È tutto a posto

“Home, is where I want to be
But I guess I’m already there
I come home, she lifted up her wings
I guess that this must be the place
I can’t tell one from the other
I find you, or you find me?”
This Must Be The Place, Talking Heads

Andrea l’ho conosciuto un mese dopo che è morta la nonna. Forse, se lei fosse ancora qui, io e lui adesso non staremmo insieme. Sempre che ci stiamo davvero, insieme.
Siccome era un po’che non si faceva sentire, alla fine gli ho scritto io. “L’undici vengo a Parigi. Se ti va possiamo vederci.” Non avevo ragioni particolari per andarci, ma con lui fingevo sempre di averne.
“Sarebbe fantastico!”, ha risposto immediatamente, e subito ha aggiunto: “Riesci a venire il dieci?”
Mi sembrava che il secondo messaggio rovinasse il primo, e mi è venuta voglia di cancellarlo.
“Veramente il dieci ho un seminario e tra poco c’è l’esame”, ho scritto (dopo svariate correzioni).
“L’undici devo partire. Mi piacerebbe davvero molto vederti!”, ha concluso Andrea con la sua solita nonchalance.
Per la serie: come non detto. Adesso che ci frequentiamo da un po’, ho capito che Andrea tratta l’informazione in maniera selettiva: trattiene solo quella che gli fa comodo.
Ho ceduto e ho comprato un biglietto per il dieci.
Il fatto è, mi piacerebbe essere davvero importante per Andrea, ma so che probabilmente non lo sono. Saperlo rende la situazione un po’ più tollerabile, e a volte un po’ più tollerabile va bene.
Ho chiamato Vera, la mia compagna di corso, per dirle che il dieci non sarei andata a lezione. «Sei troppo arrendevole» mi ha detto. «Devi smetterla di mettere al secondo posto i tuoi bisogni.»
«Hmm» ho risposto. Non ero sicura di sapere quali fossero, i miei bisogni, e all’ improvviso mi sono sentita in colpa, come se avessi mancato una lezione fondamentale sulla vita a cui sarebbe bene essere presenti.
Il venerdì mi sono svegliata presto, ho fatto con cura la valigia e sono andata all’aeroporto anziché al seminario su Hemingway. In programma c’era Men without women, e l’assistente che dà il corso è uno in gamba. Quando a lezione mi capita di fare un commento, inclina leggermente la testa e appoggia i gomiti sul tavolo, come se per ascoltare me avesse trovato una posizione specifica. Ho messo Hemingway in valigia, per leggerlo in viaggio. Anche viaggiare mi piace. Mi fa sentire attiva, indipendente e in controllo della situazione.
Fino al momento dell’imbarco, è filato tutto liscio. Mentre il tapis roulant mi srotolava verso il gate, mi è arrivato un messaggio. Andrea: “Fai buon viaggio. Non vedo l’ora di vederti!”
Mi sono diretta verso la hostess con il mio miglior sorriso, il passaporto in una mano e la carta di imbarco nell’altra, quando il telefono si è messo a squillare.
La cosa più sensata sarebbe stata ignorarlo, ma è stato più forte di me.
«Pronto?» ho detto, fermandomi di colpo. La fila si è bloccata. La hostess ha aggrottato le sopracciglia e mi ha fatto cenno di levarmi di torno.
Ho fatto per spostarmi, ma sono inciampata nel bagaglio a mano e il telefono è caduto. Quando l’ho raccolto, mi è arrivata la voce zia Cati che diceva “Anna? Ma dove sei?”
La comunicazione era disturbata. Sentivo l’eco della mia voce ma la sua mi arrivava a singhiozzi. C’era e non c’era.
«Zia, ci sei?»
«Anna? Ti sento malissimo! Non puoi andare da un’altra parte a telefonare?»
«Zia, sei tu che hai chiamato. Sono in aeroporto, anzi, sto imbarcando. Possiamo…»
«Ah, ecco perché si sente così male! Ma, allora, non puoi venire a dar da mangiare a Eddi mentre sono via!»
«Mi dispiace, davvero, stavolta non posso.»
«No, vai vai, divertiti, ci mancherebbe» mi ha risposto. «Certo, se lo avessi saputo prima…ma pazienza, in qualche modo faremo.»
Quest’ultimo commento l’ho ignorato. «Beh, prova a chiedere a Leda» ho detto, «magari può passare lei.»
Leda è la mia sorellastra: in comune non abbiamo assolutamente niente, se non il fatto che anche suo padre se l’è filata prima che fosse grande abbastanza per accorgersene. A Eddi Leda non piace, ma quantomeno la tollera, perché Leda è il tipo che incute soggezione un po’ a tutti.
«Oh, non so» ha risposto la zia con un tono adesso tra l’afflitto e il desolato. «Sai com’è lei… così sbrigativa. Eddi non mi mangia mai niente quando viene lei. Non so neanche come fare a dirglielo, poverino. Mi farà una crisi. Se ci fossi tu sarebbe più semplice.»
Ho pensato che non era poi questo gran problema se Eddi stava un po’ a dieta, visto che era in sovrappeso e un mangiatore compulsivo.
«Beh, zia, mi dispiace, non so proprio cosa fare» ho detto con la voce più ferma di cui ero capace. «Prova a sentire Leda. Sono sicura che Eddi starà bene.»
«Sì sì, certo, come non detto. Divertiti, eh.»
Stavo per dire ciao ma la zia Cati aveva già messo giù. Riattacca sempre senza salutare. All’inizio, è una cosa abbastanza destabilizzante, poi uno ci fa l’abitudine. Non c’è nulla di personale, è ostilità indifferenziata verso il mondo.
Ho respirato profondamente, con la pancia, come mi hanno insegnato al corso di yoga, e mi sono rimessa in fondo alla fila per l’imbarco. Per sicurezza ho spento il telefono.
Per le prossime quarantotto ore, Eddi e zia Cati non erano un problema mio. Tutto sarebbe andato per il meglio. Sarei andata dal parrucchiere e avrei visto Andrea.
La hostess mi ha preso il passaporto, stringendo appena le labbra, come fossero sul punto di dire: “vergognati”, e io ho cominciato ad avvertire sensi di colpa.
Oltre ad essere meno arrendevole, mi piacerebbe anche non sentirmi sempre in colpa, ma non è una faccenda tanto semplice. Ho preso Men without women dalla valigia, mi sono seduta, e ho cercato di pensare a cosa avrei ordinato dal carrello delle bevande.

