Dopo la cremazione, Luisa si portò a casa l’urna grigia in finto marmo con le ceneri della sorella minore Nunzia. La sistemò al centro dell’armadio in camera da letto, fra lenzuola e coperte, ma quando richiuse le ante e la vide scomparire cambiò idea: la tirò fuori e la poggiò su un vecchio carrello portavivande che usava come ripiano per cianfrusaglie, così poteva averla sempre accanto a sé.
Al momento della morte, Nunzia aveva 74 anni. Non aveva mai avuto una relazione sentimentale lunga, perché gli uomini la annoiavano. Non era molto loquace, e forse per questo capitava anche che gli uomini si annoiassero di lei. Le sue frasi più ricorrenti erano “Uh!” “Ma sei scema?” “Non prendermi in giro!” Quando taceva, però, i suoi piccoli occhi verdi persi nel vuoto sembravano occultare pensieri complessi ai quali nessuno aveva accesso.
Nunzia era riuscita a vivere e invecchiare senza troppi inciampi, vivendo con sua madre fino al verificarsi di una di quelle tragedie che inducono a credere nell’esistenza del destino, per la loro capacità di rimescolare le carte come se fossero maneggiate da un prestigiatore o da un baro: sua madre morì in un incidente d’auto insieme al marito di Luisa, che stava accompagnando la suocera in ospedale per una visita. Luisa fu la prima a sapere dell’incidente, telefonò a Nunzia e si sforzò di parlare fra le lacrime. Nunzia rispose con le sue frasi abituali, poi capì e disse solo “Vengo subito.”
Dopo quella disgrazia, le due sorelle si ritrovarono sole, angustiate dal dolore e dalle difficoltà economiche. A Luisa, che non aveva avuto figli, restavano da pagare altri vent’anni di mutuo, così decise di accogliere sua sorella in casa perché le loro rispettive povertà potessero fondersi in una più dignitosa.
La crisi respiratoria che si portò via Nunzia era stata l’epilogo di un ventennio di malattie polmonari sempre più severe, favorite dall’abuso di sigarette, vizio dal quale si era liberata troppo tardi. Nei giorni successivi al decesso, la casa sembrava vuota senza i suoi colpi di tosse, senza le medicine e la macchina dell’aerosol che ingombravano il tavolo, senza la bombola dell’ossigeno, senza i suoi vestiti – che Luisa buttò un po’ alla volta in un cassonetto della Caritas – e senza il suo corpo minuto. Con tutto quello spazio libero, Luisa si sentiva più lontana da ogni cosa: la casa s’ingrandì e gli armadi svuotati sembravano più profondi e oscuri.
Negli ultimi giorni di ricovero, Nunzia aveva aggiunto al suo repertorio la frase “Voglio essere cremata!” e la ripeteva a Luisa ogni volta che riusciva a trovare la forza, insieme al suo argomento decisivo: non voleva finire incarcerata in una tomba senz’aria. Luisa era contraria: per lei i corpi dovevano restare intatti fino al giorno del giudizio, ma Nunzia le rispondeva che anche un corpo sepolto si riduce rapidamente alle ossa e che, se Dio c’era, si ricordava perfettamente di ognuno dei suoi figli e poteva ricostruirli con la massima precisione. Insomma, nonostante la stanchezza della malattia, Nunzia non cedeva, e anzi pretese che Luisa disperdesse le ceneri su una collina che entrambe ricordavano con nostalgia, perché da bambine vi trascorrevano allegramente la Pasquetta coi genitori e i familiari stretti.
Visti l’aggravarsi delle condizioni e la crescente agitazione di Nunzia per la resistenza della sorella, Luisa finì per promettere, ma nel suo tribunale interiore si riservò il diritto di contestare, al momento opportuno, il carattere vincolante della promessa perché, discendendo da un ricatto morale, non poteva dirsi del tutto libera.
