Pucundria

Quella di Domenico non era una storia complicata: aveva perso le parole, e poi le aveva ritrovate. Le aveva perse senza neanche rendersene conto, come fossero la chiave della cassetta della posta o l’ultimo bottone della camicia buona, quello che non chiudi mai perché altrimenti ti manca l’aria. Le aveva perse in quella che poteva essere una domenica satura dell’odore del ragù, o nel tramonto denso che invade il porto. Le aveva perse così, senza preavviso, senza un segnale, prima ancora di capire che, senza, non poteva fare niente.

«Professò, si può? State dentro?»

Non aveva grandi talenti, Domenico, e non era neanche poi così tanto sveglio. Sua madre gli diceva che era un bambino speciale e che, prima o poi, la vita gli avrebbe mostrato la strada giusta. Glielo ripeteva tutte le mattine, mentre gli sistemava la cartella sulle spalle e si chinava a lasciargli sulla guancia un bacio che profumava di talco e farina, e poi gli diceva vai Mimmo, a mamma, che il Signore ti accompagni.
Domenico non aveva mai capito chi fosse questo Signore che doveva farsi la strada con lui. Non capiva neanche perché dovesse accompagnarlo, visto che da casa sua alla scuola pubblica ci passava solo un viale alberato, e allora borbottava mentre saltava i tre gradini dell’uscio che collegavano la sala da pranzo al retrobottega del forno. Trascinava i piedi a terra, immusonito, e si rendeva conto che non c’era nessuno con lui solo quando arrivava alla prima fontanella del viale e si fermava a bere un po’ d’acqua e ad accarezzare Bobby, il cane del fioraio. Allora, quando tornava a casa, diceva mamma ma ‘sto signore dov’è, stavo da solo, e lei lo guardava con quegli occhi sempre un po’ tristi e faceva un gesto con la testa, e non ti preoccupare Mimmo, ché da solo non ci stai mai. Domenico borbottava ancora, perché lui non teneva mica bisogno di un baby sitter, però in fondo gli piaceva l’idea di non essere solo: se la mamma diceva che il Signore c’era, allora il Signore c’era. Crescendo si era affezionato a questa figura con la barba bianca che, da qualche parte alle sue spalle, arrancava e faticava a tenere il suo passo, anche se lui non poteva vederlo. Si sentiva protetto. Passo dopo passo, anno dopo anno, si chiedeva chi fosse, cosa gli piacesse mangiare, che scarpe portasse, perché non si fermasse mai a dare una carezza a Bobby. Gli aveva regalato un nome, una famiglia, un gatto, ché magari i cani non gli piacevano poi così tanto. Aveva continuato a fantasticare sul Signore anche dopo aver iniziato a credere in Dio, e poi pure quando aveva smesso di farlo, finché non aveva realizzato che non era tanto questa figura canuta a fargli compagnia, quanto i momenti che impiegava a immaginare pezzi della sua vita. Poteva non essere forte a pallone, o non essere affascinante con le femmine, o non saper pescare manco gli sconcilli, ma se c’era una cosa che Domenico era bravo a fare era inventare storie.

«Professò, tira un vento da pazzi. Io entro.»

Sua madre voleva che lui studiasse. Tu sei bravo, Mimmo, gli ripeteva, sei troppo bravo per finire qua nel forno, devi studiare, ci parlo io con papà. E Domenico aveva studiato, perché stare curvo sui libri era più facile che lavorare le pagnotte di pane con un padre che avrebbe voluto un figlio con cui maneggiare la farina e vedere il Napoli, non da cui farsi correggere i congiuntivi. O’ professore, lo chiamava, e il suo scherno si fece presagio quando Domenico si iscrisse a Lettere Classiche.

«Professò, io sono venuto in amicizia, lo sapete. È che l’assessore ne stava parlando con quelli dell’albergo qua sopra, ho sentito per combinazione.»

Suo padre non gliela voleva pagare l’università. Domenico si era ritrovato a lavorare giù al porto, a tenere puliti i gozzi, a buttare i sacchi pieni di lische e interiora, a pesare i polpi alle belle signore tutte improfumate che venivano a farsi la villeggiatura in Penisola. Puzzava sempre di pesce, quando arrivava a lezione, e nessuno gli si sedeva mai vicino.

