Sono un essere ibrido, mezzo pensionato e mezzo capriolo. O daino, camoscio, non so neppure io. Un centauro in là con gli anni e avvezzo ai boschi, per capirsi. Sto cercando di recuperare i soldi che ho nascosto nel mio appartamento in montagna, da qualche parte che non ricordo. L’operazione è complicata, le zampe da ungulato non aiutano. Soprattutto ho una gran fretta di andarmene, figli e nipoti mi sono alle calcagna, non vedono l’ora di arraffare i risparmi che ho accumulato in una vita.
Presto saranno qui, temo, e io i soldi continuo a non trovarli. Se non li trovo io non li troveranno neanche loro, provo a consolarmi, forse è meglio lasciar perdere e scappare.
Esco senza chiudere la porta e scendo goffamente le scale, scivolo con gli zoccoli su ogni gradino. Riesco comunque ad arrivare fino all’atrio, ma il portone è chiuso e con le zampe non riesco ad aprirlo. Proseguo con cautela fino all’interrato, fiancheggio le cantine e poi i garage. Quando arrivo alla rampa che sale in cortile nemmeno più respiro. Rimetto il naso – non il muso, mi è rimasta la faccia da pensionato – all’aria aperta e trovo ad attendermi un quintetto di fiati. Quasi non si sentono, sotto la pioggia leggera che ne infradicia gli abiti neri, le loro sagome s’intravedono appena. Per intuire qualche nota – e per capire chi sono – mi avvicino con selvatica cautela.
Non me l’aspettavo, accidenti. I miei cinque debosciati nipoti sono schierati al gran completo, in ordine d’età e stravaccati di sghimbescio su scomode sedie da campeggio. Tutti che suonano per colpa di quella balorda idea che si sono messi in testa i miei figli. E cioè che la musica fa bene. Ma che li facessero aiutare in casa, piuttosto, o lavorare almeno durante le vacanze… Macché. Solo studio e musica, finché sono piccoli. Così hanno sempre detto i loro genitori. Già. Studio, musica… e soprattutto ozio aggiungevo io, senza sperare che mi ascoltassero. Tanto, quando saranno grandi, potranno divertirsi a dilapidare i risparmi del nonno.
Incuranti della pioggia, le sanguisughe suonano assorte e senza vergogna. Non mi guardano proprio, neppure s’interrompono per dire ciao nonno. Però io continuo ad avvicinarmi, con la cautela che si addice a un animale selvatico.
Quando sono ormai a pochi passi, i cinque smettono all’improvviso di suonare. Tutti assieme si alzano in piedi, mentre gli strumenti si trasformano in cerbottane dentro le quali i mariuoli iniziano a soffiare con rabbia. Un nugolo di frecce mi si conficca negli occhi e sulla fronte, mentre gli infami ridono sguaiati. Mi accascio a terra con il capo straziato di ferite.
Mi sveglia un dolore lancinante, accompagnato da un suono acuto che sembra una risata. Una lama di luce filtra dagli scuri e colpisce il principio di cataratta che mi offusca gli occhi, mescola male e paura come se davvero avessi qualche freccia piantata nella testa.
Il suono acuto si ripete. Una, due, tre volte. Solo adesso capisco che è il citofono.
Chi me l’ha fatto fare di venire quassù. Volevo solo trascorrere qualche tempo senza rompicoglioni intorno, ma se arrivano anche qui è tutto inutile. Eppure il paese è deserto dall’inizio del millennio, quando chiusero gli impianti da sci per l’ormai cronica carenza di neve. Le case sono tutte in vendita da vent’anni e io sono l’unico cretino che ne ha comprata una. L’ho pure pagata troppo, ma non m’importava, pur di vivere qualche tempo all’ombra di questa montagna, godermi il fresco d’estate e quel poco di neve che talvolta ancora capita di vedere in inverno. Senza la scocciatura di parenti e conoscenti. Mi accontentavo di vagare senza meta tra i faggi e gli abeti, piluccando frutti di bosco in compagnia di animali selvatici quasi quanto me.
Avrei voglia di non rispondere, far finta che in casa non ci sia nessuno. Ma non mi va di fare il maleducato.
«Chi è?» chiedo, con un tono nemmeno troppo burbero, nonostante il mal di testa e la rottura di coglioni.
«Buon Natale, nonno!» rispondono le voci dei nipoti, mentre un terrore maligno mi sale dallo stomaco.
«Ciao papà, saliamo solo un attimo, volevamo farti gli auguri!» rincarano la dose i miei figli, a cui fanno eco le vocette delle nuore.
«Che piacere, salite!» rispondo, con le mascelle serrate. Ma non apro il portone, cerco in qualche modo di prendere tempo. «Non ricordavo che è Natale» aggiungo, con voce più rauca.
Sono terrorizzato, ma un po’ di vantaggio ce l’ho. Esco sul pianerottolo senza fare rumore, poi muovo piano gli zoccoli sugli scalini. Scendo in garage e risalgo con cautela la rampa. Mi fermo un attimo, guardandomi intorno impaurito. Per fortuna non vedo nessuno. Devono essere tutti all’ingresso, aspettano che apra il portone per farli salire.
Attraverso adagio il prato sul retro del condominio, fiutando nell’aria il pericolo. Ancora pochi metri e raggiungo il limitare del bosco. Supero con un balzo un arbusto di biancospino, poi mi allontano tra gli alberi, veloce e silenzioso.