Il momento opportuno giunse quando, davanti al cadavere di Nunzia, un’infermiera notò lo sguardo afflitto e gli occhi umidi di Luisa che non si decideva a lasciare la mano della sorella, e le raccontò di come, negli ultimi istanti, la poverina cercasse disperatamente l’aria che a poco a poco abbandonava i suoi polmoni per non rientrarvi mai più. Nelle ore che seguirono, Luisa fu perseguitata dall’immagine della sorella soffocata a morte, e si convinse a mantenere la promessa. Su questa decisione influì anche il colloquio col titolare delle onoranze funebri, che le prospettò la maggiore complessità e gli alti costi del seppellimento, per non parlare delle tasse cimiteriali che Luisa avrebbe dovuto pagare ogni anno, proprio quando, rimanendo sola, la povertà sarebbe tornata a morderla con denti più affilati. Quando Luisa gli domandò se la Chiesa fosse contraria alla cremazione, l’uomo le rispose di no, citandole a memoria un paio di documenti ufficiali, e Luisa si fidò.
Soddisfatta la prima richiesta di sua sorella, Luisa poteva dedicarsi finalmente a piangerne la morte, senza dimenticare di pregare per la sua anima, della cui salvezza continuava a dubitare. Visto che Nunzia non aveva stabilito un tempo massimo per la dispersione delle ceneri, decise di rifletterci con calma; ogni mattina, però, trasferiva il carrello con l’urna dalla camera da letto al salone e lo posava sul davanzale della finestra che affacciava proprio su quella collina. Se la giornata era tiepida, apriva le imposte perché Nunzia potesse respirare più liberamente. Era la stessa finestra che, appena sveglia e fino al giorno dell’ultimo ricovero, Nunzia spalancava gridando “Aria!” come uno scongiuro.
Luisa si trovò a svolgere tutte le attività sedentarie che erano state la specialità di sua sorella: pulire la verdura, compilare la schedina del Superenalotto, scartocciare e leggere a voce alta la poca corrispondenza, rammendare indumenti. Seduta al tavolo nel posto preferito da Nunzia – quello di fronte al muro con il collage delle foto di famiglia – Luisa cominciò a usare il suo coltello preferito, la sua penna preferita, le sue forbici preferite. Ora che dividersi i compiti non era più possibile, sembrava destinata a identificarsi in lei, ad assorbirla o a farsene assorbire.
Una settimana dopo la morte di Nunzia, Luisa la sognò. Erano sulla collina, in un giorno di Pasquetta di qualche decennio prima, accovacciate su un telo posato sull’erba e circondate da cose da mangiare. Nunzia mostrò a Luisa una vaschetta con del cibo, le disse “Guarda, è andato a male” e lo gettò via. Prese un’altra vaschetta, ne annusò il contenuto e, senza più parlare, ripeté il gesto. Poi ne prese un’altra, e un’altra ancora…
Luisa si svegliò nel buio della sua stanza, accese il lume e guardò l’ora: erano quasi le nove del mattino. Tardi, per le sue abitudini, ma quella notte aveva riposato male. Andò al telefono, cercò il biglietto da visita delle onoranze funebri e chiamò.
«Lei mi ha detto che la Chiesa non è contraria alla cremazione, ma non mi ha detto cosa bisogna fare con le ceneri.»
«Perché non me l’ha chiesto.»
«Poteva dirmelo lo stesso, ma non importa. Cosa bisogna fare?»
«Andrebbero custodite nel cimitero.»
«Quindi a casa non va bene?»
«Per la Chiesa no.»
«E quindi non si possono nemmeno disperdere?»
«Peggio ancora.»
Luisa restò in silenzio, sconfortata. L’uomo capì e cercò di rianimarla un po’.
«Non si preoccupi, prima o poi la Chiesa cambierà idea, fanno sempre così. Quando mio padre creò la nostra ditta erano contrari anche alla cremazione… Fossi in lei non farei niente e aspetterei.»
«Quanto tempo ci vorrà?»
«I tempi della Chiesa, non sarà dall’oggi al domani.»
«Sono vecchia, non ho tempo. Grazie, buona giornata.»
Luisa pensò che, se stava per commettere un peccato, il Padreterno gliel’avrebbe condonato non appena fossero cambiate le regole, ma era disposta a farsi anche un po’ di Purgatorio per restituire la pace a sua sorella.