«Ma che fetamma che sta qua dentro, professò. Come fate a non sentirla? L’assessore dice che l’aria è tossica, che vi può uccidere, sempre che non vi frana tutto addosso prima.»

Si laureò il 5 luglio del 1984. Era un giovedì e faceva un caldo di pazzi. Per l’occasione sua madre aveva indossato la gonna buona. Suo padre invece non c’era. Quello stesso giorno il Napoli avrebbe presentato al San Paolo Diego Armando Maradona. Tremila lire per un biglietto dei distinti, che li valeva tutti, mentre il pezzo di carta del figlio avrebbe potuto vederlo anche a casa, una volta rientrato con gli occhi pieni di gioia e il sentore che quell’anno, finalmente, il Napoli avrebbe scassato tutte cose. Di quel giorno Domenico ricordava solo i calli di sua madre contro il viso, l’odore dell’alloro e il sapore dello spumante. La laurea gli procurò un posto in un liceo a Frosinone, dove insegnava greco a un paio di classi del ginnasio. Stipendio fisso, tredicesima e malattie pagate. Mica come al forno, in cui dovevi andare a lavorare pure se avevi la febbre a quaranta.

«Professò, voi non state bene, pare che tenete la febbre. Qua se ne cade tutto. Guardate qua sta porta tutta ‘nfracetata, guardate.»

Insegnare gli piaceva, ma Domenico voleva scrivere. Qualcosa di vero, di importante, qualcosa che avrebbe cambiato la vita di chi lo avesse letto. Voleva essere come Giancarlo Siani, senza paura. Solo che Domenico paura ne aveva, e pure tanta. Però la paura è buona, genera storie. Così, ogni sera, si sedeva al tavolo e ne buttava qualcuna su carta. Quella volta in cui un polpo gli si era avvinghiato alla gamba, o quando aveva rischiato di rimanere incastrato con la mano sotto la macina di pietra. Nessuna delle sue paure conduceva a una storia più grossa, ma se c’era un’altra cosa che Domenico sapeva fare era aspettare. Una volta aveva detto a sua madre che trovare una buona idea per un romanzo era un po’ come innamorarsi, quando sei convinto che sia lei quella giusta e allora la corteggi, ti lasci catturare, non mangi più e non riesci a dormire, ci pensi, ci rimugini, diventi scemo. Quando lei arrivò Domenico lo capì, perché con le donne faceva schifo, ma con le idee era tutta un’altra storia. Scrisse. E pubblicò. Ed ebbe successo. E dopo quella prima idea ne arrivò un’altra, e poi un’altra, e poi un’altra ancora. Alla narrativa seguirono i saggi e gli interventi in televisione, dove veniva chiamato a discutere dello stato della società, della vita in Penisola, del guanciale nell’amatriciana e della pizza troppo spessa. Le sue parole venivano prese con estrema serietà anche quando spiegavano argomenti su cui lui, un piccolo professore di greco nato dalla farina e cresciuto nell’acqua salata, non aveva competenze necessarie. Ma quanto era facile ripiegare le parole fino ad ottenere la forma desiderata, che fosse un editoriale sul degrado nei paesi dell’entroterra napoletano o l’elegia per il funerale di suo padre. Le parole erano roba sua, piccole e docili creature ammaestrate, sue e solo sue.
Poi, di colpo, le aveva perse.
Non gliene era rimasta neanche una, neanche un piccolo luogo comune, un “non ci sono più le mezze stagioni”. Il suo agente lo tranquillizzava: con quello che aveva buttato giù in quegli anni e non ancora pubblicato, non avrebbe dovuto scrivere un’altra riga per il resto della sua vita. Aveva raggiunto il successo, non capiva? Era arrivato. Devi rilassarti, Domè, lo vuoi il biglietto per vedere il Napoli in Tribuna Posillipo, domenica prossima? A Domenico il Napoli faceva schifo, si informava sui risultati solo per suo padre e adesso suo padre era morto. Non se ne fotteva niente delle partite, del San Paolo, di questo Cavani che non si sa quanto era bravo, così come non se ne fotteva niente delle apparizioni pubbliche e dei soldi in banca. Lui voleva scrivere, era tanto difficile da capire? Aveva bisogno di scrivere, perché era quello che sapeva fare e le parole erano tutto ciò che gli era rimasto.
E, adesso, le aveva perse.

