Stanze libere per il mercoledì

Gli ospiti della settimana di capodanno arrivarono al boutique hotel Schneestern la domenica mattina. L’albergo più esclusivo di St. Martin era incastonato a 2.200 metri di altezza, più in alto di tutti gli altri. Affittava quattro appartamenti di trecento metri quadri ciascuno, con vista sulle piste e sulle vette del comprensorio. Le riviste Sciare e Neve gli dedicavano ogni anno una delle loro copertine enumerandone i servizi per i fortunati visitatori: pensione completa stellata, cura e deposito dell’attrezzatura da neve, disponibilità giorno e notte di ex campioni come maestri di sci per consultazioni e lezioni private, area termale con sauna e massaggi, cinema all’aperto in appositi igloo riscaldati, ciaspolate notturne con aperitivo a base di champagne e ostriche, ore di yoga e meditazione all’alba e al tramonto, servizio navetta elicottero per arrivo e partenza.
Verena, Silvia, Elisabeth e Andrea avevano prenotato il giorno in cui erano stati pubblicati i voti del loro esame di maturità. Erano passate tutte, come ovvio. I genitori di Silvia, habitué del Schneestern, erano riusciti a bloccare un appartamento nel periodo più richiesto dell’anno.
Il Schneestern aveva organizzato uno spettacolo pirotecnico per la mezzanotte, dopo ore di open bar con i vini più costosi, estratti per l’occasione dalla cantina termoregolata dei sotterranei, e un menu di prelibatezze internazionali. Il tutto accompagnato dalla soave voce di Cherez, che avrebbe cantato i suoi successi.
Bruno e Barbara Koch salirono sul loro elicottero avvolti in pellicce di martora insieme a Ritter e Lewandowski, due bracchi di Weimar dal manto grigio bruno, evitando di bagnare con la neve le friulane di velluto blu, rigorosamente abbinate. I loro guardaroba per la settimana erano stipati in due grandi bauli di pelle toscana e già ordinati per giornata. Il trentuno sarebbe stato il giorno del verde, più chiaro al mattino, neon per le piste e nobile smeraldo per la serata. Si tennero la mano per i dieci minuti di volo, erano abituati a quel genere di spostamenti, ma quella domenica il vento soffiava forte.
Marco Castello fu mandato dal suo editore al Schneestern per concludere il suo romanzo. Avevano già progettato la copertina: doveva starci lo schizzo a matita di un coniglio che si copriva gli occhi con le lunghe orecchie, tenendole basse con le due zampe. Il titolo era “Marci”, ma doveva scriverne ancora più di metà. La casa editrice Stradestrane pagò tutto l’importo, prenotando il giorno di natale, previo pagamento di un lieve sovrapprezzo, quando Castello aveva di nuovo bucato la scadenza di consegna. Stava lì per scrivere, coccolato dal lusso e illuminato dal bianco. Aveva a disposizione un enorme appartamento con quattro camere da letto, identico a tutti gli altri. Si sdraiò su uno dei materassi king size e aprì un sito di incontri.
La famiglia Bonté prenotava alla fine di ogni settimana di capodanno per l’anno successivo. Era tradizione da quando avevano passato lì il loro viaggio di nozze e Danielle era rimasta incinta di Chloé, subito dopo l’open bar. Per qualche giorno se ne stavano lontani da tribunali e sentenze. Dorian aveva compiuto cinque anni in estate e conosceva tutti gli angoli del grande albergo. Era amico di Flo, il loro cameriere personale da quando era piccolo. Lui lo portava sulla torretta nord nelle sere chiare, gli insegnava le costellazioni e gli mostrava come riconoscere i pianeti in mezzo alle stelle.

Il lunedì mattina la settimana cominciò con una ricca colazione nella veranda. Era una lunga teca di finestroni in vetro riscaldata da moderni camini portatili, con vista sulla vetta Piz Nevir. Verena, Silvia, Elisabeth e Andrea indossavano fini maglioncini di cashmere e calzamaglie attillate. Avevano tutte le stesse scarpe ai piedi, degli Ugg bassi. Tenevano i piedi caldi per gli scarponi. Si erano truccate con un filo sottile di eyeliner e un po’ di rossetto cipria. I capelli erano freschi e puliti, spazzolati al naturale.