Luisa non sapeva chiedere aiuti e favori. Aveva solo rapporti pratici – con il salumiere, il medico, l’impiegato delle Poste – che prevedevano uno scambio paritario e ben codificato fra le parti. La sua incapacità era puramente linguistica: aveva dimenticato quali parole e quali espressioni corporali usare in certe circostanze, e in questo assomigliava molto a sua sorella. E poi, a chi avrebbe chiesto di accompagnarla sulla collina? Aveva perso di vista da anni le poche amiche, e le restavano solo parenti lontani, che dalla morte di Nunzia erano ancora più lontani, perché era lei che li nominava di tanto in tanto, ravvivando ricordi sempre più sbiaditi. C’era il parroco della chiesa dove andava a messa una volta al mese, ma non poteva coinvolgerlo in un’impresa contraria al suo ufficio. Poteva mettere da parte un po’ di soldi per prendere un taxi, ma non sarebbe bastato: si vergognava all’idea di chiedere a un estraneo di portarla in cima alla collina per svuotare un’urna. Come l’avrebbe spiegato? Di sicuro non avrebbe trovato né le parole né i gesti adatti.
Le restava una sola possibilità, e decise di esplorarla subito: andò al capolinea degli autobus e chiese se per caso ci fosse una linea che fermava sulla collina. I tranvieri, che fumavano pigramente davanti a un gabbiotto, le risposero che ci passava il 9B, ma lassù non c’era una fermata perché, sebbene fra quei tornanti abbondassero bestie e piante, mancava l’unico elemento naturale che avrebbe giustificato un tale privilegio: l’essere umano.
Luisa tornò a casa frastornata e delusa, e per distrarsi si mise a tagliare i gambi alle cime di rapa che aveva comprato al mercato. Quando ebbe finito, rimase seduta al tavolo con gli occhi fissi nel vuoto, e d’un tratto le venne un’idea assurda, di quelle che sospettava venissero a Nunzia quando era seduta al tavolo con gli occhi fissi nel vuoto: poteva trasferire le ceneri dall’urna a una meno ingombrante busta di plastica, prendere il 9B e, al momento di scavallare la collina, aprire il finestrino, sciogliere il nodo alla busta e liberare le ceneri.
Luisa si mise subito in azione perché aveva paura che, a pensarci troppo, avrebbe finito per rinunciare. Scelse una busta nera perché non trasparisse nulla e il dosatore del detersivo per il travaso, poi chiuse tutte le finestre per evitare correnti d’aria e aprì l’urna. Alla vista di quella materia inerte – che un tempo era stata un corpo agile e ben formato – non riuscì a trattenere le lacrime, che per poco non bagnarono le ceneri; ma, siccome aveva una missione da compiere, si asciugò prontamente gli occhi e affondò il dosatore nell’urna. Con le mani fragili e tremule che si ritrovava, una piccola parte delle ceneri si sparsero sul pavimento. Le raccolse con scopino e paletta facendo attenzione a farle scivolare tutte nella busta, e anche se alcune particelle rimasero impigliate nelle setole e nelle fughe delle mattonelle, cosa potevano mai rappresentare? Forse un pezzetto di unghia o la punta di un capello, niente di più; niente, comunque, che potesse compromettere l’integrità del corpo di Nunzia nel giorno del giudizio.
