conclusione notando che alcuni avevano la maglietta, provai invano a porle l’ipotesi che il vento nei primi centimetri sopra la sabbia non soffiava per via delle increspature della spiaggia e stando essi seduti a terra i loro sessi non sarebbero stati interessati dal processo di raffreddamento per convezione; provammo anche a ipotizzare qualche beneficio dell’irradiazione solare dei coglioni; fortunatamente il tutto si esaurì con poche battute.
Tornati al punto d’inizio della passeggiata ritrovammo il gruppo che lasciammo due ore prima. Una trentina di più o meno giovani individui, sessualmente equipartiti, che lasciammo in un collettivo ballo in cuffie, una sorta di micro rave personale/ballo propiziatorio di fine anno, alcuni sul bagnasciuga altri immersi a metà nell’acqua calma e fredda del mare, li ritrovammo buttati in cerchio che stavano organizzando il rientro, qualcuno ancora mangiava qualcun altro fumava.
Era ridicolo spostarsi per Roma con una stationwagon, in particolare nell’ora di pranzo sul lungo mare il 31 dicembre. Ma poi ripensai all’omino al mare d’inverno con la mascherina e i tizi che ballavano nel mare gelido. Il tutto mi si presentò come se fosse la sintesi di quell’anno. Uscii dal terzo cancello contromano e presi il lungomare direzione Ostia.
«Che cos’è laggiù? La vedi quella foschia?»
«Sì, avrà preso fuoco qualcosa, qui una volta incendiarono tutta una parte di pineta.»
«Che dici è un incendio? Mettiamo il riciclo dell’aria.»
Lasciammo il tratto popolato dalla macchia mediterranea e la foschia a pezzetti ci si faceva sotto. Iniziati gli stabilimenti e i disperati abusi edilizi, il cielo era ormai costantemente velato.
«Non si sente puzza di fumo». Accelerai. La visibilità diminuiva, «Ma che cazzo è?», cazzo era nebbia. «Cazzo è nebbia, amore mio. Sarà un evento atmosferico tipico delle zone marine, l’aerosol marino che col sole evapora, hai visto che giornata di sole oggi, sarà l’ennesimo giorno più caldo mai registrato». «Sì, qui ci saranno abituati, noi è la prima volta che veniamo al mare in pieno inverno». Perdemmo qualche minuto cercando di ricordare i rudimenti della geografia costiera studiata in quinto liceo ormai troppi anni fa.
La circostanza mi fece fuggire il cambio di guida che in genere avviene entrando nella città di Ostia, in quella fattispecie sarebbe dovuto accadere superata la stazione Cristoforo Colombo: da piccolo borghese a coatto. La meraviglia ebbe la meglio sull’atavismo.
Mangiammo una frittura seduti nella macchina, vista mare. Due filetti di baccalà a testa e una porzione di moscardini forse troppo impastellati, e acqua frizzante. Spendemmo le classiche due frasi sul riscaldamento globale e la devastazione degli ecosistemi, ormai erano discorsi vuoti, affrontati troppe volte, in troppe circostanze. In poco tempo il banco di nebbia che miravamo scendere da nord sul mare, ci invase contorcendosi, non si vedeva più un cazzo; finimmo di mangiare e prendemmo la strada del ritorno, direzione nordest – dall’altra parte precisa della città, lasciandoci la bassa nube alle spalle.
«Guarda, c’è un articolo su internet» fece un gesto colla mano che teneva il cellulare, «una nebbia insolita copre Ostia e arriva alle porte di Roma sud, è arrivata anche all’Eur», forse non risposi. Gestivo due o tre fuochi (a induzione) – avremmo mangiato diversi tipi di pesce quella sera. Le tenebre scesero presto, era pur sempre dicembre, il mese più buio dell’anno. La nebbia sembrava non mollare la sua avanzata sulla capitale. Noi eravamo proprio dall’altra parte della città rispetto al litorale, quaranta chilometri.
L’omino-tutta-pancia nudo con la mascherina, completamente calvo con lo zainetto appeso dietro le scapole, che scendeva dalle dune come fosse un volatile spennato dal becco nero, una chimera che avrebbe chiuso il miserabile anno, non sarebbe stata l’unica cosa degna di nota di quell’ultimo giorno del 2021.
La vera cosa degna di nota sarebbe stata invece la coltre di nebbia che entro mezzanotte avrebbe coperto interamente la città eterna. Un monito. Un miracolo di medievale ricordo. I due poteri che si contendevano le vite. Ancora robe liceali cercarono inutilmente di emergere.
Scattai delle foto dal terrazzino – era una circostanza comunque unica. Il tempo di esposizione lungo e il freddo umido che penetrava nelle cellule del corpo resero tutte le foto mosse e sfocate. Le luci dalle finestre, vibravano sintonizzate col televisore (un tentativo disperato o obbligato di resilienza, sempre più intimo, quasi viscerale), come spettri nella nebbia, erano l’unico riferimento nel buio granoso dei 1200 ISO. Le luci, catturate in scattosi movimenti, nel loro ripetersi geometricamente uguali inscrivevano nel nulla i loro messaggi dal futuro.
Il tappo esplose pochi secondi prima del dovuto, colpa mia ma ero l’unico maschio della tavolata.
A mezzanotte il cielo pianse tenui rossi di manganese e bianchi celestiali di titanio. Sangue dal cielo e stelle cadute chissà dove. Poi ancora la nebbia nel silenzio, le cellule imbibite, la tensione nelle gambe per tenere l’equilibrio sulle fradicie piastrelle in cotto che pavimentano il terrazzo e ancora la stessa tensione nelle braccia per mirare dall’alto, attraverso l’obiettivo della mia Nikon d40, le composizioni che mi offriva il quartiere già esausto dai timidi festeggiamenti. Alcune inquadrature erano inquietanti ambientazioni di film di fantascienza; una fessura di luce al neon inglobata dalla nebbia da un piano terra di una struttura sanitaria, accanto lunghe lingue arbustive si allungavano per suggere l’umidità, un lampione grigio come linea guida.