Marco Castello le osservava dal suo tavolo, immenso per la sua solitudine. Era strabordante di cibo, diviso e posizionato in piccole ciotole e piattini secondo un disegno elegante e preciso. Dal bordo del tetto della veranda scendevano ritmicamente grossi goccioloni d’acqua. Il sole brillava già brutale. Marco indossò i Rayban, per proteggersi dai raggi che si rispecchiavano fastidiosi nella brocca di metallo del tè e per spiare le ragazze del tavolo in fondo senza farsi notare. Annotò una frase sul suo taccuino.
Maxime Bonté si sfilò il maglione a collo alto stirando le mani sopra la testa. Indossava già la tuta da sci, le bretelle gialle tese sopra la maglia termica e il giaccone poggiato sullo schienale. Tutta la famiglia era in abbigliamento da neve. I caschi, i guanti e le maschere stavano a terra, vicino al loro caminetto. Sarebbero usciti subito dopo aver mangiato un po’ di uova, senza esagerare, per sfruttare le prime ore. Con quel sole e quella temperatura le piste si sarebbero presto trasformate in pappa. L’aveva deciso Maxime. E loro ubbidivano. Danielle però piluccava yogurt bianco da un barattolo. L’aveva arricchito di mirtilli e semi di zucca. Maxime la guardò mentre masticava la sua omelette, ma lei fissava oltre la vetrata, socchiudendo gli occhi alla luce.
Lewandowski poggiava il muso sul pavimento, davanti a lui la ciotola smaltata con il suo nome. Le cime si riflettevano maestose nell’acqua. Ritter era il più agitato dei due fratelli, Barbara lo teneva a bada sbriciolando per lui pezzetti di prosciutto sotto il tavolo. Ritter li afferrava immediatamente e poi muoveva la mascella un paio di volte, prima di aspettare il prossimo dono.
I coniugi Koch sorseggiavano il loro espresso amaro e scuro. Avevano portato con loro la miscela che ordinavano da anni dal famoso caffè romano Bertelli. Avevano consegnato la bustina gialla nelle mani di Pedro. Il loro inserviente l’aveva portata il cucina e qualcuno aveva inserito nella tabella dei Koch un servizio caffè non zuccherato ogni quattro ore.
Bruno sfogliava il giornale, mentre Barbara guardava verso il sole e contava le gocce che cadevano dalla grondaia e si tuffavano negli ultimi soffici centimetri di neve spolverati durante la notte.
Accadde molto velocemente. Si staccò poco sotto il Piz Nevir. Un blocco di neve lungo circa cento metri cominciò a scendere sul pendio. Dietro di sé lasciò un fungo di polvere bianca, che avvolgendosi su se stesso lentamente si allargava. Solo Dorian se ne accorse, il suo viso era appiccicato al finestrone mentre annoiato cercava di riconoscere le piste sull’orizzonte. Fu il primo a morire. Il vetro si frantumò in pezzi microscopici e la neve entrò violenta nella veranda della colazione.
Sui tavoli avevano accuratamente disposto carpaccio di salmone Chinook, burro all’aglio, prosciutto di Praga alle erbe, gouda dei pascoli austriaci, marmellata di more e lamponi, miele d’acacia, succo di melograno, d’arancia rossa e di pesca, piccoli bicchierini di Brut della riserva del 2010, latte pastorizzato montato a schiuma, caffè allungato brasiliano (tranne che per la coppia Koch), una selezione di tè inglesi, uova strapazzate, in camicia, alla coque, al tegamino e omelette con formaggio fresco greco e spinaci, noci, granola e pinoli. Poi una ciotolina di pistacchi e fette di pane integrale, bianco, arabo, toast scottati, pancake, un intero ciambellone marmorizzato al cioccolato per ogni tavolo e caldi croissant al burro.