Quando sono arrivata in albergo, verso mezzogiorno, ero esausta. Era quello dove io e Andrea ci eravamo incontrati la prima volta: fuori dal centro, a gestione familiare, con poche stanze. Visto che ormai ci vado spesso, riesco quasi sempre ad avere la stessa. Se ho bisogno di qualche cosa, come l’asciugacapelli o il ferro da stiro, posso chiederlo a Marie alla ricezione.
Dopo un po’ che ci vedevamo, Andrea ha cominciato a dire che il nostro albergo era troppo lontano dal suo ufficio e che le camere erano piccole, così ora va quasi sempre a finire che rimango nella mia stanza fino a sera, poi lo raggiungo in centro e, quando ormai sono troppo stanca per fare obiezioni, passiamo la notte in un hotel di lusso che chissà come gli ha prenotato la segretaria. «Forse non fa questa gran differenza, ma non è la stessa cosa» ho detto a Vera un giorno che uscivamo da lezione. «Mi fa tristezza, ma non so perché.» Vera ha scrollato le spalle, con quel modo che ha lei, come se tutto potesse scivolarle addosso, e ha detto, «Perché comincia a trattarti come una escort.»
Ho sciolto il cordone delle tende e le ho tirate quasi del tutto, poi mi sono infilata la camicia da notte e mi sono messa sotto le coperte. C’era una bella sensazione di fresco e di lenzuola distese. Appena ho chiuso gli occhi le cose hanno cominciato ad allontanarsi. Eddi e zia Cati, le labbra strette della hostess, il seminario a cui non ero andata, Vera che scrollava le spalle. Pensavo che mi sarei addormentata pensando ad Andrea e all’emozione che avrei provato a rivederlo, ma non ci riuscivo.
L’unica cosa che di lui mi veniva in mente era: “Puoi venire un giorno prima?”