«Voi avete perso la testa, professò. Non avete visto quello che è successo all’albergo là sotto? Qua basta un’altra ventecata e fate la fine del topo.»

Lo chiamavano Blocco dello Scrittore. Tieni il Blocco dello Scrittore, Domè, gli dicevano, allo stesso modo in cui il medico gli aveva detto che aveva il colesterolo alto. Solo che poi il medico gli aveva anche detto di smettere di mangiare il salame, mentre per il Blocco dello Scrittore nessuno gli diceva cosa fare. Suo cugino gli aveva consigliato di andarsene. Lascia stare Frosinone, Mimmo, tornatene a casa, piglia un po’ di aria di mare. E Domenico aveva pensato che, chissà, forse aveva ragione. Magari le parole se l’era lasciate dietro durante una delle visite alla nicchia dei suoi, su al cimitero di San Francesco, dove tirava un vento bestiale che rischiava di portarti via l’anima, figuriamoci due congiunzioni e quattro avversative. O forse tra gli scogli della marina, insomma, dovevano stare là, le sue parole, perché là c’erano nate e magari avevano solo un po’ di pucundria, quella malinconia che corrode dall’interno, quell’insoddisfazione mista a male di vivere. Così era partito. Aveva cercato le sue parole tra i fori di proiettile sui muri delle palazzine fatiscenti dell’entroterra, sul lungomare di Salerno, tra i panni stesi dei vicoli in cui non si sentiva il rumore del mare. Alla fine era tornato a casa, in Penisola. Si era affidato alla sua infanzia e ai racconti di bocche sdentate che avevano visto troppe estati, aveva raggiunto Sorrento con l’intenzione di arrivare al Capo e in Costiera Amalfitana, ma poi l’aveva visto. Lì, davanti ai suoi occhi, nel vallone sotto via Fioritura. Il vecchio Mulino.

«Se ne cade a pezzi, professò. Mo stiamo parlando e parliamo, ma l’assessore…»

Uno squarcio nella montagna e dentro quel rudere in pietra massiccio, grosso, ricoperto da felci ed erbacce, con l’edera che lo avviluppava e lo faceva navigare in un mare di erba. Persino il ponticello era sommerso, e il viottolo che lo collegava a Piazza Tasso era stato chiuso dopo l’ultima frana. Domenico però conosceva il Mulino, da sempre. Suo padre diceva di essere nato lì, che la sua famiglia un tempo lavorava tra quelle pietre e che durante la guerra si erano spostati sulle colline per nascondersi. Diceva sempre che prima o poi avrebbe voluto tornarci e Domenico si disse che non poteva essere un caso che si fosse trovato lì proprio adesso, con la voce di suo padre che gli risuonava in testa e gli diceva è facile, ce la può fare pure uno scemo come te, vedi che ci sta quel piccolo rivo sterrato che da Marina Piccola porta alle grotte di tufo proprio dietro il Mulino, basta solo fare attenzione a dove si mettono i piedi, ed eccola lì la strada. Forse, solo adesso che era morto da anni, suo padre lo stava riportando a casa in un giorno eterno e immobile, senza partite del Napoli e senza pane da impastare, ma solo per raccogliere le sue parole. Si mosse in fretta, Domenico. Neanche vide le catene arrugginite che segnalavano la proprietà privata.

«Proprietà privata o no, professò, basta un altro acquazzone e se ne viene giù tutto. Il Padreterno se ne fotte di quei quattro pidocchi che avete sborsato per sto Mulino.»