La neve spazzò via il cibo. Molti dei piatti erano ancora intoccati al momento dell’impatto. Verena e Silvia stavano ancora decidendo da cosa cominciare, Marco Castello beveva solo un infuso di arancia, limone, zenzero e menta. Gli serviva lo stomaco vuoto per scrivere “Marci”.
Barbara si bruciò la lingua. Stava prendendo l’ultimo sorso di caffè Bertelli quando entrò la valanga. Il caldo della bevanda la sconvolse prima del freddo della neve. Bruno fu spinto qualche metro più in là, alla fine della veranda, quasi dentro l’hotel. Morì qualche ora dopo di ipotermia. Si ripeté in testa le parole che si ricordava dell’articolo di giornale, per far passare il tempo più velocemente. Danielle morì arrabbiata. Maxime fu trafitto da una scaglia di vetro, proprio sotto la giugulare. Fu una morte veloce e poco dolorosa. I cani vennero trascinati lontano, insieme a Chloé, perché più leggeri. Uno si spezzò la schiena sul muro dell’albergo, l’altro finì travolto da sedie e tavoli. Chloé si accorse solo per alcuni minuti di essere sottovuoto dentro la neve. Le mancò il fiato e si addormentò. Le quattro ragazze morirono vicine, perdendo subito le scarpe calde e bagnando i capelli appena spazzolati. Marco Castello fece in tempo a ringraziare Dio. Non doveva più scrivere.
C’era solo un cameriere, Pedro, era entrato per abbassare il fuoco del caminetto dei Koch. Era regola lasciare gli ospiti a godersi la colazione. Tutti gli altri rimasero salvi nell’edificio. La valanga fortunatamente distrusse solo la veranda.

Martedì vennero a ripulire. Trasportarono tredici cadaveri in bare di mogano. Quella di Pedro era di pino, pagò l’albergo. I giornali riferirono la notizia ai vari angoli d’Europa. Il Schneestern fece portare via i resti della veranda e piantò un paio di abeti nuovi sul piazzale. Risistemarono gli appartamenti e spedirono i bagagli a valle con gli elicotteri. La polizia se ne sarebbe occupata. Poi annunciarono sul sito e sui social media il loro più profondo dispiacere per la tragedia. Pubblicarono anche una foto di Pedro nella sua livrea dalle cuciture d’oro e si espressero particolarmente addolorati per la perdita di un membro tanto prezioso dello staff. Il manager caricò subito dopo un annuncio per un nuovo componente del personale. Gli appartamenti tornarono prenotabili martedì pomeriggio a prezzo enormemente ribassato. Avevano già acquistato la scatola dei fuochi e casse di legno ricolme di cibo per la notte di Capodanno.
I quattro appartamenti vennero presi nel giro di venti minuti. Fu spazzolata la neve dall’elicottero per il mattino dopo.

Per gli ospiti che arrivarono il mercoledì si liberarono sedici camere. Ogni letto venne occupato.
I Lopez non erano mai stati sulla neve. Prenotarono non appena lessero la notizia. Erano tutti e quattro a cena insieme. Il prezzo dell’appartamento si era ridotto a due zeri per notte. Divisero in quattro l’importo. I due fratelli, Alberto e Jago, portarono le rispettive ragazze. Almeda era incinta, al quarto mese. Ma era una che se la rischiava e voleva salire su un elicottero prima di diventare madre. Monica si portò la gatta. Con il breve preavviso non aveva trovato nessuno che potesse passare nel monolocale a darle da mangiare.
Fu Noah a scrivere nella chat. Thomas, Luca e Gabriel accettarono subito e gli mandarono un bonifico con la loro quota. Presero tutti i loro snowboard e si portarono una cassa di birra, per sicurezza.