Quando mi sono svegliata erano le tre passate. Ho controllato il telefono. C’era un messaggio di Andrea e un WhatsApp di Vera. Ho cliccato su quello di Andrea. “Tesoro, spero tu sia arrivata bene”, scriveva. “Purtroppo, faccio tardi stasera. Ti chiamo appena ho finito. Passa una fantastica giornata!”
Andrea usa i superlativi e i punti esclamativi con una leggerezza sconcertante. Ogni tanto mi viene voglia di cancellarglieli tutti e rimandargli il messaggio corretto, per fargli capire come stanno veramente le cose. Nemmeno lo so, come stanno veramente, ma di certo non sono fantastiche!
Ho aperto il WhatsApp di Vera. “Ciao bella, come va? Sei già arrivata? Ferro ha chiesto di te. Ho detto che eri malata.”
“Sì. Tutto a posto”, ho scritto. “Com’era il corso? Lui che ha detto?”
“Bello. Niente, solo che hai mancato diverse lezioni e se avevamo notizie.”
“O.K. Mi passi gli appunti?”
“Sì. No problem. Ma son scritti male. Poi oggi Ferro aveva una camicia bianca. Stava da dio. Mi sono distratta. Magari chiedigli un appuntamento, così almeno vede che non te ne freghi.”
“E che gli dico?”, ho risposto, “Scusi, vado a letto con uno che per me il sabato non c’è mai, quindi il venerdì non vengo a lezione?”
“Come ti pare. Cerca di venire, però. Ci sentiamo quando torni. Baci.”
“Baci.”
Ho messo il telefono sul comodino e sono rimasta sdraiata, a guardare verso la finestra. Ci avevo appeso il vestito verde che volevo mettere quella sera. L’avevo comprato con la nonna a Parigi durante l’ultimo viaggio che abbiamo fatto insieme. Quando sono uscita dal camerino, la nonna mi ha strizzato l’occhio e mi ha detto «À tomber par terre» facendo l’accento francese, e abbiamo riso. La nonna era già ammalata, ma ancora non lo sapevamo. È molto più facile essere felici e divertirsi quando non sai le cose. In ospedale, me lo diceva spesso: «A Parigi ci siamo proprio divertite» come se volesse essere sicura di lasciarmi con quello. Un bel ricordo.
Ho preso il vestito per vedere come mi stava, ma appena ho infilato il braccio ho sentito crac. Me lo sono tolto per controllare. «Merda.» Una delle cuciture si era strappata. A sinistra, proprio sotto il seno, c’era un piccolo foro.
Volendo, avrei potuto cucirlo. Invece l’ho ficcato in valigia e sono andata a farmi la doccia.

Alle cinque e mezza avevo appuntamento dal parrucchiere. Di solito sono organizzata ma dovevo aver calcolato male il tragitto. L’autobus è stato fermo dieci minuti per un incidente. Quando sono arrivata, con venti minuti di ritardo, la ragazza della ricezione mi ha detto che era desolée, ma avevo perso il mio posto. Ovviamente era colpa mia, e non era neanche chissà che disgrazia. Il problema è che io un po’ ci credevo: un posto per me, davvero, non c’era.
Sono uscita e ho camminato a caso per il quartiere. Appena ho trovato un parrucchiere sono entrata. «Avete posto?» «È solo per una piega.» C’era una sola cliente, una signora con l’aria assente che si stava facendo fare le unghie. Ho cominciato a sperare che mi dicessero di no, ma temevo mi sarei messa a piangere.
Prima che potessi cambiare idea mi sono ritrovata al lavatesta. Ho pensato che una volta seduta tutto si sarebbe sistemato.
Mentre il parrucchiere mi risciacquava lo shampoo ho sentito il telefono vibrare. Forse è Andrea, ho pensato. Ho cercato di prenderlo dalla borsa. Lo shampoo mi è entrato negli occhi. Il parrucchiere ha smesso di risciacquarmi e ha detto: «Se deve rispondere, faccia pure.»
«Sì, scusi, le spiace solo un momento» ho risposto raddrizzandomi sulla sedia.
Je vous en prie, mi liquidato, piantandomi l’asciugamano sulla testa.
Avevo una chiamata persa e un messaggio.
“Quel gatto demente non c’è.” Leda non è di molte parole. Va dritta al punto, e il garbo spesso le fa difetto, però ha molto buon senso, e quando vuole sa essere generosa. Quando la nonna è morta, è stata lei ad aiutarmi con il funerale.
A Eddi di certo non era affezionata, ma non credo lo avrebbe perso apposta. Eddi non esce volentieri. Ha un disturbo della regolazione emozionale, se ci sono altri gatti si agita, gli si drizza il pelo e soffia.
L’ho richiamata. «Leda? Scusa, non potevo rispondere. Come non c’è
«Nada. Hmm. Zero.» Parlava come se stesse masticando qualcosa che non valeva assolutamente la pena smettere di masticare.
Siccome so benissimo che tende a ignorare tutto ciò che non le interessa, cioè la maggior parte delle situazioni, le ho chiesto: «Lo hai cercato almeno?»
«Ho dato un’occhiata. Hmm. Non c’è. Davvero.»
«L’hai già avvisata?»
«Sei matta? Vuoi una crisi isterica? Aspettiamo.»
«Magari torna da solo» ho detto io, sperando di chiuderla lì. L’asciugamano che avevo in testa si era sciolto e i miei capelli gocciolavano.
«E chi lo sa» ha risposto lei, senza più masticare, «forse ha tagliato la corda perché anche lui ne aveva le palle piene.» Quando si tratta di criticare zia Cati, Leda non si risparmia.
«Perché sei sempre dura con lei?»
“«Oh Anna, non darmi lezioni. Lo saresti anche tu se fosse tua madre» ha sbottato.
Sono rimasta ferma con il telefono appoggiato all’orecchio, come se da un momento all’altro quell’ultima frase potesse uscirmi dalla testa e rientrare nell’apparecchio.
Poi Leda ha detto: «Oddio, mi spiace Anna. Sono una merda.»
Ho allontanato il telefono, lasciando cadere il braccio. Mi sentivo tutto il collo bagnato, con delle gocce che scivolavano giù per la schiena. Era una sensazione così sgradevole, eppure aveva qualcosa di inevitabile. L’asciugamano era messo male fin dal principio.