C’era silenzio, lì sotto. Neanche si sentiva il traffico della Penisola che scorreva sopra, sulla strada. Domenico si era addentrato nell’erba, aveva attraversato l’arco sbeccato ed era entrato.
Le piante strisciavano lungo le pareti e tra i blocchi di tufo. Tutto fluttuava in un verde accecante, con i flebili raggi di sole che galleggiavano in un mare di foglie e pietra. Era tutto in disordine, tutto sporco, e c’erano così tante cose dimenticate. Domenico riusciva a vedere con chiarezza, nonostante il pulviscolo di polvere e la luce fioca, l’uomo a cui era appartenuto quel giaccone adesso impolverato appeso all’ingresso, la mano paffuta che si era lasciata scappare la tazzina in frantumi sul pavimento, le braccia secche secche dei garzoni che avevano portato i sacchi di farina su per il rivo, la iuta scucita da cui erano scivolati fuori quei chicchi di caffè che ora si confondevano con i sassolini sul tavolo annerito. Li vedeva, Domenico, e li sentiva parlare, e muoversi, e vivere e morire in quegli spazi, così come aveva visto avvicendarsi tutti i personaggi delle sue storie passate, e si disse eccoci, ci sono, è il momento, adesso scrivo di nuovo, adesso ricomincio. Si sfilò lo zaino dalle spalle e tirò fuori il taccuino sgualcito ma immacolato. Si sedette al tavolo, passò una mano sul legno per ripulirlo dallo sporco e dalle foglie secche, poi grattò la prima pagina, ancora vuota, con la penna. Provò a scrivere qualcosa di semplice, sono, per iniziare, solo per iniziare, ma la penna scriveva mentre invece era lui ad aver esaurito l’inchiostro a disposizione. Alzò gli occhi e intorno a lui c’era solo il verde, nessuna persona, nessuna storia. Domenico era solo, in compagnia della sua mente vuota, e non capiva, ma tanto non capiva mai. Non riusciva fisicamente a scrivere, perché qualcosa dentro di lui era cambiato, senza una ragione scatenante o un Dio da accusare, senza un motivo da comprendere, senza qualcosa da aggiustare. Aveva perso le parole e credeva di averle ritrovate, ma la verità era che quel Mulino era solo l’ennesima vittima della sua penna muta, della sua personale pucundria. Domenico era un uomo nato dalla farina, cresciuto nell’acqua salata, costruito solo sulle sue parole. Adesso che le parole non c’erano più, non c’era più niente.

«Voi non ci state con la testa. Manco mi state ascoltando. Professò? Professò.»

I fiochi giochi di luce sulle pareti furono inghiottiti dall’ombra, ma Domenico non se ne rese conto: era rimasto lì, immobile, con la testa tra le mani e gli occhi secchi fissi sulla pagina arida, smossa appena dalla brezza che trottava attraverso i buchi che un tempo erano stati finestre. Non faceva freddo, ma si sa, il vento di mare porta con sé l’umidità, e se l’umidità ti si avvinghia alle ossa è finita. La sentiva, l’umidità, insieme allo iodio e alla salsedine. E al sale sulla punta della lingua, lo sciabordio dell’acqua quando il remo vi affonda dentro, il vociare dei pescatori che chiacchieravano tra loro da un gozzo all’altro. Domenico appoggiò il capo sul tavolo. Il terriccio gli si appiccicò alla fronte, e gli sembrò che il vento si piegasse su di un’unica nota monocorde, che somigliava così tanto al tono perentorio di suo padre e scandiva ritmicamente una sola parola: fallito. Domenico annuì alla voce e pensò che, sì, aveva proprio ragione, questo era, non era altro che un fallito. Me l’hai sempre detto, pa’, e che ci posso fare mo, hai ragione.
Fallito. Fallito. Fallito.
C’era davvero una voce nel vento, però e non era quella di suo padre. Era una voce di donna, o di bambina, o di vecchia, ma c’era, non era pazzo, c’era davvero e stava dicendo qualcosa.
Fallito. Fallito. Fallito.
Domenico sapeva che era una pazzia, ma la consapevolezza non gli impedì di chinarsi sul taccuino. Appoggiò la penna sul foglio, aspettandosi di ritrovarsi risucchiato in quel buco nero di rabbia e frustrazione in cui la scrittura lo lanciava ogni volta. Invece, semplicemente, scrisse fallito. Il turbinio del vento sembrò aumentare. Si fece più rumoroso. Carico di colori e odori e dolori. E parole, quelle che lui aveva perso in un giorno qualunque. Il vento le stava disperdendo in quel vecchio Mulino e tutto ciò che Domenico doveva fare era ascoltare.