L’autobus era quasi vuoto. Luisa andò a sedersi in fondo, il più lontano possibile dall’autista e dai pochi passeggeri, accalcati lì davanti a chiacchierare. Si guardò intorno, e per prima cosa notò l’aggancio della cintura di sicurezza, senza capire cosa fosse: erano passati vent’anni dall’ultima volta in cui aveva preso un autobus. Anche i sedili erano cambiati: un tempo erano lamine sottili e durissime, nemiche giurate dei glutei e della schiena, mentre ora assomigliavano a comode poltrone. C’era stato un altro cambiamento importante, e quando se ne accorse ne fu sconvolta, perché le mandava a gambe all’aria il piano: i finestrini erano sigillati. Dov’erano finite le maniglie che si tiravano giù come una ghigliottina? Luisa fece scivolare le mani sul vetro e sulla cornice, premendo qua e là in cerca di un bottone, una leva, un congegno qualunque che le permettesse di aprire un varco per la busta di plastica nera che custodiva nella borsa. Quando si convinse che non c’era nulla da fare cominciò a tremare: un fuoco gelido risaliva le sue gambe, la incendiava e le dava brividi di freddo allo stesso tempo. Aveva bisogno di aria, come Nunzia, e forse quel malessere era un segno della sua presenza. Guardò fuori: avevano già lasciato la città e la strada cominciava a salire. D’un tratto capiì che Nunzia la stava guidando verso la soluzione del problema, ma doveva resistere ancora un po’, forse cinque o dieci minuti. Prese un fazzoletto dalla borsa e si asciugò il sudore. La busta era sempre lì, in paziente attesa, mentre cominciavano ad apparire i primi alberi e la pendenza aumentava. Quando le sembrò che fosse arrivato il momento, Luisa si alzò, arrancando verso l’autista. I passeggeri, osservandone il viso stravolto, si chiesero se non fosse il caso di offrirle aiuto.
«Posso scendere un momento? Non mi sento bene» sussurrò all’autista, che fu molto comprensivo: non si fermò subito perché la strada, in quel punto, non lo consentiva, ma dopo un paio di curve apparve uno spiazzo dove riuscì a parcheggiare senza mettere a rischio la circolazione e la vita dell’anziana donna.
Quando la porta si aprì, Luisa scese gli scalini ondeggiando. Da dietro, un paio di passeggeri le afferrarono le braccia per sostenerla, come se fosse una marionetta. Non appena toccò terra, Luisa si guardò intorno: quello spiazzo era una discarica abusiva, piena di rifiuti di ogni tipo; più in là s’alzava la nuda roccia della montagna, mentre la scarpata coi begli alberi frondosi era dall’altro lato della strada, irraggiungibile. I passeggeri, che ora erano diventati quattro, si strinsero premurosi intorno a lei.
«Lasciatemi!» disse Luisa, e poi, divincolandosi: «Aria!»
I passeggeri si allontanarono di qualche passo, ma senza perderla d’occhio.
«Le medicine…» disse ancora, per giustificare il suo rovistare nella borsa. Si voltò di spalle, tirò fuori la pesante busta nera e la poggiò per terra. Provò a disfare il nodo, ma sembrava stregato. Lo sforzo le fece girare la testa e un attimo dopo svenne, accasciandosi a terra. I quattro passeggeri accorsero immediatamente: l’afferrarono per i piedi e le braccia e la riportarono sull’autobus, sdraiandola sul pianale con le gambe alzate. L’autista ripartì di corsa verso una farmacia non troppo distante, dove avrebbero potuto soccorrerla meglio. Nessuno, in quell’emergenza, si era preoccupato della busta nera, che rimase abbandonata nello spiazzo, in mezzo ai rifiuti.
«Mia sorella!» sussurrò Luisa.
«Che dice?»
«Vuole sua sorella.»
«Sì, signora, l’avvisiamo subito. Come si chiama?»
Luisa non rispose. Una donna le si accostò all’orecchio.
«Come si chiama sua sorella?»
«Nunzia.»
«Ok, appena possibile chiamiamo Nunzia, ma vedrà che fra poco starà meglio.»
«Sì, non è niente» disse un altro passeggero.
In quel momento era difficile capire se Luisa sognasse o vaneggiasse; fatto sta che si vide sul ciglio della scarpata, di fronte a sé il fitto reticolo degli alberi, con le foglie che frusciavano nella brezza; ancora più in là il vuoto, dove l’aria freschissima era appena perturbata dal volo di qualche raro uccello. Luisa aprì facilmente la busta, l’afferrò con cautela e, chiusi gli occhi, la rovesciò. Quando li riaprì, Nunzia era accanto a lei, grigia di cenere. Luisa non si stupì. Avrebbe voluto ripulirla, ma non osò passarle una mano sul viso, temendo che sotto la cenere non ci fosse nulla. Nunzia la guardò benevola coi suoi piccoli occhi grigi, poi le mostrò il pollice, che aveva un’unghia scheggiata, e sorridendo disse, con voce immacolata di ragazza: “Lo vedi? Non è niente…”