«Tutto a posto?» mi ha chiesto il parrucchiere, ricomparendo dietro la poltrona.
«Oh, sì, tutto a posto. Grazie.»
«Allora, come li facciamo?»
Come li facciamo. Ho cercato di allontanare Eddi, Leda, e zia Cati, e di concentrarmi. Li volevo bellissimi, così Andrea avrebbe capito che ero l’unica donna della sua vita e si sarebbe innamorato follemente di me, ma ovviamente non era una richiesta possibile. Se non altro per un parrucchiere.
«Oh, me li faccia naturali ma un po’ mossi» ho detto, guardando nello specchio. «Mais pas trop non plus
«Pas trop, quoi?» mi ha chiesto fissando la mia faccia nello specchio. Stringeva gli occhi, come se non riuscisse a mettermi a fuoco.
«Oh, non lo so. Faccia lei. Mi fido» ho detto. Non mi fidavo per niente, ma ero troppo stanca per rispondere un’altra cosa.
Lui è andato a rovistare in un armadietto, poi si è piazzato sopra la mia testa con spazzola e phon. La spazzola era piena di capelli e il diffusore continuava a cadere.
Improvvisamente ho avuto caldo e mi è venuta la nausea.
«Scusi» ho detto, «non mi sento bene. Devo uscire.»

La sera che io e Andrea ci siamo conosciuti, ero mezza ubriaca. Per un po’, dopo che la nonna è morta, ho pensato che bere mi avrebbe fatto sentire meglio. Quando Leda era piccola, anche zia Cati beveva. Una volta ha anche tirato una bottiglia a Leda perché le aveva risposto male. Non l’ha presa, ma Leda si è spaventata e la nonna l’ha portata da noi per qualche giorno. Con me però l’alcool non funziona granché. Se bevo quando sono triste, continuo a sentirmi triste, quindi non so perché lo facessi. Insomma, quella volta ero a Parigi per una conferenza sul realismo americano. A fine giornata, rientravo in albergo, mi fermavo al bar, mi facevo due o tre bicchieri, e salivo in camera. Solo che una sera non mi ricordavo più qual era. Sono arrivata al piano ma non avevo la minima idea di dove andare. Voglio dire, è strano, no? È un po’ come dimenticarsi dove stai di casa. Allora mi sono seduta nel corridoio, la schiena appoggiata a una delle porte. Quando Andrea ha aperto la porta della sua stanza, è li che mi ha trovato. Dice che mi ha chiesto se stessi bene e io gli ho detto che volevo andare a casa. La mattina dopo, quando mi sono svegliata, sul comodino c’era il suo biglietto da visita. “Colazione alle otto se sei sveglia.” Quando sono scesa, erano le otto e dieci e avevo mal di testa.
Non lo so. Succedono delle cose così, e finiscono per avere tutto questo potere sulla nostra felicità.
A colazione non sapevo cosa ordinare. “Facciamo caffè e pane tostato, e per te due aspirine, mi sa”, ha detto Andrea ridendo. Era bello fare una pausa e lasciare che qualcuno pensasse per te. Non a te, ma per te. Al tuo posto.
Mentre spalmavo la marmellata sul pane, mi ricordo che mi sentivo leggera, e quasi contenta, come se la nonna non fosse morta.
O come se la zia Cati non mi avesse mai dato via.