«Mi dovete ascoltare, professò. Sta venendo un temporale di quelli che non ce li scordiamo più.»

Domenico restò lì ad ascoltare per un mese di fila. Scriveva di silenzi e di notti, fissava sulla carta le sue vertigini, annotava la paura e l’allegria e il riposo che non poteva concedersi. Imparò a calibrare e a gestire quelle parole neonate, che avevano un sapore strano sulla sua lingua straniera. Dopo due mesi, investì gran parte dei suoi risparmi per acquistare il Mulino. Il vecchio proprietario era morto da un pezzo e il comune si aspettava che Domenico facesse demolire la struttura. Nessuno avrebbe potuto immaginare che aveva intenzione di viverci.

«Non si può vivere qui. Non so come abbiate fatto fino a questo punto, con tutta st’umidità.»

Non aveva mai scritto tanto in tutta la sua vita. Gli bastava restare in silenzio e ascoltare. Il Mulino trovava sempre un modo per raccontargli una storia. Con la sua voce, sussurrando insieme agli spifferi gelidi, con le macchie di muffa che si espandevano sui soffitti, facendo cadere oggetti sul pavimento a notte fonda, ma bastava che Domenico desse una spolverata alle superfici annerite o provasse a tenere ad aggiustare la porta claudicante e il Mulino piombava nel silenzio più cupo. Burbero, volubile, permaloso Mulino. Domenico aveva capito e aveva smesso di mettere le mani in giro. Non aveva bisogno di porte robuste o di tende o di una cucina moderna. Gli bastava appoggiare una fettina di limone sul lavatoio, come faceva sua madre un tempo, e il Mulino sapeva subito di casa.

«Professò, come potete pensare che questa sia una casa? E che marina, mi dovete ascoltare!»

Di colpo, Domenico realizzò di avere qualcuno davanti che gli aveva parlato per tutto quel tempo. Non lo aveva davvero ascoltato, in realtà manco se n’era accorto: aveva altro a cui prestare attenzione, perché il Mulino gli lanciava contro nuove storie in ogni istante, con i muri che si sgretolavano e i calcinacci che cedevano, o con le piccole frane nelle grotte tufacee che smuovevano i piatti sbeccati nella credenza; Domenico doveva essere pronto a coglierle, perché se se ne fosse fatto sfuggire anche solo una il vento avrebbe spazzato via di nuovo le sue parole e lui non poteva permetterselo, non era niente senza le sue parole, niente…

« Dovete uscire da qua dentro. È un miracolo che tutte ‘ste felci non vi abbiano già avvelenato. Non ci sta aria professò, come fate a non capirlo?»

Domenico strizzò gli occhi cisposi. Adesso lo riconosceva. Era Peppe, uno dei pescatori che giù alla Marina gli faceva il prezzo buono per le seppie. Che ne voleva sapere Peppe del suo mulino? Non sapeva niente, Peppe, non era manco mai uscito da Marina Piccola. Sembrava parte del Mulino pure lui, con quella polo verde, ma d’altra parte tutto il mondo era verde.
Persino l’aria era verde.
Persino Domenico.

«Vabbè, professò. Domani l’assessore fa partire l’ordinanza poi sono fatti vostri. Più di questo io che devo fare?»

Aveva smesso di parlare o forse era andato via. C’era di nuovo il sole nel salone, poi la pioggia iniziò a scivolare tra le fessure e il vento a rimbombare nella cava di tufo. Era tutto leggero e verde e adesso che i pensieri si confondevano tra di loro e che la sua vita sembrava affollargli la testa, tutto ciò a cui Domenico riusciva a pensare era che aveva bisogno del tempo di raccontare un’ultima storia, solo una, una sola.
La terra gli tremava sotto i piedi.
Il Mulino si aprì in un ruggito.
E Domenico si preparò ad ascoltare.