Sofia abbracciò la figlia Gaia, quando la rotellina del pagamento aveva smesso di girare e era uscito il messaggio di conferma. Sua madre Viola e il compagno Oreste pagarono per tutti e quattro. Sofia non voleva, ma poi accettò. Gaia portò con se i sei mini pony ricevuti per natale, con le loro lunghe criniere multicolore che pendevano fino agli zoccoli di plastica.
Luc chiamò subito le madri delle sue atlete per avere conferma. Le avrebbe tenute d’occhio lui, niente alcol il trentuno e subito sulle piste il primo di gennaio, ad allenarsi sullo slalom. Caricò sul camioncino Angéline, Thea, Yvette e dodici paletti.
Bastarono due viaggi dell’elicottero, perché c’entravano in otto, con i loro zaini di tela e i cappellini di poliestere. Il pilota non menzionò che un volo privato era compreso nel prezzo. Viola spinse il naso contro il finestrino. Si formò un alone intorno alla sua bocca. Noah disse ai suoi amici di coprirsi le teste sotto le pale quando entravano. I fratelli Lopez si sedettero uno accanto all’altro e si diedero un sonoro cinque. Le due fidanzate urlarono per chiacchierare oltre il frastuono. Andavano molto d’accordo.
Il veglione di capodanno si svolse nel salone. Lo staff dell’albergo aveva già dimenticato la veranda, il pavimento di parquet era stato provvisoriamente ricoperto di cumuli di neve e i nuovi alberi rendevano il piazzale quasi maestoso. Gli ospiti invece la veranda non l’avevano mai vista.
Misero un lungo tavolo al centro. I visitatori cominciarono a mescolarsi. Almeda giocò con Gaia, unica fortunata bambina del gruppo.
Ricoprirono la tavola di vivande. Per l’occasione fu scelta una tovaglia rossa. Vennero serviti quattro tacchini ripieni di rosmarino, carote, sedano e cipolle, due timballi di verdure imbevuti in olio d’oliva, saraghi e orate cotte sotto sale con contorno di patate novelle, gamberi intinti nella salsa cocktail e serviti in una coppa da champagne. C’erano tortelloni di ricotta, risotti di zucca, funghi porcini e asparagi e un intero tagliere ricoperto di antipasti: tartine al caviale nero, bignè di sfoglia con acciughe, crostini al gorgonzola, mirtilli e noci e ancora mousse di tonno e cannelloni ripieni di ragù di carne.
Il carrello dei dolci entrò nella sala poco prima della mezzanotte. Alcuni riuscirono a mangiare le meringhe alle nocciole e un po’ di zuppa inglese. Il resto rimase intatto nei piattini d’argento e porcellana: una cassata napoletana, una crostata di frutti di bosco, una teglia di tiramisù con scaglie di cioccolata fondente, macarons assortiti e una selezione di cioccolatini. Gli sarebbero stati riproposti il mattino seguente.
L’open bar fu sfruttato a fondo. Il barman preparò gin tonic e cuba libre per i fratelli Lopez, i camerieri versarono tanto spumante dolce per Viola e fresco vino bianco nel calice di Luc. Gaia bevve Coca Cola finché la sua pancia non fu piena d’aria. Thomas nascose la cassa di birre sotto una poltrona. Ogni tanto Luca e Gabriel andavano a prendersene una e sorridevano sornioni al suono dello spruzzo della lattina che si apriva. Lo dissero anche a Thea della cassa. Lei lo riferì a Yvette e Angéline.
Cherez non venne più chiamata. Molti lasciarono oscillare le loro anche, sbattendole contro quelle dei nuovi amici, a tempo con la filodiffusione.
A mezzanotte sprofondarono tutti nei pouf di fronte alle finestre. Fuori c’era il bianco delle discese che accecava lo scintillio delle stelle. Poi partì il primo fischio, una miccia salì in alto nel cielo e esplose in una fontana di linee rosse. I raggi si curvarono su sé stessi e scesero friggendo nell’aria, affievolendosi a poco a poco. In ritardo detonò il botto e tornò indietro la sua eco, respinta dalla parete della montagna, come una pallina da tennis.