Uscita dal parrucchiere, ho fermato un taxi e mi sono fatta portare in albergo. Avevo ancora i capelli bagnati. Li ho tamponati alla meglio con un asciugamano e mi sono seduta sul letto. Ho cercato Men Without Women nella borsa, ma non c’era.
Ero così sconfortata che ho chiamato Andrea.
Siccome non lo faccio quasi mai, deve aver pensato che era una cosa urgente, per questo ha risposto subito.
«Anna? Che c’è?»
«No, niente, solo che ero fuori e mi sono sentita poco bene. Ho perso il libro per l’esame. E Eddi è sparito, cioè forse è scappato. Tu non riesci a finire un po’ prima?»
«Anna, calmati. Sei in albergo adesso? Che cos’hai esattamente?»
«Sì. Niente, mi sta passando, era nausea, credo.»
«Allora cerca di riposare. Fatti fare una camomilla o qualcosa. Sei solo un po’ agitata.»
«Sì.»
«Ora devo andare. Ci vediamo stasera, ok?»
«Ok. Ciao.»
Non so cosa mi aspettassi, ma qualunque cosa fosse non lo avevo avuto.

Verso le sette mi ha scritto Vera.
“Lo so che sei impegnata, domanda veloce: ci sei venerdì prossimo? Festeggiamo il mio compleanno.”
“Ok.”
“Top. Come va lì?”
“Non so. Non tanto bene, mi sa. Sono arrivata tardi dal parrucchiere e non c’era più posto, sono andata da un altro che non sono sicura fosse un parrucchiere, mi sono sentita poco bene e ho perso Hemingway con gli appunti.”
“Ah, però. Non ti fai mancare niente. E il tuo uomo che dice?”
“Finisce tardi.”
“Lo sa che stai cosi?”
“Sì. Cioè, l’ho chiamato ma non so se ha capito. Non mi spiego molto bene al telefono.”
“Mi sembra che quando c’è da farsi una scopata capisce.”
“Così non mi aiuti”, ho risposto.
“No, ma neanche tu ti aiuti. Se devo essere onesta, spero che tu non lo veda più, o almeno non così.”
Siccome non le ho più risposto, dopo un po’ mi ha scritto di nuovo: “Esci e comprati un altro libro, così ti schiarisci le idee. Gli appunti te li do io.”

Non aveva tutti i torti. Ho scritto una mail all’assistente di letteratura: mi dispiaceva di aver mancato dei corsi per ragioni personali ed ero disposta a fare del lavoro supplementare per recuperare.
Poi sono uscita e sono andata nella libreria del quartiere. Mentre sfogliavo Hemingway, ho sentito la vibrazione della mail in entrata e ho controllato il telefono. Mi aveva già risposto.
Buongiorno Anna,
grazie del messaggio. In effetti mi chiedevo cosa stesse succedendo, perché mi sembrava che il seminario le piacesse. Ha perso diverse lezioni. Se riesce a passare nel mio ufficio lunedì alle tre, ne parliamo. Cordialmente, Gianmarco.

Ho rimesso il telefono in borsa e sono andata a pagare. La cassiera ha preso il libro dalle mie mani e mi ha sorriso, «Sono undici euro» ha detto, «Vuole un sacchetto?»
«Oh, no, la ringrazio. Non c’è bisogno. Economizziamo sulla carta.» Ho sorriso. Anche la nausea mi era passata. Forse aveva ragione Andrea, la mia era solo ansia. Gli ho scritto un messaggio per dirgli che era tutto a posto e che ero uscita a ricomprarmi il libro.
Due ore dopo non si era ancora fatto sentire. Ero a metà di Men Without Women e avevo di nuovo la sensazione che c’era qualcosa che non andava.
L’ho chiamato in ufficio. Ha risposto la segretaria.
«Posso esserle utile?»
«Mi può passare Andrea?»
«Il dottore è in riunione. Vuole lasciarmi un messaggio?»
Ho cercato di pensare a un messaggio che avrei potuto lasciare, ma non mi veniva in mente niente.
«Pronto?» ha insistito lei. «È ancora in linea?»
«Sì. No.»
«No? No cosa?»
Questa tizia cominciava a darmi sui nervi.
«No. Nessun messaggio.»
«È sicura? Se mi lascia detto il suo nome, la faccio richiamare.»
«No» ho ripetuto.
«No?»
Ho riattaccato. Senza salutare, tale e quale zia Cati.

Non c’era più motivo di fermarmi a Parigi. Se mi fossi sbrigata, potevo ancora prendere il volo della sera.
Ho fatto la valigia alla rinfusa, come si vede nei film quando le persone partono all’improvviso e sbattono guardaroba interi in borse microscopiche. Ora capivo perché. In quel momento non te ne importa un bel niente se i vestiti saranno spiegazzati quando li tirerai fuori, anzi, forse per una settimana la valigia neanche la disferai, ma almeno sarai in un altro posto.
Quando le ho detto che dovevo andare via e pagavo il conto, Marie mi guardato e mi ha detto, «Mi spiace, spero non sia niente di grave.»
«No, niente di grave» ho risposto. E poi per qualche assurda ragione ho aggiunto, «È per il gatto.»
Lei mi ha guardato senza capire.
«Non sta bene» ho detto, «è scappato.»
«Oh. Non sapevo avessi un gatto.»
«Oh» ho risposto mentre rimettevo la carta di credito nel portafogli, «è di mia madre.»

Una sera, circa una settimana dopo che ero tornata, ho deciso di fare un giro dalla nonna. Da quando è morta torno spesso nella nostra vecchia casa. A volte, se si fa tardi, mi fermo anche a dormire. È l’unica casa che mi ricordo, anche se la nonna diceva che, quando sono nata, ero stata un po’ con zia Cati, nel condominio in fondo alla strada. Ultimamente, se sa che vengo qui, zia Cati passa a farmi un saluto. (A volte veniva anche Eddi, prima che lo perdessimo. Non gli piace mica restare a casa da solo.) Insieme guardiamo le cose della nonna. Mettiamo da una parte quelle che vogliamo tenere e dall’altra quelle che potrebbero servire a qualcun altro. A volte cambiamo idea e rimettiamo delle cose da dar via nel mucchio di quelle da tenere.
Un giorno ho detto a Leda che mi sembrava carino da parte di zia Cati ma lei è rimasta scettica. «Non illuderti» mi ha detto. « Sta solo giocando a fare la mamma. Tra un po’ vedrai che si stufa.»
Ho preso la chiave di riserva da sotto il vaso di ortensie. Dicevo sempre alla nonna che non mi sembrava un nascondiglio molto sicuro ma lei sosteneva che essere diffidenti fa male allo spirito.
Quando ho aperto la porta, dall’esterno la luce è entrata nel salone e ha disegnato sul pavimento una striscia dritta e chiara, senza sbavature. L’ho lasciata così, e ho seguito la striscia fino al divano. Poi mi sono seduta e ho chiuso gli occhi.
Dopo un po’ ho sentito qualcosa di peloso sfiorarmi le gambe. Eddi, ho pensato. Chissà da dove saltava fuori. Lo avevamo cercato dappertutto e ormai pensavamo che non sarebbe più tornato. Un attimo dopo mi è saltato in braccio. Sono rimasta immobile. Quando mi è sembrato che si fosse sistemato, ho cominciato ad accarezzargli la testa, che è l’unico posto dove non gli dà noia.
Il telefono nella mia borsa ha cominciato a vibrare. Eddi ha drizzato le orecchie e si irrigidito, e io ho smesso di respirare. Ho pensato che magari era Andrea. Quel giorno me n’ero andata senza dirgli niente e non ci eravamo più sentiti. Ma non volevo che Eddi si spaventasse, e poi magari mi stavo sbagliando. Sono rimasta dov’ero e ho continuato ad accarezzarlo. Quando il telefono ha smesso di vibrare, Eddi ha messo giù la testa.
«È tutto a posto» gli ho detto. «È tutto a posto.»